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Maria Cristina Gibelli
PGT di Milano: manca il coraggio o manca la sinistra?
20 Dicembre 2012
Milano
«La sinistra pare proprio aver perso la sua identità quando si tratta di ripensare alla città e all’urbanistica». Un'analisi serena e senza veli del 'nuovo' Piano di Governo del Territorio milanese. Scritto per eddyburg

La sinistra pare proprio aver perso la sua identità quando si tratta di ripensare la città e l’urbanistica.
Fra le tante componenti che la crisi delle ideologie ha ridotto in pezzi che non riescono a ricomporsi, vi è sicuramente l'idea di città, o almeno una sua declinazione davvero progressista, orientata al bene comune.
Da Milano, dal suo ‘nuovo’ Piano di Governo del Territorio, ci aspettavamo una decisa presa di distanza dal modello neoliberista e mercatistico che ha dominato nelle politiche urbanistiche lombarde: un modello che, dall’inizio degli anni ’90 in poi, ha progressivamente smantellato il sistema di pianificazione, nel silenzio, quando non con l’esplicito sostegno, di una parte della cultura tecnica e politica. Ci aspettavamo maggiore creatività e coraggio e, soprattutto, risposte innovative alle speranze e alle attese dei cittadini che avevano votato per il cambiamento.

Così non è stato.
A Milano, con il ‘nuovo’ PGT, si sta toccando con mano questa perdita di identità della sinistra.
Come noto, il PGT, adottato dalla Giunta Moratti nel 2010 ma non ancora divenuto efficace allo scadere del mandato, era un piano meramente al servizio del mattone: prometteva infatti espansioni edilizie tali da poter accogliere in prospettiva 257.946 nuovi abitanti (sugli attuali 1,3 milioni). Ma analisi attente delle previsioni di sviluppo urbanistico-edilizio avevano evidenziato un ben maggiore sovradimensionamento delle opportunità edificatorie: per oltre 600.000 nuovi abitanti!

Fra i primi atti del nuovo governo municipale retto da Pisapia in materia urbanistica vi fu una decisione apparentemente coraggiosa: si decise di revocare la delibera di approvazione del Piano di Governo del Territorio, ripartendo dal riesame delle osservazioni che erano state respinte in blocco dal governo precedente. Un preludio necessario, pensavamo, per ricostituire un sistema di garanzie, trasparenza e pubblicità; preliminare, pensavamo, a una profonda e radicale revisione del Piano. Ma il Piano non è stato cambiato in maniera sostanziale e si è persa una grande occasione: di provare a ripensare alle politiche urbanistiche milanesi in una dimensione davvero metropolitana e con una visione di respiro europeo.
Il riesame delle osservazioni non è infatti servito, come era possibile e legittimo, per riaprire la ‘questione urbana’ milanese, ma per dare un segnale di solo apparente discontinuità e per completare al più presto i lavori garantendosi una ossequienza formale alla tempistica prescritta dalla legge 12/2005; in pratica per non rischiare le procedure commissariali.

Ci chiediamo: perché, di fronte a sfide così rilevanti e troppo a lungo trascurate, si è scelta la strada del minor rischio? Non sarebbe stato più lungimirante, e un vero segnale di cambiamento, cestinare il Piano Moratti/Masseroli e dare forma a una nuova visione strategica per l’intera area metropolitana milanese, anche a costo di incorrere nelle sanzioni di legge per le amministrazioni inadempienti (una situazione in cui si trovano oggi del resto molti altri comuni lombardi)? Oltre tutto, in una fase di crisi manifesta del settore edilizio/immobiliare; con la prospettiva, sia pure incerta, di imminente istituzione delle Città Metropolitane e con l’accumularsi di scandali che hanno totalmente delegittimato il governo regionale?
Si è invece preferito produrre un piano soltanto blandamente modificato del quale non condividiamo né il metodo né il merito.
Approvato il 22 maggio 2012 in tutta fretta dal Consiglio Comunale un documento ancora in bozza, in cui venivano segnalate con i diversi colori le modifiche apportate al Piano Masseroli – peraltro difficilmente comprensibili ai non addetti ai lavori - e senza tavole allegate (!), il Piano è stato pubblicato in versione completa sul BURL il 21 novembre 2012. Ma solo contestualmente alla pubblicazione, il PGT integrale è stato messo in rete, consentendoci finalmente di conoscerne i contenuti, di fatto sottraendo alla civitas il diritto alla informazione e al dibattito critico.

