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Centro Storici: degrado e speranza
6 Maggio 2013
Beni culturali
Coordinato da Tomaso Montanari, un numero speciale

del Fatto Quotidiano, 6 maggio 2013), dedicato alla componente pricipale del nostro patrimonio: alla maggiore ricchezza d'Italia (se non ci si chiude nell'ottica distruttiva delle "merci" e dei "giacimenti cultural". Articoli su Napoli (Vincenzo Iurillo, Roma (intervista di Ferruccio Sansa a Vezio De Lucia), Enrico Fierro (Palermo), Michele Concina (Venezia), l'Aquila (Tomaso Montanari)

Tomaso Montanari

Il vero capolavoro della storia dell’arte italiana non è quella singola scultura di Michelangelo, o quel singolo Caravaggio: è ciò che oggi chiamiamo il “centro storico”. La Carta di Gubbio del 1960 lo definisce un “organismo urbano unitario cui va riconosciuta la qualità di bene culturale”. Un'opera d’arte abitata, insomma: come un corallo vivo. Di questi capolavori in Italia ne abbiamo circa 22.000: creati al tempo dei fenici, degli etruschi, dei greci, dei romani. Oppure medioevali, rinascimentali, barocchi e giù giù fino allo spartiacque della Grande Guerra. I nemici dei centri storici sono tanti. Il primo è lo spopolamento: nel 1971 il centro di Perugia aveva 15.000 abitanti, oggi 9.000; quello di Roma ne contava 358.291 nel 1951, 118.197 nel 2003. E poi la speculazione edilizia, le liberalizzazioni selvagge dei negozi, il turismo ossessivo (che umilia Venezia e prostituisce Firenze). L’abbandono della manutenzione ordinaria da parte delle amministrazioni, stroncate dalle leggi finanziarie degli ultimi vent'anni: il disastro è clamoroso a Napoli e a Palermo. La tragedia dell’Aquila è il culmine di uno sfascio diffuso. C’è un nesso tra il collasso della vita civile e politica e il collasso del patrimonio artistico. Per secoli, anzi per millenni, la forma dello Stato, la forma dell’etica, la forma della civiltà stessa si è definita e si è riconosciuta nella forma dei luoghi pubblici. È vero anche oggi, e questo è il problema: la sfida non è la ricostruzione materiale, è la ricostruzione civile.

Napoli, città chiusa per crolli
di Vincenzo Iurillo

Napoli. Il luogo simbolo dello scempio del patrimonio chiesastico napoletano è il perimetro murario del Chiostro di Santa Chiara. Imbrattato dai graffiti come una stazione della metropolitana. Con tanto di cuoricini e di improbabili “ti amo” verniciati sulle pareti. Impossibile non farci caso per i turisti, non molti, che si radunano all’ingresso, macchinetta fotografica rigorosamente al collo, costretti a brancolare a tentoni per la distruzione sistematica dei cartelli di segnalazione. Per fortuna l’attiguo Monastero di Santa Chiara gode ancora di discreta salute. Ma di fronte, la guglia dell’Immacolata di piazza del Gesù soffoca tra le sterpaglie che lesionano il marmo. Lo stesso problema del campanile della chiesa di S. Agostino alla Zecca e della chiesa del Gesù Nuovo.

Pochi sanno che il numero di chiese di Napoli è addirittura superiore a quello di Roma. Peccato che su 500, più di 200 risultino chiuse al pubblico, come la Chiesa di Sant’Aniello a Caponapoli, la Chiesa dell’Arciconfraternita di San Girolamo dei Ciechi, o la Chiesa di Santa Maria Vertecoeli. Diroccate come la Cappella di Sant’Antonio alla Vicaria o la Chiesa dei Santissimi Cosma e Damiano che si staglia tra i rifiuti di Largo Banchi Nuovi, un’opera del 1700 che John Turturro ha scelto per uno degli sfondi del film “Passione”. Sottoposte a lavori di restauro infiniti. Nel peggiore dei casi, saccheggiate dai ladri che si sono portati via altari, maioliche, candelabri, vasche sacre. È quel che è accaduto alla Chiesa di Santa Maria in Cosmedin in piazza Portanova, risalente ai tempi dell’Imperatore Costantino. Depredata di tutto. Persino delle reliquie di un cardinale.

