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Franco Ferrarotti
Luigi Petroselli: un uomo politico di base al servizio della comunità
11 Ottobre 2011
Luigi Petroselli
La testimonianza di un padre della sociologia urbana. Ancora raggi di luce su anni significativi, la cui memoria alimenta un futuro migliore. ”

Pubblichiamo il testo integrale di uno scritto inserito in sintesi nel libro: Ella Baffoni, Vezio De Lucia, La Roma di Luigi Petroselli, Castronovi, Roma 2011

Luigi Petroselli lo ricordo con una nitidezza che fa male: gli occhi quasi infantilmente interroganti, l’eterna sigaretta pendula al lato della bocca, l’andatura randagia e il vestire piuttosto trasandato, l’indimenticabile pronuncia non proprio romanesca – era originario di Viterbo – ma alquanto sciatta, a tratti fra il sottovoce e il farfugliare fin quasi a sfiorare l’incomprensibile. Era stata Maria Michetti, indomita «eretica» minoritaria nel seno del Pci romano, vicina a Pietro Ingrao, consigliere comunale da sempre, a parlare di me a Luigi Petroselli, all’epoca – primi anni Settanta – segretario della Federazione romana, interessato e, anzi, «impressionato» dai dati, ma anche dall’intento dissacrante del mio libro Roma da capitale a periferia, uscito da Laterza nel 1970, proprio in occasione delle celebrazioni di Roma capitale come un controcanto sardonico, duro, fin quasi sfrontato, rispetto alle fanfare dell’ufficialità. Anni prima, Maria Michetti era venuta a trovarmi, accompagnata dal mio fido assistente anziano Corrado Antiochia, per chiedermi di fare da «relatore» alla sua tesi di laurea, della quale sperava di liberarsi in pochi anni. Dopo averle parlato una mattina nel mio ufficio al terzo piano della Galleria Esedra, dopo un lungo silenzio sbottai: non tre anni, tre mesi; laureata e quindi nominata assistente sul campo, Maria Michetti, nello stuolo ormai fitto di assistenti, dimostrò subito qualità di studiosa e di ricercatrice eccezionali.

Era una di quelle incerte primavere romane, con giornate quasi uggiose di piogge intermittenti, di colpo interrotte da pomeriggi caldi, ormai estivi, e poi da brevi, salutari giorni di tramontana secca e cielo terso. Con Petroselli ci vedevamo nel mio ufficio; poi, sotto, al bar Dagnino, si cementava l’amicizia parcamente, con un aperitivo analcolico. Il mandato del sindaco democristiano Clelio Darida volgeva ingloriosamente al termine. C’era nell’aria una certa voglia, ancora indistinta, di cambiamento. Petroselli era semplice e diretto: il prossimo sindaco doveva esser un indipendente di sinistra, un nome nuovo, non di apparato. Toccava a me, diceva con definitiva semplicità, aprendo e chiudendo in poche parole il discorso. Io prendevo tempo. Forse Petroselli non lo sapeva o forse lo sapeva e non gliene «fregava» niente. Le sue parole riaprivano in me antiche ferite. La politica l’avevo già fatta. Ero stato deputato indipendente nella terza legislatura (1958-1963). Ero l’unico rappresentante del Movimento Comunità di Adriano Olivetti. Appartenevo al gruppo misto, con uomini come Ugo La Malfa, Oronzo Reale, Oddo Biasini, ma anche i monarchici Alfredo Covelli, il marchese Lucifero, il duca Rivera, mio dirimpettaio in Via Appennini.

Con sottile, forse inconsapevole crudeltà, Petroselli, accompagnato nelle prime visite da Maria Michetti, mi stuzzicava, dunque, e giocava, per così dire, sulla mia mai completamente sopita ambizione e desiderio di riconoscimento pubblico e l’impegno alla coerenza di chi aveva studiato le borgate, i borghetti e le baracche di Roma e che, adesso, senza alcuna condizione, si vedeva offrire su un piatto d’argento o se si vuole, di stagno, la possibilità di verificare sul metro dei rapporti di potere quotidiani le sue brillanti ipotesi intellettuali.