Dunque, è in primo luogo il metodo con cui si è arrivati alla pubblicazione del Piano a suscitare sconcerto: una frettolosa discussione in Consiglio Comunale su Bozze di Piano ‘secretate’(è grazie a Masseroli, proprio lui, che le Bozze sono state inserite in Internet e rese accessibili ai cittadini!) e senza tavole allegate; una approvazione con un solo voto contrario e l’assenza dall’aula dell’opposizione; la pubblicazione del PGT completo sul BURL, giusto in tempo per ottemperare alle scadenze imposte da un governo regionale già in caduta libera.
Strategia davvero discutibile: oltre a qualche evento di presentazione a carattere celebrativo e piuttosto retorico, che ha lasciato gran parte delle possibili questioni inevase, del PGT e dei suoi contenuti poco o nulla si è saputo; e dal recinto chiuso dei decisori e dei loro consulenti nulla è filtrato alla società civile e ai cittadini, salvo ostici e incompleti documenti di dettaglio per soli addetti ai lavori e incontri pubblici pilotati.

Il governo locale milanese ha una volta di più mostrato una modesta propensione all’ascolto e alla costruzione partecipata del piano, in un’epoca in cui tutte le grandi città europee hanno ormai fatto di queste procedure il fondamento della propria legittimazione.
Ma il nuovo Piano di Governo del Territorio ci lascia perplessi anche nel merito, e ci conferma una volta di più dell’intreccio, arduo da districare, fra politica, finanza e mattone che tanto ha nuociuto e continua a nuocere alla vivibilità urbana.
Sono davvero troppo modesti i cambiamenti rispetto alla versione Moratti/Masseroli. Qui segnalerò soltanto le criticità più rilevanti, rinviando agli articoli di approfondimento già pubblicati su eddyburg. E altri ne seguiranno.

Il nuovo PGT ha stabilito che il Parco Sud non potrà generare diritti edificatori trasferibili altrove e ha operato una riduzione dell’indice unico di edificabilità e delle quantità previste in alcune aree di trasformazione.
Ma quest’ultima misura a ben vedere più che un segnale di inversione di rotta (anche se la stampa ne ha enfatizzato la rilevanza) appare poco incisiva, data la drammatica crisi economica e del settore edilizio, e di solo buon senso a fronte di un mercato già carico di tensioni e di quote elevatissime di invenduto o sfitto. Inoltre, la indicazione ufficiale di una capacità insediativa aggiuntiva di 182.873 abitanti teorici appare comunque molto elevata. Si tratta di un incremento del 13% rispetto alla popolazione attuale, in una città dal perimetro angusto e già molto densa. E alcune verifiche puntuali in corso, che pubblicheremo su questo sito, stanno evidenziando dati assai più preoccupanti: gli abitanti teorici potrebbero essere più del doppio. Comunque, una vera assurdità!

Su altri aspetti cruciali il Piano appare molto debole, se non rischiosissimo: è privo di qualsivoglia visione di ampio respiro proiettata sul futuro della regione urbana, chiuso in una dimensione tutta milanocentrica, muto sulla disponibilità di spazi pubblici e nuove funzioni pubbliche di rilievo, evasivo sulla drammatica ‘questione delle abitazioni’ che affligge gli strati più deboli della popolazione.

Sono quattro le domande che vogliamo porre alla amministrazione milanese.

Ha senso continuare a pensare di rilanciare la città pubblica attraverso l’utilizzo estensivo, mai sperimentato altrove al mondo in un contesto urbano denso, di una perequazione urbanistica in cui “l’impiego, anche in forma frazionata, dei diritti edificatori è libero e può essere esercitato su tutto il territorio comunale edificabile” (Piano delle Regole, art. 7, comma 5)? Non solo la città pubblica non ne guadagnerà in qualità, ma si potranno determinare abnormi processi di addensamento centrale e disinteresse per bassa profittabilità di interventi sui tessuti periferici, nonché un indebito vantaggio per i proprietari di aree non centrali ai quali vengono attribuiti diritti edificatori utilizzabili ovunque e quindi anche al centro (si vedano i contributi di Camagni, Gibelli e Roccella in eddyburg).
La Giunta Pisapia si è assunta la responsabilità di avallare la versione più deregolativa possibile della già
controversa perequazione urbanistica: una versione che – ricordiamolo - la legge 12/2005 rende possibile, non certo obbligatoria.
È lungimirante ipotizzare che la qualità di Milano possa essere migliorata con un approccio meramente quantitativo? Se la scelta del mix funzionale nella città consolidata è lasciata libera (come è nel PGT milanese) e se manca una visione di futuro per la metropoli e per il suo territorio, non basterà certo una riduzione degli indici edificatori rispetto alle surreali previsioni insediative del PGT Masseroli a migliorarla. Anche se non sono questi i tempi per prevedere una spesa pubblica rilevante, non era forse possibile pensare, grazie all’ingente quantità di diritti edificatori concessi e attraverso accordi con i grandi proprietari, tra cui le Ferrovie dello Stato, di progettare e finanziare qualche nuova funzione di rilievo per Milano, per la sua area metropolitana, per la immagine internazionale?