Succede questo e altro a Napoli, capitale della convivenza tra bello e degrado, dove la medaglia del riconoscimento di patrimonio Unesco è appannata da decenni di incuria, e l’invito della nuova edizione del Maggio dei Monumenti a visitare “chiostri, cortili e sagrati” fa sorridere amaro Antonio Pariante e Vincenzo Giunta, tra gli animatori del Comitato di Portosalvo, presidio intellettuale di lotta per la riqualificazione delle bellezze culturali del centro storico. “Proviamo a visitare - dicono - il cortile medievale del complesso monastico di Sant’Anna dei Lombardi, che comprende la bellissima Chiesa dove sono custodite le opere del Vasari”. È una sollecitazione provocatoria. Quel cortile è inaccessibile, ora è il parcheggio delle auto dei carabinieri della caserma Pastrengo. L’ingresso è sbarrato da un cancello con lamiera “graffitata” per ostacolare lo sguardo dei curiosi. La scala di piperno antico, a sua volta, è divelta. Un orrore.

I monumenti e i palazzi “laici” non se la passano certo meglio. Due esempi per tutti. La celeberrima piazza del Plebiscito, la cui pedonalizzazione fu l’avvio del Rinascimento Napoletano degli anni ‘90, è stata letteralmente presa d’assalto dai graffitari. Che non hanno risparmiato neppure i leoni di pietra presso il colonnato e le statue equestri di Carlo III di Borbone e di suo figlio Ferdinando I. E il meno conosciuto Palazzo Penne, architettura durazzesca del 1400, nei pressi del Largo Banchi Nuovi, nel ventre di Napoli. Un rudere, ormai. Mortificato da brutti e mal eseguiti lavori di ristrutturazione, per i quali nessuno ha pagato prezzo: il processo si è concluso tre settimane fa con l’assoluzione di tutti gli imputati.

Se uno vuole aprirsi a un cauto ottimismo, può visitare la Chiesa di Sant’Anna dei Lombardi, un prodigio dell’architettura del XV secolo, passando purtroppo per la fontana di Carlo II d’Asburgo vandalizzata dalle scritte “Wc”. Chiesa bellissima e tutto sommato ben tenuta. Tranne che per le infiltrazioni d’acqua che stanno rovinando la cappella delle sculture del Mazzone. Sembra che l’acqua stia mettendo in pericolo anche la Chiesa di S. Giacomo degli Spagnoli, annessa al palazzo dell’amministrazione comunale.
Ma il problema non sono solo le piogge. A Napoli il terremoto del 1980 è un incubo mai superato. La Chiesa di San Michele Arcangelo nei pressi di piazza Dante, di stile barocco, è stata chiusa per un restauro post-sisma durato circa 30 anni. Le lesioni alle volte sono visibili a occhio nudo. Ma almeno questa è accessibile.

Le chiese chiuse e mai riaperte per il sisma si contano a decine. Una ferita mai rimarginata, nonostante i 150 milioni di euro spesi in trent’anni nella sola provincia napoletana. Il restauro della chiesa Ecce Omo, tra i bassi dei vicoli, è costato svariati milioni. La chiesa però è chiusa.

Ma anche quando sono disponibili, le, discutibili scelte di gestione lasciano sbarrate al pubblico i gioielli del cuore di Napoli, ad esempio nel ponte di fine aprile, per lo sconforto di chi immagina le file per visitare i musei e le chiesi di Firenze. È il caso della Chiesa e del vicino Chiostro di Santa Maria la Nova, che ospita anche le sedute del consiglio provinciale. Ingresso sbarrato per il vicino Museo d’Arte Religiosa Contemporanea. Semaforo giallo al Museo di Capodimonte: è aperto, ma il piano che ospita le opere di Andy Wahrol, no. I carabinieri si sono annessi un cortile sacro per le loro auto, la polizia si è accontentata di parte di un sagrato per gli scooter degli agenti. La “porta d’ingresso della Casa del Signore” occupata da vespe e moto è quella della Chiesa di San Diego dell’Ospedaletto, costruita nel 1700, di fronte alla Questura. “Scusi, lei è della Soprintendenza”? La signora urla ma è gentile.

