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Fabrizio Bottini
Topi da Laboratorio di Urbanistica
14 Dicembre 2012
Il mestiere dell'urbanista
Quando si parla di città e territorio, è opportuno non mescolare troppo un approccio di carattere generale, che vede al centro la società e protagonista assoluto il cittadino, e uno professionale, molto diverso

Quando si parla di città e territorio, è opportuno non mescolare troppo un approccio di carattere generale, che vede al centro la società e protagonista assoluto il cittadino, e uno professionale, molto diverso

Negli ultimi giorni ci hanno lasciato quasi contemporaneamente due giganti del pensiero, almeno per quanto riguarda la nostra idea condivisa di città moderna. Mi riferisco naturalmente a Oscar Niemeyer e a Guido Martinotti, indiscussi maestri rispettivamente dell’approccio architettonico progettuale modernista, e di quello sociologico del territorio, con particolare riguardo ai contesti metropolitani. Coincidenza tristemente utile, perché entrambi i protagonisti occupano in modo vistoso una posizione estrema nelle scale di giudizio correnti, ovvero da un lato quella che considera “urbanistica” tutto ciò che concerne la progettazione delle trasformazioni fisico-edilizie alle varie scale, dall’altro quella che allarga il campo – quasi ovviamente, viene da dire – alla componente umana, che distingue questi contenitori spaziali da lucide scatole desolatamente vuote. Entrambi approcci fondamentali, fondativi dell’urbanistica, quelli dell’architettura e della sociologia del territorio, che insieme a tanti altri hanno concorso a definire la disciplina più o meno com’è oggi.

Con una precisazione importante: tanti approcci significano anche tanti punti di vista, opinioni su quale possa essere il baricentro irrinunciabile dell’idea di città, e non si può negare che (soprattutto in Italia, ma non solo) la parte del leone spetti al contributo del progetto di trasformazione spaziale. Una cosa che vale sia per l’immaginario collettivo, sia in buona parte per l’esercizio professionale in senso lato, dalle consulenze private, alla pubblica amministrazione, all’insegnamento superiore e universitario. Naturalmente se si ragiona solo un istante sulle radici, sulla stessa legittimazione dell’idea di città e metropoli contemporanea, il pensiero non può che correre subito a figure che col progetto c’entrano direttamente poco o nulla. Esempi internazionali classici ne sono Robert Moses e Jane Jacobs, protagonisti a metà ‘900 dello scontro, dialettico e non solo, da cui in sostanza nasce la fondamentale critica al meccanicismo razionalista ancora pienamente attuale. Dottore in scienze politiche il primo, autodidatta senza alcun titolo superiore la seconda, rappresentano benissimo tante altre figure di spicco nella costruzione dell’urbanistica contemporanea, fra cui ad esempio in Italia Antonio Cederna, fra tutti.

Una grande ricchezza e complessità, che trovano un corrispettivo anche nel dibattito sulla formazione superiore dell’urbanista, cosa ben testimoniata dall’evoluzione dei corsi universitari e di specializzazione in tutto il mondo. Nel mio la Città Conquistatrice ho scelto di inserire, da questo punto di vista, i due contributi dell’europeo Gaston Bardet e dell’americano Frederick Adams: il primo con un orientamento molto tecnico e amministrativo diciamo “tradizionale” legato alle Alte Scuole francesi, il secondo più empiricamente anglosassone e aperto alle contingenze, che nel periodo in cui viene formulato vedono in primo piano le scienze sociali. Sappiamo tutti, poi, che negli ultimi decenni è emersa un’altra centralità, quella ambientale, a cui specie nel contesto europeo e italiano va sicuramente aggiunta e affiancata quella dei beni culturali e del paesaggio (questione specifica, e diversa dalla cultura del landscape). Ma, e ancora in particolare nella vicenda italiana, l’innegabile trait-d’union novecentesco di tutte le possibili prospettive urbanistiche resta comunque l’approccio progettuale, unito ad una certa sensibilità intuitiva.

E arriviamo all’attualità spicciola, che spicciola non è affatto, a ben vedere. Accade di recente nel nostro paese che per una integrazione didattica in un Laboratorio di Urbanistica universitario la Commissione giudicatrice, esaminati i curricula dei candidati, opti per un profilo non tecnico-progettuale, in particolare per una laurea spiccatamente umanistica e un percorso autodidatta. Siamo in buona sostanza, sul versante del metodo, dalle parti di Robert Moses e Jane Jacobs, ma trattandosi di concorso pubblico emerge il terzo incomodo: un ricorrente che rivendica classica e diversa interpretazione dell’urbanistica, un laureato in architettura, che si considera competente e formalmente qualificato, molto più di quanto non possano mai garantire gli altri due. Ecco: potremmo essere davvero di fronte a un’occasione per ragionare ancora sull’urbanista, sul rapporto fra discipline scientifiche, territorio, società. Invece la difesa d’ufficio della discrezionalità della Commissione (che ribadisce pubblicamente la propria scelta iniziale) ci porta in tutt’altra direzione. Ovvero dalle parti di quanto è identificato diffusamente come uno dei problemi centrali della nostra università: la selezione del personale docente.

Perché tutto, ma proprio tutto, il dibattito sull’alta formazione dell’urbanista, sin dai primi vagiti britannici a cavallo della Grande Guerra, che ne la Città Conquistatrice ho voluto riassumere con un raro articolo del giovane Patrick Abercrombie, si svolge a colpi di sistematicità dei percorsi, verificabilità dei titoli, strutturazione delle materie. Abercrombie già allora sottolineava con un efficacissimo cortocircuito quanto sia importante uscire da pur ricche vaghezze di sensibilità spazio-sociale spontanea collettiva: tutti conosciamo in qualche modo il territorio, ma l’urbanista comunque inteso sa tradurre questa conoscenza in operatività, ad esempio il militare che vince la battaglia sfruttando al meglio il campo. O per saltare ai nostri giorni il giovane Obama (tra l’altro futuro docente universitario), che da social organizer si portava appresso il libro di Jane Jacobs nel ghetto di Chicago per far interagire al meglio gli abitanti col loro quartiere. Sistematicità verificabile, percorsi di riflessione che si possono fare in una direzione o nell’altra, e che quindi sono in grado di stimolare altra sistematicità a chi si forma studiandoli e partecipando. Ad esempio in un Laboratorio di Urbanistica universitario (che è anche altro rispetto a un workshop partecipativo o a un seminario aperto).

Forse di questo, si dovrebbe parlare, replicando alle proteste, più o meno fondate, di chi si è sentito escluso da quello che considerava un diritto. Se c’è una vera differenza di legittimazione a esprimere e comunicare ad alto livello una cultura della città e del territorio, non è certo fra approcci tecnico-progettuali, o analitici, o storico-critici, o di carattere sottilmente trasversale e interdisciplinare. Piuttosto di garanzia a offrire una struttura comunicativa sistematica, e non un generico stimolo, per cui esistono altre forme, diverse da quelle degli incarichi di docenza. Almeno, così credo dovrebbe essere, ma probabilmente non ho capito nulla, e non mi riferisco solo all’urbanistica comunque intesa.

(le “prime puntate” di questa discussione aperta sono prima la notizia dal quotidiano La Nazione con relativa postilla, e poi l’articolo di Francesco Ventura sul caso)

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