Aveva così inizio il mio Tabor privato. A questo punto Maria Michetti cominciava a dare chiari segni di preoccupazione: temeva per la mia distratta tendenza a parlare e a dire esattamente ciò che al momento pensavo senza badare alle conseguenze; mi stava cercando un buon avvocato di vaglia da mettermi alle costole, come già aveva fatto con Guido Calvi all’epoca in cui Enzo Biagi mi aveva querelato per diffamazione aggravata con ampia facoltà di prova. Maria era mossa, nei miei confronti, da un atteggiamento protettivo più materno che accademico.

Intanto Luigi Petroselli veniva giù esplicito, ormai sicuro di avermi in pugno: «Che vuoi. Hai analizzato la vita e la miseria delle borgate. Ne hai descritto la povertà materiale, ma anche politica, culturale… L’espediente come mezzo normale di sussistenza. La mancanza di un reddito regolare. Gli allacciamenti abusivi e pericolose con i cavi elettrici. La mancanza di fognature… Hai studiato tutto. E adesso? Adesso ti dò la possibilità di fare qualche cosa di pratico, di non limitarti alle parole, alla sterile denuncia, a sfruttare la miseria degli altri per i tuoi libri di successo…».

L’uomo sapeva come adoperare bene il bisturi psicologico. Ma le vacanze di Pasqua stavano arrivando. Avrei accompagnato la famiglia a Urbino a visitare il Palazzo ducale. Chiedevo una pausa di riflessione. Ma Petroselli era tenace come un montanaro, furbo come un vero contadino, più rapido di un intellettuale. «Ti farò dare 45 mila voti di preferenza. Se, come dici, vuoi aver tempo per studiare e scrivere, bene, mi dai tre anni. Dopo subentro io. Sta tranquillo. Se mi dici di no, dovrò imbarcare il “vecchio”». Alludeva probabilmente al noto storico dell’arte Carlo Giulio Argan. Nulla di irrispettoso, solo la rude franchezza dell’organizzatore politico di base, dell’uomo d’azione che ha il senso della scadenza e che non può permettersi alcun amletismo fra pensiero e decisione.

Sapevo che il caso di Roma, dopo la breve, luminosa parentesi dell’amministrazione di Ernesto Nathan, era un caso da manuale per quanto riguarda la speculazione edilizia dalla fine della Seconda guerra mondiale agli anni ’70. A questo tema doloroso e vergognoso, che aveva visto coinvolte le gerarchie ecclesiastiche e non solo i famelici partiti e gli interessi, sostanzialmente parassitari, della rendita e del «generone» avrei in seguito dedicato il libro Roma madre matrigna (Laterza, 1991). Avrei affermato in quella sede, con sicurezza e baldanza forse eccessive, che Roma era non solo una doppia capitale, del Vaticano e dello Stato italiano, ma anche una doppia economia, della rendita e del capitale, maggiormente caratterizzata da una proprietà assenteistica e parassitaria che da un capitalismo moderno, in grado di operare la combinazione ottimale fra terra, capitale e lavoro. Notavo il fatto che Roma sia divenuta una «capitale del capitale», ossia una delle sedi dove assai rapido è il movimento di denaro a livello mondiale, non contrasta davvero, ma concorda, con le caratteristiche della città; e, anzi, le esalta. Le attività industriali di una qualche consistenza continuano ad essere quasi totalmente assenti entro i confini del Comune di Roma, che con i suoi 150 mila ettari ha il territorio più vasto di ogni altra città italiana. Esse hanno trovato una loro collocazione, sollecitata e favorita dal potere centrale, lungo la direttrice Pomezia-Latina e costituiscono nel loro insieme un’importante realtà sociale e non solo un fatto economico di rilievo. La separatezza di questa consistente area industriale dalla città crea problemi anche al pianificatore urbanista, ma quei problemi presentano sempre una costante: entro i confini del Comune è il blocco edilizio che conserva vigorosamente il suo dominio.