È di Napoli. C’è una piccola folla che si ripara dalla pioggia. “Stiamo aspettando qualcuno della Soprintendenza che ce la apra, avevamo appuntamento alle 11 ma è già trascorsa mezz’ora”. Non disperi. C’è invece da disperarsi a Largo Giusso, fotografando i muri della Cappella Pappacoda. Sono rovinati dai murales. Il frutto di ore, giorni, settimane di lavoro. Si tratta della Cappella attigua alla Chiesa di San Giovanni Maggiore. Di un fascino struggente, ben tenuta, spesso utilizzata per convegni e concerti, con cura e rispetto. Ma tutto intorno è il caos, tra bottiglie di birra rotte e un insopportabile tanfo di piscio. È Napoli, bellezza.

Roma deserta: persi due abitanti su tre
di Ferruccio Sansa

Il centro storico di Roma in pochi decenni ha perso i due terzi dei suoi abitanti: siamo passati da trecento ad appena centomila. Ormai i centri storici rappresentano meno del 10 per cento delle nostre città”. L’architetto Vezio De Lucia è senza dubbio uno dei massimi esperti italiani - e non solo - di centri storici.

Architetto, ecco, partiamo proprio da Roma. Quali sono le emergenze più urgenti nella Capitale? “Non vorrei nemmeno fare un elenco, sono decine. Basta sfogliare le cronache che parlano di crolli nella Domus di Nerone, lungo le Mura Aureliane... il punto è un altro: si è abbandonata ogni politica per salvare il centro storico. Una volta, giustamente, si riteneva che i centri storici dovessero essere fatti di pietra, ma anche di abitanti. Che dovessero essere salvaguardati i monumenti, ma anche la vita”.

In concreto cosa si proponeva di fare? “I nostri centri, e Roma in particolare, hanno perso ogni senso sociale. Non sono più abitati da tutti gli strati della popolazione. Abbiamo scacciato chi ha meno soldi, gli artigiani. Oggi le città storiche sono un concentrato di turismo, ricchi e attività opulente”.

Che cosa si può fare per mantenere davvero vivi i centri? “In Italia negli anni Settanta ci fu chi ebbe il coraggio di riportare le abitazioni popolari nei centri storici. Il primo fu Pierluigi Cervellati a Bologna. Poi toccò al grande sindaco di Roma, Luigi Petroselli. Un’idea straordinaria. Non l’unica: Petroselli lanciò il progetto dei Fori che fece parlare tutto il mondo. Si volevano recuperare i fori di Nerva, Cesare, Augusto, Traiano che sono nella zona di via dei Fori. Così l’archeologia sarebbe tornata al centro della città. Non chiusa in un recinto, ma come parte della vita attuale”.

Sono passati trent’anni e non se n’è fatto niente... “Nulla. Peccato, la nostra sinistra aveva avuto intuizioni importanti, ma oggi sembra quasi vergognarsene. Adesso, e non voglio fare campagna elettorale, però vedo che un candidato, Ignazio Marino, sta riproponendo quel progetto”.

Qualcuno teme di trasformare la città in un museo... “Macché, sarebbe il contrario. Così il nostro patrimonio tornerebbe a far parte della vita contemporanea. Ricordatevi cosa dicevano i “ragazzi di vita” di Pasolini che abitavano le borgate: “Andiamo a Roma”. Ma sono la stessa città”.

E l’architettura moderna? Noi non siamo contrari, anzi, ma soprattutto in città come Roma i nuovi interventi, di qualità, dovrebbero trovare spazio nelle periferie che sono tanto degradate”.

Centri storici trasformati in vetrine, deserti, senza abitanti, ma anche cadenti... “Certo, le risorse sono poche. Ma è una questione culturale, prima ancora che politica. E pensare che restaurare le nostre città porterebbe lavoro”.

Senza contare il turismo, la nostra principale industria... “Appunto, sarebbe anche un investimento redditizio. Ma abbiamo perso la cultura dei centri storici. Pensiamo ai singoli monumenti, mentre le nostre città sono un monumento nel loro insieme. I palazzi e le persone. E poi...”.

E poi? “Ci siamo dimenticati che la nostra storia è fatta di città. Ognuna diversa dalle altre, ognuna con una lingua propria. Ecco, le città ci ricordano chi siamo stati e chi possiamo essere. Ho sentito in questi anni parlare tanto di identità. Più di qualsiasi discorso sono le città la nostra identità”.


