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Michele Giorgio
New Town palestinese
17 Agosto 2011
Dalla stampa
La città ideale dei palestinesi assomiglia tanto, ma proprio tanto, al sogno suburbano (al tramonto) che ha segnato tutto il ‘900. Il manifesto, 21 gennaio 2011 (f.b.)

Una città dove sarà possibile condurre uno stile di vita moderno nel contesto della tradizione. È questo slogan che ti accompagna quando ti avvicini ai cantieri di Rawabi, in arabo «le colline», la new town palestinese da 6mila appartamenti che, grazie un finanziamento da 800 milioni di dollari (in parte di provenienza qatariota), sta sorgendo tra Ramallah e Nablus e situata a metà strada tra Tel Aviv e Amman. Sino ad oggi hanno chiesto di viverci oltre 8 mila palestinesi, che si sono prenotati online.

Commercianti, impiegati pubblici, professionisti, ossia la piccola borghesia attirata dai centri commerciali, i boulevard e i caffè, dalla vicinanza all'università di Bir Zeit, dal verde, dai campi sportivi, dalle scuole pubbliche e private, dal cinema ma anche dalle moschee e dalla chiesa che promette la «Massar», l'impresa edile di Bashar Masri, parente di Munib Masri, l'uomo d'affari palestinese più ricco e influente. «Questo progetto è parte della costruzione nazionale - dice Masri - che non è solo politica ma vuol dire significa anche offrire una miglior qualità di vita alle persone e rilanciare l'economia creando migliaia di posti di lavoro».

All'inizio verranno venduti appartamenti per 25 mila palestinesi, in seguito per altri 15mila, grazie a prezzi abbordabili e a mutui che le banche offriranno a basso interesse oltre a quello finanziato dall'Overseas Private Investment Corporation che permetterà di acquistare un appartamento per 700 dollari al mese. Un debito mensile che Masri definisce «sopportabile» e che invece la maggior parte dei palestinesi non può permettersi.

Osservandola da lontano la new town, «fiore all'occhiello» per l'Anp e per il suo premier Salam Fayyad, assomiglia parecchio alle colonie israeliane che si incontrano nei paraggi. Stesso stile, stessi materiali, stessa luce accecante della pietra bianca e (troppi) tetti rossi. Insomma, è una sorta di colonia palestinese contrapposta a quelle ebraiche. Non sorprende perciò che il progetto sia stato accolto freddamente da quella parte di architetti e pianificatori palestinesi indipendenti che avrebbe preferito che la nuova città avesse un look più arabo, più vicina alle belle ed antiche costruzioni palestinesi. Senza dimenticare le critiche degli ambientalisti che sollevano dubbi sulla scelta di costruire Rawabi in una delle poche aree naturali che resistono agli assalti della colonizzazione israeliana della Cisgiordania. Altri hanno criticato il massiccio coinvolgimento d'Israele nel giro di affari ma le principali obiezioni sono venute dai quei contadini che si sono opposti alla cessione dei propri terreni: circa 1/5 di Rawabi viene costruito su terreni requisiti sbrigativamente dall'Anp.

A battersi con più accanimento contro Rawabi sono però i coloni e i loro sostenitori nel governo Netanyahu e alla Knesset. Insieme conducono una battaglia senza sosta contro la nuova città palestinese che, dicono, provoca danni all'ambiente e mette a rischio gli insediamenti israeliani. Accuse paradossali se si considera che i coloni sono i principali devastatori della natura in Cisgiordania dove vivono illegalmente in violazione delle risoluzioni internazionali. Lo scorso autunno Ghilad Erdan, il ministro israeliano dell'ambiente, ha chiesto una approfondita verifica delle ripercussioni della costruzione di Rawabi, in particolar modo per quanto riguarda la discarica dei rifiuti.

Erdan ha mai mostrato tanto rigore e interesse nei confronti delle colonie ebraiche edificate sulle colline palestinesi? Forse, non si sa. È certo invece che Rawabi si trova in buona parte in «area B», la zona della Cisgiordania sotto controllo civile dell'Anp e dove Israele ha il controllo di sicurezza. Le sue strade di accesso perciò si trovano sotto totale controllo dell'esercito di occupazione e dei coloni. La campagna anti-Rawabi si è intensificata da quando si è appreso che una dozzina di aziende israeliane avevano accettato di firmare contratti di forniture con la «Massar», sottoscrivendo, a quanto pare, una clausola che le impegna a non lavorare contemporaneamente negli insediamenti colonici.

Lo scorso anno l'Anp ha lanciato una campagna per il boicottaggio delle colonie e dei loro prodotti che, almeno nella sua fase iniziale, ha conseguito risultati significativi e mandato su tutte le furie i settler israeliani e il governo Netanyahu. Ora, a distanza di mesi, l'offensiva anti-colonie è scemata, sotto l'urto delle pressioni americane.

È stato lo stesso Bashar Masri a rivelare qualche settimana fa che oltre alle 12 società israeliane avevano firmato il contratto proposto dalla «Massar». Non solo. La sua impresa è stata contattata da un'altra ottantina di imprese israeliane che vogliono vendere i loro prodotti e materiali e si dicono disposte a rispettare la clausola sugli insediamenti. Rivelazioni che hanno scatenato un putiferio in Israele. Alcune decine di deputati di diversi partiti si sono prontamente attivati per lanciare una campagna di boicottaggio delle società che si rifiuteranno di avere rapporti commerciali con gli insediamenti colonici. Le imprese impegnate a Rawabi, a cominciare dalla Itung Blocks, per evitare guai, hanno dovuto recitare il mea culpa e la professione di fede agli ideali del sionismo e alla colonizzazione. «Siamo un'azienda israeliana al 100% e partecipiamo alle costruzioni in Eretz Israel (la biblica Terra di Israele)», ha comunicato l'amministratore delegato della Itung, Sasson Har-Sinai. Ma le sue assicurazioni non bastano ai coloni che vogliono mettere alla gogna tutte le imprese «traditrici».

Nota: il fatto che la città nuova sia una fotocopia del sogno americano non è sfuggito a suo tempo alla stampa internazionale, come spiega bene questo articolo dell'australiano The Age tradotto per Mall (f.b.)

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