È socialmente accettabile che l’edilizia residenziale sociale, che riceve un incremento dell’indice di utilizzazione territoriale di 0,35 mq/mq, sia obbligatoria soltanto negli Ambiti di Trasformazione Urbana e sulle aree d’intervento superiori ai 10.000 mq.? E che alla ‘vera’ edilizia economico popolare, e cioè in affitto a canone sociale, spetti la modestissima quota di 0,05 mq/mq, peraltro sempre sostituibile con altre categorie qualora l’operatore accetti l’onere della monetizzazione di una parte del “maggior ricavo” conseguito? E’ accettabile che, nel resto del tessuto urbano, la realizzazione di edilizia residenziale sociale sia unicamente affidata alla buona volontà/convenienza dei privati? A puro titolo di esempio di maggior coerenza fra obiettivi e azioni: nell’attuale PLU (Plan Local d’Urbanisme) di Parigi approvato nel 2005, e di cui il sindaco Delanoë ha fatto una bandiera del suo mandato descrivendolo come un piano che persegue la ‘rupture avec le passé’, per tutti gli interventi di nuova edilizia residenziale privata superiori a 800 mq. di superficie netta di pavimento, è obbligatoria una quota di edilizia residenziale sociale (HLM) del 25%: una misura considerata cruciale per garantire vera mixité. E nel Programme Local pour l’Habitat de Paris (2011-2016) questa quota è stata estesa anche alle porzioni più centrali e pregiate della città: il Marais e il Settimo Arrondissement).

E ancora, ha senso, per quanto riguarda il sistema della mobilità, avere ulteriormente rafforzato una progettualità tutta milanocentrica, anziché proiettata sulla regione urbana?

In conclusione

Le grandi promesse contenute nell’iniziale Documento di Indirizzo per il Governo del Territorio dell’ottobre 2011 si sono rivelate ingannevoli: “città come bene comune, concezione attiva della cittadinanza, metodo metropolitano, massimizzazione nell’housing sociale dell’affitto e, in particolare, della quota a canone sociale, mobilità dolce …” ecc. ecc…
Troppo invadente appare ancora oggi l’eredità del passato in cui Milano ha fatto da apripista e da cantiere sperimentale di tutte le controriforme urbanistiche lombarde: dalla radicale deregolamentazione volta a premiare gli interessi del mattone; alla semplificazione delle procedure al fine di sottrarre decisioni rilevanti al dibattito democratico in Consiglio Comunale; agli ampi premi concessi alla rendita fondiaria (volumetrie, monetizzazioni a prezzo di realizzo, oneri irrisori); alla propensione a evitare un diffuso e partecipato confronto con gli interessi deboli e le associazioni di base; alla opacità di procedure di elaborazione e approvazione degli atti di pianificazione sempre tese a sopire e sedare.

Preoccupante è stata la mancanza di informazione e confronto pubblico, come d’abitudine sostituita da retoriche occasioni celebrative piene di promesse anziché di contenuti.
Imbarazzante infine, come da troppi anni avviene, è stato il sostegno di parte della cultura urbanistica, e nel caso particolare del Politecnico di Milano che in passato aveva già avuto modo di distinguersi per autocensure quando non per aperto supporto alle strategie ‘innovative’ dell’urbanistica milanese.
Alla domanda di cambiamento delle regole del gioco, di coinvolgimento civico e di trasparenza, che ha costituito una delle leve potenti del successo elettorale di Pisapia si è risposto, per quanto riguarda la politica urbanistica, scegliendo la strada del minore attrito con gli interessi forti, del restyling, del business as usual.

Davvero, ci aspettavamo un’altra storia. Questo piano, che ha dovuto soggiacere a vincoli istituzionali rilevanti (veri o presunti), dovrà essere subito riconsiderato e rinvigorito per quanto riguarda beni comuni, funzioni pubbliche e apertura a una dimensione davvero metropolitana. D’altra parte, proprio la legge regionale lo consentirebbe, grazie alla sua filosofia di fondo che rende gli atti di pianificazione sempre modificabili: una flessibilità che nel breve periodo potrebbe tornare utile per porre rimedio ai difetti più vistosi di questo Piano.
Non ci resta che sperare infine che un eventuale e auspicabile futuro Presidente di una Giunta progressista al comando della Regione Lombardia si dimostri consapevole della immediata necessità di riscrivere la inaccettabile Legge di Governo del Territorio: che è tale solo nel titolo.
E basta restyling per favore!
La legge 12 ha già fatto troppi danni. Occorrerà mettervi mano e riformarla completamente!

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