L’Aquila, dopo i discorsi l’Italia l’ha abbandonata
di Tomaso Montanari

Ieri gli storici dell’arte italiani si sono trovati all’Aquila per scuotere con forza tutte le istituzioni e ogni cittadino italiano: non ha paragone al mondo la tragedia di un simile centro monumentale (già) abitato che ancora giaccia distrutto, a quattro anni dal terremoto che l’ha devastato, e dalle scelte politiche che l'hanno condannato a una seconda morte. Dopo la migrazione di massa nelle new town imposta dalla Protezione Civile di Bertolaso e Berlusconi e passivamente subita dall'amministrazione Pd, il centro monumentale poteva morire in pace: non serviva più a nulla. Se non a resuscitarlo, con calma, per farne un parco a tema, Aquilaland.

Un destino prefigurato dall’ipotesi di parcheggi sotterranei e centri commerciali a spese del tessuto storico monumentale e abitativo. L’Aquila è oggi, suo malgrado, il simbolo della perdita di tutti gli elementi centrali della tradizione culturale italiana: il rapporto strettissimo tra città e cittadini; tra monumenti e vita politica; tra arte e spazio pubblico. Coerentemente con questo progetto distruttivo, durante i tre anni e mezzo del commissariamento berlusconiano nel centro dell'Aquila non si è tirata su nemmeno una pietra.

Da circa sei mesi , invece, è finalmente partita la più colossale campagna di restauri dell’Europa di oggi. Grazie all’ex ministro Fabrizio Barca e all'impegno di Fabrizio Magani (direttore generale dei beni culturali abruzzesi) e di tutto il personale delle soprintendenze, qualcosa finalmente si è mosso, almeno per gli edifici vincolati: 23 cantieri sono avviati, 2 stanno per esserlo, altri 25 partiranno a breve. In molti casi si tratta di luoghi simbolo: il Teatro nell’ex chiesa di San Filippo Neri (avviato con un milione e duecentomila euro raccolti dal cd “Domani”), Palazzo Ardinghelli (i primi 7 milioni vengono dal governo russo), la chiesa della distrutta cittadina di Onna, finanziata dal governo tedesco. O la meravigliosa basilica dove riposa San Bernardino, il grande predicatore senza denti che infiammava l’Italia centrale del Quattrocento contro le lobbies degli usurai e del gioco d'azzardo.

Ma è solo un timido inizio. Il centro è particolarmente esteso perché l'Aquila è una delle rarissime città fondate dai suoi stessi cittadini, e con un piano urbanistico dettagliatissimo in cui gli innumerevoli e meravigliosi spazi pubblici nascono proprio per rappresentare i tanti castelli del Comitatus Aquilanus che nel XIII secolo cercarono uno spazio comune che non fosse solo un mercato, ma una città. Di questo passo, per riavere l'Aquila com’era e dov’era bisognerà aspettare tra venti e trent’anni, ammesso che duri il flusso dei finanziamenti: un miliardo all’anno per i primi dieci anni. E già il primo miliardo appare in forse, come è apparso chiaro durante un’audizione di Barca al Senato, una settimana fa.

Anche ammesso che i fondi arrivino, diventa vitale che il restauro del centro sia progressivamente accompagnato dal ritorno degli abitanti. Non possiamo aspettare l’arco di una generazione per far trasferire gli aquilani dalle new town nelle loro vere case: bisogna immaginare una politica di incentivi che acceleri questo processo, e che faccia progressivamente rivivere il centro. Per far questo, la ricostruzione deve inserirsi in una pianificazione urbanistica governata dalla mano pubblica, e non deviata da interessi privati. Ad essa spetterà anche decidere del futuro delle new town: alcune dovranno essere abbattute, per ripristinare il paesaggio oscenamente cementificato, altre potranno forse trovare un uso proficuo, ma solo all'interno di un piano preciso.
Ma sarà possibile arrivare ad un progetto di città, in un Paese che non sembra avere un progetto su se stesso?

