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Maurice Lemoine
Città private nella giungla
15 Giugno 2011
Da le Monde Diplomatique giugno 2011 un inquietante reportage su un modello “urbano” totalitario improntato al liberismo economico e all’assenza di diritti (f.b.)

«Invito il mio popolo a sognare e a vivere in un luogo ideale, senza delinquenza, su un territorio autonomo dotato del miglior sistema educativo e sanitario», proclama il presidente Porfirio Lobo, il 18 gennaio, durante una conferenza stampa (1). Paul Romer è in visibilio. «Brillante economista» (l’espressione non è nostra), docente all’università di Stanford, da anni Romer percorre il pianeta, e in particolare l’Africa, cercando un paese in cui mettere in pratica la teoria che ha elaborato: «A ostacolare lo sviluppo dei paesi poveri, sono le “cattive leggi” imposte dagli stati agli investitori, che così vengono scoraggiati (2)Conviene, quindi, costruire delle charter cities, delle «città modello» da edificare su territori incontaminati in cui gli investitori, nazionali e stranieri, possano impiantare le loro fabbriche e i loro laboratori, ma anche le infrastruttrure, gli alloggi, i commerci, le scuole, le cliniche e i servizi necessari a una manodopera spinta lì dalla disoccupazione.

E resta inteso che questa enclave dovrà possedere proprie leggi, tribunali, polizia, un suo governo – e che non pagherà tasse al paese d’accoglienza. Romer non aveva suscitato che un tiepido interesse fino al giorno in cui, nel gennaio 2011, su iniziativa di Xavier Arguello, presidente honduregno dell’impresa immobiliare americana Inter- Mac International, incontrò a Washington Juan Orlando Hernández, presidente del Congresso (il parlamento) del piccolo paese centroamericano. Hernández organizzò una riunione con Lobo, e qualcuno dei suoi collaboratori, a Miami. Romer parlò dei successi di Hongkong, di Singapore e delle aree economiche speciali cinesi. I maldisposti potrebbero obbiettare che le condizioni storiche, geografiche, economiche e culturali nelle quali si sono sviluppati questi esempi si riscontrano a mille miglia di distanza da quelle che prevalgono in Honduras. Ma ci vuole ben altro per far vacillare Lobo e i suoi.

Per far nascere dal niente una «città modello» di 1.000 km quadrati (33 km per 33), il Congresso riforma, il 17 febbraio, l’articolo 304 della Costituzione – «in nessun caso possono essere creati organismi giuridici d’eccezione» – per aggiungervi: «a eccezione (sic!) dei privilegi giurisdizionali delle regioni speciali di sviluppo [Red] » (3).

In base al decreto che stabilisce il funzionamento della (o delle) città modello, le leggi honduregne – compresa quella del diritto al lavoro – non verrebbero applicate, a eccezione di quelle che trattano della sovranità (!), delle relazioni estere (le Red possono tuttavia firmare accordi e trattati internazionali), delle elezioni, dell’emissione di documenti di identità. Nell’ipotesi in cui un successivo governo intendesse ritornare su questa svendita di un pezzo di territorio nazionale a opera di un regime frutto di un colpo di stato, si precisa: «I sistemi istituiti nei Red devono essere (…) approvati dal Congresso nazionale con una maggioranza qualificata dei due terzi», considerando che «questo statuto costituzionale non potrà essere modificato, interpretato o cancellato se non dalla stessa maggioranza, dopo una consultazione referendaria della popolazione che abita la Red».

Ovvero una «minoranza ultraminoritaria» che vive sotto il dominio dei padroni dell’enclave con le mani e i piedi legati! Situato al cuore dell’istmo centroamericano, l’Honduras, legato agli Stati uniti e al Canada da un trattato di libero commercio (Tlc), offre la possibilità di produrre e di esportare verso quei paesi evitando lunghi tragitti attraverso il poco sicuro (per via delle crisi regionali) canale di Suez o anche quello di Panama. Il 2 marzo, in visita a Tegucigalpa, il presidente della Banca interamericana di sviluppo (Bid), Luis Moreno, ha caldamente lodato il presidente Lobo: «La Bid cercherà il modo per appoggiare questo sforzo che noi consideriamo non solo innovativo, ma di primaria importanza per l’avvenire dell’Honduras».

Ma quale avvenire? Ammettendo pure (con un sorriso scettico) che il postulato di partenza sia rispettato – lavoro, abitazione, educazione, salute, sicurezza, livello di vita superiore alla media –, nessuno dubita che questo isolotto privilegiato inciterà centinaia di migliaia di diseredati a tentare di trovarvi un posto di lavoro. Di fronte a questa massa che preme alle porte, bisognerà allora proteggere il ghetto con l’aiuto di telecamere e filo spinato elettrificato?

Quando Lobo afferma che queste «città modello » creeranno «uno stile di vita di serie A», intende forse instaurare a livello costituzionale due categorie di cittadini? Una seconda ipotesi, più realistica, non induce di più all’ottimismo. Il presidente del Congresso Hernández ne lascia intuire i contorni quando precisa: «È come una maquila allargata a un livello molto più grande (…) ; è come vivere il sogno americano in Honduras (4)».

Salvo che le maquilas (fabbriche di subappalto) assomigliano ben poco al sogno in questione. Dall’inizio degli anni ’90, sono soprattutto note a Tegucigalpa e San Pedro Sula, per il supersfruttamento della manodopera e gli ostacoli alla presenza dei sindacati. Queste imprese, attualmente, licenziano in modo massiccio i lavoratori in possesso di un contratto a tempo indeterminato e annunciano che i migliori saranno riassunti ma «pagati all’ora» – perdendo così i diritti sociali acquisiti.

L’obiettivo di una charter city non è certo quello di produrre tessuti, come nelle maquilas di prima generazione, ma alta tecnologia. Alla domanda «l’Honduras dispone di manodopera qualificata?», il deputato Romeo Silvestri risponde con un sorriso: «Sarò onesto, non ce l’ha. Ma anche quando le maquilas sono cominciate, nessuno era capace. Oggi ci lavorano 150.000 persone ». Più realista, l’ex-deputata Elvía Argentina Valle replica: «Se si applicano le loro leggi e considerando l’importanza dei fondi impiegati, gli investitori cinesi faranno venire dei cinesi, quelli coreani i coreani, e non resterà più posto per gli honduregni».

Se poi questi privilegiati, in un primo tempo felici, scoprono motivi di scontento, ha già previsto Romer, potranno protestare camminando – cioè andarsene. Se vogliono difendere i loro diritti? La «città modello» esclude ogni presenza dei sindacati. Se si ribellano? La polizia privata ristabilirà l’ordine, una giustizia di eccezione chiuderà la faccenda. Se il disordine persiste e si estende? Perché non un corpo di spedizione venuto dall’Asia o da altrove per ristabilire l’ordine in questo lembo di territorio che sfugge ormai all’autorità dello stato?… Forse non completamente cosciente della portata dei suoi propositi, Silvestri riflette ad alta voce quando noi lo incontriamo, il 3 marzo: «Evidentemente, Singapore funziona perché è uno stato totalitario. Il primo ministro è rimasto al potere per trentun anni; ora, governa suo figlio. Lì ci sono molte strutture che noi non abbiamo. È una grande sfida quella di adattare questo modello alla nostra realtà».

(1) Associated Press, 20 gennaio 2011.

(2) Romer sviluppa le sue idee sul sito Charter Cities: www.chartercities.org/blog

(3) Centoventisei voti a favore, uno contro, un’astensione

(4) El Heraldo, Tegucigalpa, 4 gennaio 2011.

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