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Federico Rampini
Il capitalismo gentile “un modello di convivenza civile contro l’arroganza”
4 Luglio 2012
Recensioni e segnalazioni
Un titolo fuorviante per un’intervista interessante su un libro da leggereLa Repubblica, 4 luglio 2012

Parla Jeffrey D. Sachs tra gli economisti più celebri del mondo, mentre in Italia viene pubblicato il suo nuovo saggio che propone una terapia per uscire dalla crisi

«Stiamo vivendo sotto gli effetti di un tracollo finanziario, ma la crisi finanziaria è solo una parte di un problema più vasto: le dinamiche sociali legate alla globalizzazione. Quel che sta accadendo nell’eurozona non si capisce altrimenti: come gli Stati Uniti, molte nazioni europee non hanno affrontato la dimensione sociale della globalizzazione; i ricchi si sono dissociati, abbandonando il resto della società al suo destino ». Jeffrey Sachs è uno degli economisti più celebri nel mondo. Docente alla Columbia University di New York dove dirige lo Earth Institute, in passato Sachs ha esercitato la sua analisi e la sua verve polemica soprattutto contro due bersagli: il fallimento delle tradizionali politiche di aiuto allo sviluppo; e la distruzione dell’ambiente. Nel suo ultimo libro, Il prezzo della civiltà,che esce in Italia da Codice Edizioni, il tema è ancora più vicino a noi: è la nostra crisi, le cause, la terapia per uscirne. Il titolo si riferisce alle tasse: quasi parafrasando la definizione che ne diede Tomaso Padoa-Schioppa, Sachs vede nelle imposte il prezzo da pagare per la costruzione di una società solidale, un patto sociale inclusivo, un modo civile di convivere. In questa intervista, Sachs mi spiega anche perché la sua analisi rivaluta proprio il modello sociale europeo, nella sua versione più riuscita.

Il mondo intero guarda all’eurozona come all’epicentro della nuova crisi. Per lei invece è solo un capitolo di una vicenda generale?

«La crisi europea è la manifestazione finale degli effetti patologici della deregulation finanziaria, che ha esaltato la mobilità dei capitali, ha ingigantito il potere delle banche nei nostri sistemi politici, ha portato a bolle speculative, bolle immobiliari, accumulazione di debiti. Tutti i paesi sviluppati sono coinvolti: Stati Uniti, Europa, Giappone. Il punto di partenza comune risale a 25 anni fa, all’ascesa della Cina nell’economia globale, al modo in cui questo fenomeno è stato gestito politicamente, alle sue conseguenze sociali: un aumento delle diseguaglianze, l’impoverimento dei lavoratori e del ceto medio. Questa evoluzione del capitalismo contemporaneo ha indebolito le democrazie, il peso del denaro nella politica è aumentato a dismisura: l’Italia di Silvio Berlusconi è stata un esempio estremo, ma anche l’America soffre di un problema analogo».

Nel suo libro infatti lei non si occupa solo di economia, ma invoca la costruzione di una “società consapevole”. Più del capitale finanziario le interessa il capitale sociale, in particolare le “virtù civiche”. E alla fine il modello che le piace di più, lo trova proprio nella vecchia Europa?

«C’è una parte dell’Europa che sta andando bene, è la Scandinavia. Io sono un socialdemocratico, ammiro il modo in cui i paesi nordici affrontano questa crisi. Non cercano di risolvere tutto attraverso i tagli alle spese sociali. Hanno trovato un felice equilibrio tra un modello industriale fondato sulle produzioni di alta qualità, le tecnologie avanzate, insieme con un notevole livello di investimenti pubblici a favore della scuola e delle politiche familiari. Sono paesi che non voltano le spalle ai poveri».

Ciò che lei dice della Scandinavia è un tabù qui negli Stati Uniti, dove in piena campagna elettorale la destra demnizza ogni intervento pubblico, e perfino i democratici non si sentono di sfidare apertamente l’atmosfera anti-Stato.