Morte a Venezia, 50 milioni di piedi affondano la laguna
di Michele Concina

Venezia che muore, Venezia appoggiata sul mare. È come una splendida donna ammalata. Ha occhi che incantano e capelli di seta, ma sente che le ossa s’indeboliscono giorno dopo giorno, le arterie s’intasano. Non rischia di sbriciolarsi domattina, la città unica; ma viene consumata in perpetuo, e non potrà certo resistere per sempre. Sott’acqua, la erode il moto delle onde, centuplicato da una finta modernità che ha affollato la Laguna d’imbarcazioni a propulsione meccanica, e dall’incoscienza che l’ha aperta alle colossali navi da crociera. Oltre la superficie, a logorare Venezia sono i quaranta, i cinquanta milioni di piedi che vengono ogni anno a calpestarla.

La dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi, Venezia la vende ai turisti. “Questa non è più una città, semplicemente. È un parco tematico, una Disneyland di pietra e d’acqua”, spiega Gianfranco Ortalli, decente di Storia medioevale a Ca’ Foscari. Oggi i residenti sono meno di sessantamila. Soverchiati da un esercito di turisti che le stime più prudenti quantificano in 22 milioni di presenze l’anno, quando già nell’88 il Comune fissava a 12 milioni il massimo sostenibile. “La presenza abitativa, coinvolta nella manutenzione della città, è schiacciata dalla presenza turistica, dedita esclusivamente al consumo di Venezia”, accusa lo storico dell’arte Tomaso Montanari. “E la città è gestita come una risorsa non rinnovabile, da sfruttare finché dura”.

Venezia è anche un sogno, di quelli che puoi comperare. Gli osservatori di cose veneziane, anche i più arcigni, concordano su un punto: rispetto a trent’anni fa, molti palazzi sono in condizioni migliori. È il risultato paradossale di due politiche che quegli stessi osservatori condannano, la privatizzazione del patrimonio edilizio pubblico e la terziarizzazione della città. Dato che non hanno soldi per la manutenzione, le istituzioni - a cominciare dal Comune - cedono i loro immobili di pregio ai privati più ricchi, che hanno risorse per metterli a posto. E intanto consentono il cambio di destinazione d’uso degli edifici privati, che vengono restaurati per farne degli alberghi.

Venezia è un imbroglio che riempie la testa soltanto di fatalità. Ma questo arcipelago di palazzi, talvolta rutilanti, è immerso in un tessuto connettivo di strutture in disfacimento. Ponti rappezzati, rive smangiate, fondazioni indebolite, imbarcaderi marciti, canali maleodoranti, scale consunte. Basta ascoltare chi la percorre tutti i giorni, la città di uso pubblico: i 433 gondolieri. “Da almeno una decina d’anni la manutenzione va scemando di continuo”, testimonia il loro presidente, Aldo Reato. “Si fanno solo rattoppi, e neanche di buona qualità”.

Lancia i suoi segnali d’allarme, la Venezia che è di tutti e non solo di qualcuno. In autunno è venuto giù un pezzo di Riva Parisi, poco dopo i sostegni della darsena di piazza degli Alberoni, al Lido. Un mese fa i giornali locali hanno scoperto che si sbriciola il pontile di Santa Chiara e affonda in Laguna la fondamenta delle Zattere. “Colpa del moto ondoso artificiale”, è la diagnosi di Reato. Perché è quasi inimmaginabile la quantità d’acqua che mandano a infrangersi contro le antiche pietre d’Istria le attuali navi da crociera. Mostri alti sessanta metri e lunghi trecento, a cui viene consentito di transitare di fronte a San Marco, di divorare anche visivamente il Palazzo Ducale. Un sistema urbano fragile come Venezia dovrebbe respingerli con le cannoniere; invece, Comune e Autorità portuale fanno a gara perché attracchino, perché scarichino altre folle a oberare la città. “Di fronte al ricatto del denaro anche le istituzioni, prone ai voleri del dio Mercato, sembrano pronte a tutto”, tuona Salvatore Settis, lo storico dell’arte più autorevole d’Italia.