La scelta della vicenda dei piani regolatori di Roma per definire una possibile tipologia del pianificatore urbanista non è davvero arbitraria e tanto meno «di comodo». Essa offre l’occasione di osservare come tale figura giochi uno specifico ruolo di mediazione intellettuale in una situazione assai semplificata di confronto-scontro tra interessi privati e interesse collettivo.

La letteratura urbanistica più avveduta è ben consapevole del fatto che a Roma si misura quello che abbiamo chiamato il confronto diretto tra pianificatore e «blocco edilizio». Essa è venuta rappresentando questa situazione con l’immagine delle «due città», «Roma e l’altra Roma», giustamente evitando rigide ed esclusive collocazioni di classe e prestando attenzione ai fattori ideologici, ai processi storici, al complesso delle tensioni sociali. Essa, però, ci è apparsa e ci pare a disagio nell’acquisire coscienza di quello che le ricerche sociologiche su Roma hanno individuato e definito come «interfunzionalità economica e ideologica tra le due città».

Queste due città – occorre esserne avvertiti – non sono oggi visibili a Roma nei ghetti contrapposti di quartieri residenziali e di borgate. Apparentemente è andato avanti un processo di integrazione, di omologazione, che ingannava anche Pasolini. È vero che oggi, a Roma, ci sono meno baracche e meno borghetti. Gli occhi colgono un intrecciarsi di tipologie edilizie e di modi di abitare che tendono a ridurre le differenze e comunque ad «occultare» le baracche: è meno agevole oggi intuire dalla facciata della casa la condizione concreta di vita di chi vi abita dentro.

Il rapporto tra le due città non è più riassumibile nel visibile contrasto tra miseria e ricchezza: esso si manifesta nelle forme assai più complesse che assumono i diversi livelli di potere, le modalità e le possibilità attraverso le quali essi sono individualmente e socialmente raggiungibili. L’uscita dalla baracca è (meglio, può essere, ma può anche non essere) solo il primo passo per acquisire un qualche potere.

Le vicende dell’amministrazione capitolina rispecchiano fedelmente la situazione: il sindaco Rebecchini, notoriamente «uomo dell’Immobiliare», viene travolto dalla vicenda del mega-hotel Hilton, e deve passare la mano a Umberto Tupini, chiamato a governare una situazione resa incandescente dalla questione del piano regolatore generale e dal «sacco di Roma» che accompagna gli interventi straordinari per le Olimpiadi del 1960. La sua è una giunta di minoranza, ancora una volta sostenuta di fatto dal Msi.

Appena due anni dopo, a Umberto Tupini subentra Urbano Cioccetti, che estende la maggioranza ai monarchici laurini (popolari). Si apre un biennio di acuti contrasti, principalmente sulla questione del piano regolatore generale (1959). Rieletto nel 1960 con il voto determinante della destra – alla quale paga un elevato prezzo morale rifiutandosi di far celebrare l’anniversario della Liberazione di Roma –, Cioccetti tenta un monocolore Dc di segno conservatore. Ma le vicende nazionali, con la fiammata antifascista del luglio 1960, e la paralisi amministrativa indotta dall’insostenibile stallo sul Prg, rendono impraticabile la sterzata a destra. Urbano Cioccetti è costretto a dimettersi nel luglio del 1961 e un commissario prefettizio è incaricato di predisporre le consultazioni anticipate che si svolgeranno nel giugno dell’anno successivo.

