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Andrea Carugati
Nichi Vendola: «La crisi è strutturale, il governo tecnico è la soluzione sbagliata»
4 Novembre 2011
Articoli del 2011
«Non basta la caduta di Berlusconi se a succedergli è un esecutivo in continuità con la politica economica di questi anni». l’Unità, 3 novembre 2011

Di fronte al precipitare della crisi finanziaria e al prepotente riemergere dell’ipotesi di un governo di emergenza, che trova robusti consensi nelle file del Pd e dell’Idv, Nichi Vendola ribadisce il suo no. «L’idea del governo tecnico, di una risposta emergenziale, non risolve il problema: siamo di fronte ad una crisi lunga, strutturale, direi di modello. Quelle che vengono apparecchiate come proposte tecniche sono in assoluta continuità con le politiche economico-sociali che hanno generato la crisi. Il governo di emergenza è una strada strategicamente sbagliata e politicamente poco fondata negli attuali rapporti di forza parlamentari».
Eppure l’Italia è a un passo dal baratro...

«Se per rispondere all’attacco speculativo si chiude a tenaglia la stretta sul welfare, se si prosegue con la retorica dell’austerità la politica della miseria, se non si mette in piedi un’idea di politica industriale e di crescita, noi continueremo a produrre tagli su tagli senza effetti virtuosi sul debito pubblico. Il Paese, nel frattempo, salta. E rischia di saltare la coesione sociale, l’architrave del patto che tiene insieme gli italiani».

Se un governo di emergenza dovesse vedere la luce, quale sarà il vostro atteggiamento?
«Negativo. Non esistono ricette neutre, se le medicine rischiano di uccidere l’ammalato, non è che se le acquisto in una farmacia più grande gli effetti sono meno nefasti. Quello che ci rende così vulnerabili agli speculatori è l’opacità della politica, l’autoreferenzialità di una classe dirigente barricata nei suoi fortini».

Secondo lei, insomma, se Berlusconi cadesse per il Paese non sarebbe comunque un balsamo?
«No. Per me il rischio è che si confondano le responsabilità e si rende ancora più torbida l’acqua in cui nuota l’opinione pubblica. C’è il rischio che si operi una sorta di sterilizzazione della coscienza critica nei confronti del berlusconismo, che la crisi venga addebitata alla politica tout court e non a al governo della destra, con tutte le conseguenze del caso sul piano della tenuta democratica. E poi guardiamo al caso greco: il referendum proposto dal premier Papandreou dimostra che il re è nudo e pone un tema ineludibile: qual è la legittimazione democratica di chi detta legge a parlamenti e governi? La drammaticità della crisi richiede un ingresso potente della politica, questa non è l’ora della “tecnica”».
Di Pietro propone una “controlettera” all’Ue. È praticabile?

«Ci si può ragionare. La nostra lettera, se ci sarà, dovrà contenere il capovolgimento dell’impianto di Berlusconi. Non si può non partire da una geografia sociale così segnata da elementi pesantissimi di iniquità. Nel paese è maturata una questione sociale dirompente, che non si può affrontare con l’artificiosa contrapposizione tra i nonni con 500 euro di pensione e i nipoti precari. Dobbiamo partire da una patrimoniale pesante, e da una significativa redistribuzione della ricchezza».

Negli ultimi giorni sembra allontanarsi l’ipotesi di un’alleanza tra centrosinistra e Udc alle prossime politiche... «Sarebbe la presa d’atto di un’intenzione più volte manifestata dal Terzo polo: correre da solo. Nel Pd qualcuno ha iniziato a riflettere anche sul caso Molise, per quello che ci insegna. Lì abbiamo scelto un candidato che veniva dal blocco avversario, con l’idea che avrebbe attratto voti moderati .È finita che l’Udc ha sostenuto il centrodestra e noi abbiamo perso per pochi voti, regalando molti consensi di sinistra ai grillini. L’”alleanzismo“ disinvolto, senza un’idea comune dell’Italia che vogliamo, rischia di sostituire l‘algebra alla politica. Ma non funziona».

Nel Pd sono stati i giorni di Renzi e della sua convention fiorentina. Lei cosa ne pensa?
«Rispetto Renzi, e spero che il confronto tra noi resti sempre sulla politica, senza degenerare mai. Lui ha fatto da destra un’operazione simile a quella che ho fatto io da sinistra». In che senso? «Propone il tema di un’innovazione radicale, di un’offerta politica che rompe le regole, rimescola le carte, e decostruisce il partito».

Perché gli appiccica l’etichetta di ”destra”?
«Accanto ad alcune idee di buon senso ma non molto nuove, Renzi propone in forme comunicativamente suadenti un rilancio dell’ipotesi neoliberista. Ma quello è il piano su cui ricostruire l’Italia o l’inizio della catastrofe? A questo si aggiunge la rimozione di alcune questioni aperte, a partire dal modello di sviluppo, e l’ambiguità sul peso del lavoro nella scena sociale. Si finge di non vedere quanto tutto il mondo del lavoro sia stato succhiato nel vortice della precarizzazione, e si costruisce una giustapposizione artificiale tra garantiti e non garantiti. Non si capisce come mai gli standard di vita dei garantiti debbano peggiorare per poter garantire gli altri. Insomma, vedo una forte continuità con le culture che da Reagan in poi hanno impregnato il mondo occidentale».

Una bocciatura senza appello? «Renzi ha un merito: disvela qualcosa che esiste nel Pd, un’ipoteca non moderata ma liberista sul futuro. E invece oggi c’è bisogno di un riformismo radicale, che si ponga come obiettivo la “conversione” del modello di sviluppo».

Ritiene che il sindaco di Firenze esprima un pensiero radicato nel Pd? «Sta cercando di rompere il giocattolo, per costruire una nuova alleanza tra poteri forti e comunicazione mediatica, come dimostra la scelta dei suoi testimonial, tutti con una cultura politica di destra».

Come la vedrebbe una sfida tra lei e Renzi alle primarie?
«Intanto il nodo della sua candidatura non è sciolto. Il dibattito fa bene, purché nessuno giochi a nascondino. Le carte vanno messe sul tavolo: per me un modello sociale che usa la crisi per rendere ancora più selvaggia la jungla del mercato del lavoro è il passato. E non si può danzare genericamente su temi come lavoro e pensioni».

Ieri Di Pietro in un’intervista all’Unità ha ipotizzato di non correre alle primarie per sostenere Bersani e rafforzare così la coalizione. «È un bel gesto, che dal suo punto di vista aiuta la semplificazione della contesa. Ciascuno di noi sta pensando insieme alla propria idea di programma e a come irrobustire il centrosinistra. Io lo faccio da tempo, concentrandomi sui ragionamenti politici, senza inseguire nessuno sul terreno delle polemiche. La mia presenza renderà le primarie un fatto vero, e questo è un bene».

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