Del resto del mondo non sai più una sega, Venezia è la gente che se ne frega. Neppure la tragedia del Giglio è bastata a interdire i Godzilla del mare. Il decreto emesso un anno fa dal governo Monti vieta il transito a meno di due miglia dalle coste. Con un’unica eccezione: Venezia, che sarà tutelata solo quando qualcuno, chissà come, scoprirà “vie di navigazione praticabili alternative”.
“I veneziani di oggi sembrano decisi a fare il massimo uso del favoloso tesoro che hanno ereditato, a sfruttarlo in ogni modo”, scrive Paolo Lanapoppi, di Italia Nostra, in “Caro turista”, uno dei titoli della coraggiosa casa editrice Corte del Fontego. La zampa del Leone non appoggia più sul vangelo di san Marco, ma su un libro contabile. E sopra c’è scritto: ultimi giorni, approfittatene.


Palermo, in pezzi duecento case e i sogni di rinascita
di Enrico Fierro

Da Palermo. I balati ra Vucciria 'un s'asciucanu mai". I balati, le strade, della Vucciria non si asciugano mai. E invece, trentanove anni dopo l'opera di Renato Guttuso, quei balati sono secchi. Muto il mercato. Non si sente più il venditore di pesce spada, quello che offriva cavallino, l'altro che magnificava la bontà unica delle sue stigghiole. Scomparsi per sempre i mille colori dei venditori di verdure, dei fruttivendoli capaci di tagliare angurie gigantesche con un colpo solo di coltello, perse le meraviglie architettoniche delle piramidi di arance che i venditori componevano sui loro banchi. "Un narratore o un commediografo, davanti alla Vucciria, avrebbero materia di scrittura sino alla fine dei loro giorni", ha scritto una volta Andrea Camilleri.
Ora quel narratore sarebbe sopraffatto dalla desolazione di palazzi transennati, mura fradice di pioggia e case pericolanti dove la vita che fu è raccontata da una selva di parabole arrugginite. É il destino del centro storico di Palermo. Trecento ettari di bellezze incomparabili, stili architettonici che si sono intrecciati e contaminati per secoli, la città disegnata dagli arabi che si mescola a quella pensata dai normanni, islam e cattolicesimo. Tutto questo era il cuore di Palermo. Ferito a morte dalle guerre, ucciso da anni di cattiva politica. Il centro storico della città, scrive Laura Azzolina in "Governare Palermo: storia e sociologia di un cambiamento mancato" – è il simbolo del degrado e, peggio, del dispregio con cui era stata gestita l'edilizia dai governi Dc negli anni del sacco di Palermo, il centro storico presentava ancora agli inizi degli anni Novanta edifici cadenti e le rovine dei bombardamenti del Secondo conflitto mondiale".
Vucciria, Capo, Albergheria, il degrado è qui, basta sfogliare le cronache cittadine per leggere titoli spesso ricorrenti che raccontano di crolli e morti. E rischia di non essere finita qui, visto che le case a rischio già accertato, secondo le stime del Comune, sono più di 250. La svolta rispetto agli anni del "sacco" della città, negli anni Novanta con la Primavera di Leoluca Orlando, quando il vecchio Piano di recupero varato nel 1979 fu sostituito da un impegnativo "Piano operativo di risanamento" finanziato con 25 miliardi di lire nel primo anno, 47 nel 1987, 65 nel biennio 1988-1989 e 70 nel 1990. Dal 1993 una nuova inversione con la definizione di un Piano particolareggiato di recupero affidato agli architetti Cervellati e Benevolo.
"Fu la grande intuizione di Leoluca Orlando", dice Alberto Mangano, per anni assessore del Comune di Palermo, oggi consigliere comunale e presidente della Commissione urbanistica. "Con molte luci e tante ombre – replica Ninni Terminelli, anche lui per anni consigliere comunale e oggi animatore di "Prospettiva politica" – ma Orlando riuscì a smuovere un immobilismo che durava da anni anche con un forte collegamento con l'Unione europea. Poi, con il decennio di amministrazione del Pdl tutto si fermò. Cammarata smantellò l'ufficio Europa del Comune". L'obiettivo di Orlando era quello di riportare almeno 50mila palermitani nel cuore della città, ma dopo anni di piani e previsioni solo in 30mila vivono nel centro storico, in mille sono scappati nei dieci anni di Cammarata. "La spinta propulsiva delle prime giunte Orlando si è fermata in quel periodo", è l'analisi di Mangano.
"Operavamo utilizzando le leggi regionali e i fondi Urban della Comunità europea, l'obiettivo era quello di risanare le case di riportare al centro le attività produttive e commerciali". Furono risanate chiese, recuperato il complesso di Sant'Anna, lo Spasimo, il Noviziato dei Crociferi. Ma oggi, in un periodo di crisi e di tagli feroci ai Comuni, come si fa a continuare l'opera di risanamento? "Dobbiamo puntare all'utilizzo di un teso-retto di almeno 15 milioni avanzati da bandi degli anni passati, ed in più convincere le cooperative sociali che operano in edilizia ad investire nel recupero di palazzi e appartamenti del centro storico. É una strada obbligata in una città dove le aree da destinare all'edilizia economica e popolare sono esaurite da tempo". "I balati ra Vucciria 'un s'asciucano mai" sopravvive solo come antico detto palermitano.
La realtà, scrive la studiosa Teresa Cannarozzo, è che "il centro storico continua ad esprimere contemporaneamente valori e disvalori: elementi di eccellenza, estremo degrado, marginalità sociale ed economica; invadenza della piccola e grande criminalità; crescita esponenziale del valore commerciale degli immobili; appetiti speculativi palesi e occulti. In assenza di politiche pubbliche all’altezza della situazione".

