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Danilo Zolo
Africa mediterranea.
Quale democrazia
14 Ottobre 2011
Articoli del 2011
Nella fucina ardente della storia, alla ricerca del senso della parola “democrazia” nel contesto di culture diverse da quella dominante. Il manifesto, 14 ottobre 2011

L'ondata di rivolte popolari e di violenza che ha investito in questi mesi il Mediterraneo meridionale non sembra abbandonare i paesi del Maghreb e del Mashrek. C'è chi sostiene che si tratta dell'inizio di una lunga battaglia: la democrazia, si sostiene, è ormai un obiettivo irrinunciabile. Lo è per l'intero mondo islamico e non solo per i giovani e le giovani che hanno manifestato a migliaia contro i regimi dispotici che per decenni hanno oppresso i loro paesi. Ma c'è chi ritiene invece che si tratta del miraggio di giovani temerari, illusi che il mondo islamico riuscirà a liberarsi rapidamente dal dispotismo e dall'oscurantismo di una tradizione millenaria. E c'è chi sostiene che eventi come la fuga improvvisa del presidente Ben Ali e le dimissioni del presidente Hosni Mubarak non potranno cambiare il destino della Tunisia e dell'Egitto. La prepotenza e la violenza del potere è tuttora diffusa in entrambi questi paesi.

In Tunisia la «Rivolta dei Gelsomini» sembra finita nel nulla: una volta decaduta la costituzione e sciolte le camere si è garantito che anche il partito unico sarebbe stato dissolto e sarebbe stata subito introdotta la democrazia. Ma in realtà, in modo sempre più insistente, la borghesia si è schierata per il ripristino dell'ordine e contro le nuove elezioni. E molto spesso la polizia è ricorsa all'uso sanguinario della violenza.

In Egitto il governo di Essam Sharaf ha fatto strage di decine di cristiani copti durante una loro pacifica manifestazione. E le Forze Armate sono tuttora pronte a cancellare nel sangue la speranza di chi ha combattuto per la nascita di un nuovo Egitto, libero e moderno. E altrettanto incerto resta il futuro della Libia, nonostante la volontà delle potenze occidentali di impadronirsi delle infinite ricchezze del deserto libico. Il sangue di civili innocenti continua e continuerà a lungo ad essere versato dai bombardamenti della Nato, voluti dagli Stati Uniti, e dalla disperata e grottesca resistenza di Muammar Gheddafi e dei suoi lealisti.

Non sembra dunque probabile che i paesi islamici del Mediterraneo riescano a raggiungere rapidamente l'obiettivo della democrazia, alla quale i movimenti giovanili continuano ad aspirare intensamente. Ed è anche difficile capire che cosa significa per loro «democrazia» e «Stato democratico» e quali sono le loro concrete aspettative politiche e sociali.

Si tratterebbe anzitutto di domandarsi se sarà possibile convertire le strutture politiche dei paesi arabo-islamici in strutture democratiche compatibili con le loro tradizioni. Se per «democrazia» si intende una partecipazione libera ed eguale di tutti i cittadini ai processi decisionali è inevitabile riconoscere che la nozione di democrazia non appartiene al lessico musulmano e ai valori tramandati dalla tradizione coranica. Basterebbe un semplice riferimento alla Shari'a e al fiqh per esserne convinti, nonostante le tesi di autori come Rashid Ghannushi, Hasan al-Turabi e Samir Amin. Essi sostengono che la diffusione dell'associazionismo nei paesi islamici tende ad affermarsi sempre di più e a profilarsi come una «via islamica alla democrazia».

Non ci dovrebbe essere comunque alcun dubbio che «democrazia» resta un concetto estraneo alla cultura islamica: il mondo musulmano non può servirsene se non come espressione di una realtà politica che si è affermata in Occidente, e solo in Occidente, con lo sviluppo della modernità. E si tratta di una realtà politica investita dal processo di globalizzazione e che tende quindi a trasformarsi in un regime subordinato allo strapotere dei padroni dell'economia di mercato, oggi diffusa nel mondo intero. E i padroni sono in larga parte anche i signori del Mediterraneo.

Un minimo realismo ci suggerisce che è notevole il rischio che prevalgano gli interessi di quella che Luciano Gallino ha chiamato la «nuova classe capitalistica transnazionale». Dall'alto delle torri di cristallo delle più ricche metropoli del mondo questa «nuova classe» cercherà di dominare i processi dell'economia globale, quella occidentale inclusa. In sostanza, «democrazia» finirà per essere definita la somma degli interessi delle grandi imprese produttive e degli enti finanziari, come le banche d'affari, gli investitori istituzionali, le compagnie di assicurazione e così via.

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