La Dc, sollecitata da Aldo Moro a sperimentare nella capitale un governo di centro-sinistra, è sconfitta. A destra, il Msi sbaraglia la concorrenza monarchica e si conferma con 13 consiglieri nel ruolo di terzo partito, dimostrando così la persistenza culturale e, insieme, la perdurante funzionalità politica della destra nel sistema amministrativo romano. Nel contesto romano, del resto, la crisi del partito trasversale reazionario, che abbiamo definito «partito romano», non ha ancora prodotto una frattura irreversibile fra neo-fascisti possibilisti e cattolici conservatori. Anzi, a tessere nuove trame e intese rese appetibili dalle risorse di scambio del sottogoverno municipale, lavorano varie riviste e associazioni tradizionalistiche.

Si tenga presente come, ancora per tutti gli anni Cinquanta, quello missino si configuri a Roma come un voto interclassista di massa, in cui gli appelli simbolici all’anima nostalgica e ai ceti sociali di antica lealtà reazionaria, si confondono con la gestione di incentivi più prosaici, di provenienza sottogovernativa e prevalentemente diretti alle aree di immigrazione sottoproletaria. Ma la destra mantiene presenze non irrilevanti nel mondo delle professioni e un discreto circuito associazionistico di fiancheggiamento. Per tutto il decennio, ad esempio, una parte consistente della stampa locale – in continuità con le campagne del «Tempo» e del «Popolo di Roma», veri organi ufficiosi del «partito romano» - asseconda contro l’ipotesi di centro-sinistra la ricomposizione di quel partito trasversale conservatore di cui i neo-fascisti sono parte costitutiva.

Il centro-sinistra – progetto legato a una seppur generica domanda di razionalizzazione e modernizzazione – rappresenta insomma il catalizzatore del conflitto e, insieme, il fattore di accelerazione della crisi. Ciò vale tanto per il fronte conservatore del vecchio «partito romano» quanto per il Blocco del popolo che in un paio di occasioni (e segnatamente con le politiche del 1952) sembra rivestire i panni del vecchio radicalismo anticlericale e antimonopolistico. Alla fine degli anni Cinquanta l’egemonia della Dc – partito del potere nazionale con ramificazioni locali non più totalmente identificabili con i notabili pacelliani – appare elettoralmente solida, ma politicamente fragile per gli effetti indotti dai nuovi termini del conflitto e dal sovrapporsi di interessi compositi che intersecano lo schieramento del cattolicesimo politico entro una dialettica tradizione-innovazione non sempre lineare. A destra, si è andata consolidando attorno al Msi un’aggregazione populista di tipo nuovo, che alza il prezzo della mediazione sotterranea con i potentati Dc e gioca sulle minacce all’ordine democratico per imporre regole del gioco ormai estranee alle possibilità di controllo del «partito romano». Il Blocco radicale si spegne fra il 1953 e il 1956. Al suo posto c’è la grande forza organizzata di un Pci atipico e destinato a fornire l’imprinting per i conflitti che animeranno nei decenni successivi la sinistra romana (’68 compreso).

Il panorama complessivo prelude a un processo di omologazione di Roma alle coordinate politiche nazionali, secondo l’ispirazione strategica del centro-sinistra in versione fanfaniana. Nel luglio del 1962, Glauco Della Porta – tecnocrate di area morotea – è il primo sindaco a guidare una maggioranza di centro-sinistra. Ancora una volta, Roma rappresenta il laboratorio delle scelte nazionali. Ma la giunta di Della Porta dura solo, e stentatamente, un biennio.

La situazione, non solo romana, precipita. I tardi anni Settanta sono l’imprevedibile, spaventoso scenario della tragedia italiana: la lotta armata, il sequestro e l’uccisone di Aldo Moro, la «notte della Repubblica». Argan si dimette; gli subentra, come previsto, Petroselli. Ricordo le sue previsioni. Quando rifiuto di farmi candidato indipendente di sinistra appoggiato dal Pci, Petroselli non nasconde la sua delusione. Arriva quasi a darmi del traditore, tanto gli sembrava scontato che la mia personale ambizione avrebbe vinto le mie resistenze interiori, squisitamente e, a suo giudizio, evanescentemente intellettuali. Era già accaduto nel 1963, quando gli amici di Ivrea giuravano che non avrei mai avuto il coraggio di lasciare Montecitorio, concupito com’ero da forze politiche che andavano da Giancarlo Pajetta a Riccardo Lombardi a una certa sinistra sociale fanfaniana. È difficile capire il fondo, il mondo proprio, lo Eigenwelt di un’anima.

