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Prospero. Michele
Veltroni-Fiat, quanto era moderno il 1923
11 Gennaio 2011
Articoli del 2011
Il buonismo a senso unico di un promotore della “modernità”: il sorriso del bastone. Il manifesto, 11 gennaio 2011

Quell'incontro non s'ha da fare, gridavano forte le minoranze del Pd dinanzi all'inopinato annuncio di uno scambio di idee tra Bersani e Landini. Dopo che l'incontro c'è stato, senza peraltro aver partorito alcun piano particolarmente sovversivo rispetto all'ordine sociale costituito, avranno tirato un gran sospiro di sollievo. Allarme rientrato nessun biennio rosso alle porte. E dire che qualcuno tra i più zelanti modernizzatori nel Pd era arrivato a invocare persino il congresso anticipato per reagire prontamente all'oltraggio di un inutile dialogo con le arcaiche e ormai in via di estinzione tute blu. Le ragioni teoriche di tanto nervosismo intorno alla questione Fiom sono ben rintracciabili in un lungo articolo di Veltroni apparso giovedì scorso sul quotidiano della Fiat.

Il pezzo intende portare un esplicito e non episodico sostegno al «diritto-dovere» di rispondere sì alle richieste di «modernizzazione delle relazioni sindacali» avanzate da Marchionne. Verrebbe da dire: con lo stesso intuito che lo indusse a fiutare prima di ogni altro le grandi virtù politiche di Calearo e a portarlo in parlamento, ora l'ex leader del Pd celebra sul giornale di casa le belle qualità dell'amministratore Fiat. Ma la penna ispirata di Veltroni in questa occasione vuole fondare una scelta di campo definitiva e guarda al tempo lungo toccando anche la linguistica, la storia, l'etica, il diritto sindacale. E quindi va presa sul serio.

Il presente per Veltroni si divide in due. Da una parte c'è «la chiarezza e la durezza» degli innovatori alla Marchionne che con ostinazione e lungimiranza portano sempre avanti il mondo e dall'altra ci sono solo le sconce prove di «ordinario conservatorismo» esibite da parte di chi si oppone allo splendido e spesso incompreso nuovo che avanza. Perciò, al cospetto del prometeico agire di un manager della provvidenza, il Veltroni linguista suggerisce di bandire le cattive parole «difesa», «opposizione» (proprie del «minoritarismo» straccione) e di adottare un sobrio vocabolario con una sola frase chiave ben impressa: «non difendere ma cambiare».

E la formula magica diventa la pietra filosofale per spiegare l'intera storia delle relazioni sindacali perché Veltroni trova forti analogie tra l'accordo siglato tra il «giovanissimo»» (aveva 42 anni) Bruno Buozzi e Agnelli nel 1923 e quanto accade oggi a Mirafiori. Proponendo di recuperare anche per l'oggi lo spirito di quel bel tempo andato, quando il padrone e il sindacalista stringevano patti leali ed erano entrambi moderni (però allora in gestazione era la contrattazione collettiva oggi invece il suo smantellamento), l'ex leader del Pd vede negli eventi del 1923 «una rivoluzione nelle relazioni sindacali di allora».

A che serve rammentare che nel 1923 c'era già il fascismo e che proprio a Torino, nel dicembre del 1922, gli squadristi avevano appena assalito la camera del lavoro e l'Ordine nuovo e che in strada giacevano i corpi ancora caldi di 22 militanti uccisi? Però almeno una cosa andrebbe rimarcata. Uno dei firmatari dell'accordo, il «giovanissimo» Buozzi per l'appunto, solo dopo pochi mesi sarà costretto all'esilio. Al vecchio Agnelli, che proprio nel 1923 fu nominato senatore del regno, andò invece molto meglio: forse perché seppe cambiare senza difendere. La contrattazione collettiva fu del tutto svilita.

Buozzi, che a resistere ci ha sempre provato in mezza Europa, ci ha rimesso anche la pelle cadendo sotto il fuoco tedesco in una strada di Roma. Ma forse il sindacalista non aveva ben capito i sublimi precetti della ragion pratica veltroniana. Qualcuno minaccia i tuoi diritti, calpesta sfacciatamente i tuoi interessi, schiaccia le tue libertà? Tranquillo, non devi difenderti e lottare. Così finisci solo per essere un maledetto conservatore. Devi (farti) cambiare ma senza resistere. Così sarai moderno.

L'etica di Veltroni non spiega però perché se Marchionne non ci sta e parte all'offensiva viene ammirato per la «chiarezza e durezza» del suo fare e se invece Landini prova ad alzare la voce diventa un insopportabile reazionario che, con l'attaccamento al ferro vecchio della contrattazione collettiva, agita «l principale fattore che tiene lontane le grandi multinazionali». Strane anche loro queste grandi multinazionali, però. Perché non fanno, come suggerisce la buona ragion pratica di Veltroni, e cioè non rinunciano ad adottare un punto di vista difensivo (dei loro interessi) e accettano di cambiare?

Attratto dalla data magica del 1923, assunta come spartiacque del '900 sindacale, Veltroni inquadra le relazioni sociali all'insegna di una formula incantata: tra lavoro e capitale deve esserci un «comune destino». Qui il proverbiale buonismo (tutti sono nella stessa barca e cerchino perciò di collaborare per tirare innanzi) diventa qualcosa di più impegnativo. La metafora della impresa come «comunità» e persino come «destino» rimanda infatti alle esperienze autoritarie. Nella dottrina giuridica fascista il rapporto contrattuale venne superato nell'obbligo di fedeltà alla comunità di fabbrica.

Proprio il conflitto aperto tra l'essere (la persona che lavora) e l'avere (il denaro dell'impresa), rompendo ogni pretesa di «comunità», ha invece costruito la civiltà giuridica del '900. Ma le lancette dell'orologio della storia di Veltroni sono ferme al 1923 e al comune destino che lega lavoro e impresa, Agnelli e Buozzi. E però anche il «giovanissimo» Buozzi che combinò nella sua vita? Non partecipò anche lui «riformista» alle occupazioni delle fabbriche del 1920 rifiutando l'idea che tra lavoro e capitale ci fosse «un comune destino» che bandiva ogni conflitto per i diritti?

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