La nostra vita ha bisogno di un Centro
di Tomaso Montanari

Per noi che viviamo nelle vecchie città italiane, è abbastanza consueto dire: «Vado in centro!». Ma provate a fermarvi con la macchina a Forth Worth, in Texas, e chiedete a un passante dov'è il centro. Vi guarderà stupito, senza capire. Infine, vi spedirà in un centro commerciale.
Cosa c'è nel centro 'storico' delle nostre città? Ci sono i luoghi di tutti, quello che si chiamano gli «spazi pubblici»: la piazza, il palazzo del Comune (cioè comune, di tutti), la fontana, la chiesa. Quando fu fondata l'Aquila (quasi ottocento anni fa), lo Statuto comunale diceva che i singoli cittadini dei vari quartieri potevano farsi la casa, solo dopo aver costruito piazza, chiesa e fontana: le cose di tutti venivano prima delle cose private.

Ed erano più belle. Oggi sembra tutto il contrario: sembra che alle cose di tutti non ci teniamo tanto, come se fossero di nessuno. Ma se ci pensate passiamo una gran parte della nostra vita nei 'centri' comuni: a scuola, sui mezzi pubblici, per strada. Allora può servire tornare a conoscere i 'centri' costruiti dai nostri padri. Noi pensiamo che le opere d'arte siano dei singoli gioielli che possiamo trasportare dove vogliamo. Ma i centri storici sono delle vere e proprie opere d'arte: più preziose della somma delle singole opere d'arte che contengono. Perché sono degli organismi viventi, dei libri da sfogliare, dei depositi di memoria: e sono anche abitati.

Prendiamone uno meraviglioso, dove sono tornato pochi giorni fa: San Martino al Cimino, in cui (come accade ancora spesso) paese e centro coincidono. È a pochissimi chilometri da Viterbo, dopo l'ospedale (che è invece brutto in un modo terrificante: un enorme muraglia di cemento che spaccia un colle e un paesaggio). Nell'Europa del Medioevo (forse più unita della nostra) San Martino nasce intorno ad un pezzo di Francia piantato nella Tuscia: un'abbazia dei cistercensi di Pontigny. Ma il momento d'oro del borgo è il Seicento quando la cognata di papa Innocenzo X, Donna Olimpia Pamphilj, ne diventa principessa. La Pimpaccia (così la chiamavano i romani) non era proprio uno stinco di santo, ma porta a San Martino le migliori menti dell'arte romana: e il paese si trasforma in una specie di enorme Piazza Navona sperduta in campagna, con le sue fontane, le sue scale, il gigantesco palazzo Pamphili.

E, certo, va vista l'abbazia con ognuno dei suoi capitelli, va visto il meraviglioso stendardo di Mattia Preti e molto altro ancora: ma a parlare davvero è ogni pietra, ogni grata, ogni getto d'acqua. Come tanti strumenti in un'orchestra.In questa primavera, fatevi portare dai vostri genitori ad ascoltare quelle strepitose orchestre che sono i nostri centri storici.

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