«La retorica dominante nel discorso politico americano indica come unica soluzione della crisi i tagli alla spesa pubblica. Ma un’analisi seria dei paesi che hanno i migliori risultati a livello internazionale, ci rivela che sono quelli che investono di più in favore dei giovani. Qui a New York i ristoranti di lusso sono pieni, si respira l’atmosfera di un nuovo boom, la vita per chi sta ai vertici è un party, non c’è mai stato così tanto denaro in circolazione, e il candidato repubblicano Mitt Romney può impunemente dare la scalata alla Casa Bianca pur essendo un multi-milionario coi conti offshore. Anche in Italia avete conosciuto un’era di connubio tra politica e denaro. Paesi come Stati Uniti e Italia non hanno fatto nulla per affrontare le dislocazioni e i traumi della globalizzazione. Il problema lo affrontano correttamente quelle socialdemocrazie dove ad ogni bambino che nasce, si cerca di garantire un percorso di opportunità: servizi sociali alla famiglia, scuole pubbliche di qualità, assistenza sanitaria».

Il paradosso dell’eurozona, però, è un paese come la Germania che in casa sua ha un modello sociale avanzato, ma sta imponendo ad altri delle politiche di austerity che impoveriscono il Welfare.«È lo stesso errore che viene commesso qui negli Stati Uniti: basta ascoltare gli attacchi della destra contro la riforma sanitaria di Barack Obama, che sono perfino rinvigoriti dopo la sentenza della Corte suprema. La destra americana continua a ripetere che l’unica soluzione è meno Stato, più mercato. Mentre le migliori socialdemocrazie europee dimostrano che lo Stato eroga servizi – per esempio per la salute – in modo meno costoso e più efficiente del settore privato. Sta di fatto che, per l’effetto dell’ideologia o di interessi costituiti, la crisi sta conducendo molti governi ad abbandonare i più deboli al loro destino».

Nel Prezzo della civiltà

lei si occupa della radice politica di questi mali. Pur essendo un economista, lei vede le cause altrove: nella politica, nell’erosione

delle virtù civiche. Perfino nell’ambiente universitario.

«Il degrado viene dai vertici. In 25 anni di docenza universitaria ho visto un peggioramento etico anche nelle grandi facoltà di élite degli Stati Uniti: il potere delle grandi imprese ha fiaccato il senso etico tra molti professori. Ovunque vediamo un’epidemia di comportamenti criminali e corrotti ai vertici del capitalismo. Gli scandali bancari non sono delle eccezioni né degli errori, sono il frutto di frodi sistemiche, di un’avidità e di un’arroganza sempre più diffuse. Anche in Europa ormai le banche contano più dei governi. Nel mondo s’impongono i metodi cinici alla Rupert Murdoch. Non è una decadenza generalizzata della società civile, è un fenomeno che riguarda prevalentemente le élite, sono loro ad avere un senso del privilegio, dei diritti acquisiti. Voi avete Berlusconi, in altre nazioni il connubio avviene in modo indiretto; il risultato però è sempre di creare nel pubblico un rumore di fondo, confusione e distrazione dai problemi veri».

Come può reagire la società civile? Lei ne ha avuto un assaggio di recente partecipando al vertice di Rio sull’ambiente, nel ventennale del primo summit?

«L’esperienza che ho avuto a Rio è illuminante. Rispetto al 1992, lo stato dell’ambiente è peggiorato. Eppure l’impegno dei governi si è affievolito: a questo vertice di Rio nessuno dei grandi leader è venuto. In compenso c’è stata una straordinaria attenzione e partecipazione della società civile, degli scienziati, delle ong. I politici sono controllati da poteri forti, mentre l’opinione pubblica è molto più consapevole di vent’anni fa. È il fallimento della politica, quello che m’induce a cercare altrove delle forme d’azione diverse. Quando apparve il movimento Occupy, lo vidi come un segnale premonitore: anche agli albori del New Deal, il cambiamento ebbe origine al di fuori dei partiti tradizionali».

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