Con una precisione impressionante, esaurita l’esperienza della debole giunta del democristiano Clelio Darida, eletto e quindi dimessosi il professore Argan, tocca a Petroselli prendere in mano il timone del Comune. Incredibile a dirsi, il suo atteggiamento verso di me, lungi dall’essere freddo a causa del mio «gran rifiuto», si fa sempre più stretto, amichevole, quasi fossi investito d’un ruolo di consigliere-ombra. Ci vedevamo abbastanza spesso, alle tre del pomeriggio, in una saletta del Campidoglio, dove lui riceveva le persone che avevano qualche problema, da vero rappresentante del popolo.

Era quello che gli americani, con un felice espressione, chiamano un «grass roots politician», un uomo politico delle radici dell’erba, uno che governa dal di sotto più che dall’alto, un politico che ascolta, sempre con tramezzino e una sigaretta a portata di mano, una specie di Humphrey Bogart di Tor Pignattara. Succedeva, dopo circa tre anni, a Giulio Carlo Argan, eletto, come Petroselli aveva progettato, nell’agosto del 1976, il primo sindaco laico dalla prima decade del secolo, quando era stato eletto sindaco di Roma da un «blocco popolare» messo in moto dal Paese Sera di Tommaso Smith, Ernesto Nathan (1907). Non risparmiavo le critiche al Petroselli divenuto sindaco. Gli rimproveravo, talvolta con ironia e asprezza eccessive, di cedere al gusto di riforme che erano, al volte, operazioni di cosmesi urbana. Il suo recupero delle borgate, non mi stancavo di dirgli, in una prima fase, si limitava a rinnovare la segnaletica, a normalizzare la distribuzione dell’acqua e della corrente elettrica, con grave disappunto dei borgatari, che adesso dovevano pagare le bollette. In un secondo momento in effetti va riconosciuto che egli si è impegnato in interventi più efficaci e duraturi in quanto strutturali, mettendo in piedi case popolari che risanavano, che cancellavano l’obbrobrio di borgate e borghetti. Anche se a volte ciò è accaduto con modalità tali da indurre forti dissensi rispetto al Comune e al Pci (v. il caso di Valle dell’Inferno/ Valle Aurelia) perché la gente avrebbe preferito non lasciare il proprio habitat.

A proposito, però, della speculazione edilizia non mi risparmiava bofonchiate repliche brucianti, come quando mi rammentò le sfortunate conseguenze dei miei consigli all’on. Fiorentino Sullo, ministro dei Lavori pubblici nel governo detto delle «convergenze parallele» di Amintore Fanfani. A bloccare o comunque a rendere più difficile la speculazione edilizia occorreva, avevo suggerito al ministro Sullo, fare ciò che in Inghilterra da tempo immemorabile si era fatto: tutto il territorio del Paese non è privato, ma pubblico. Sullo ebbe il coraggio o l’ingenuità di prendermi in parola e dichiarò questo suo intento pubblicamente. Come se avesse sfiorato un cavo dell’alta tensione, perdette il posto di ministro, fu espulso dalla Dc, cercò rifugio presso i socialdemocratici e forse, alla fine, qualche sollievo nella bottiglia. Morì prematuramente, solo e depresso.

Niente di personale nelle risposte sulfuree di Petroselli. Solo il realismo di un uomo politico che conosce le durezze della vita e la difficoltà di dare un senso di orientamento alla convivenza umana. Luigi Petroselli incarnava una concezione del potere esattamente opposta e simmetrica a quella oggi prevalente: il potere vissuto non come appannaggio personale per i propri interessi privati, ma come semplice, quotidiano sevizio alla comunità.

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