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Edoardo Salzano
20101001 Costruire il futuro partendo dalla storia
5 Dicembre 2010
Interventi e relazioni
Scritto per un numero monografico dei quaderni dell’università La Cambre di Brusselles, dal titolo The right to the CITY as common good, in corso di pubblicazione

Di seguito l’indice del saggio e il testo del terzo capitolo. In calce è scaricabile il testo integrale in formato .pdf

INDICE

1. Ieri. Nasce il “diritto alla città” nell’Italia post-fascista

Il dopoguerra

L’Italia alle soglie degli anni 60

Lotte sociali e disastri territoriali

Un biennio decisivo: 1968-1969

Quale idea di città

2. Oggi. Forma e sostanza della città del neoliberalismo

Il contesto, nel mondo e in Italia

La città del neoliberalismo

Le piazze e gli spazi pubblici

Lo spazio pubblico e la democrazia

3. Domani. Una nuova ideologia: La città come bene comune

La speranza dei movimenti

Città come bene comune

Quali soggetti nella “città globale”

Riconquistare la storia e lo spazio pubblico

Il compito dell’urbanista

3. DOMANI

UNA NUOVA IDEOLOGIA: LA CITTÀ COME BENE COMUNE

La speranza dei movimenti

Come riprendere oggi un cammino che consenta di restituire al popolo qualcosa che abbia la dignità di essere definito “diritto alla città”? E quale idea di città, esprimibile in una frase semplice e semplicemente comprensibile, può riassumere oggi i contenuti di quel “diritto”? Questa è l’ultima parte – la più difficile – del mio intervento.

Partiamo dalle cose. Se si conviene che l’idea di città proposta e praticata dal neoliberismo sia insoddisfacente, che l’ideologia che la sorregge debba essere contrastata e sostituita, che per l’habitat dell’uomo (perché a questo ci riferiamo quando parliamo di “città” al di là degli esempi consegnatici dalla storia) debba essere individuato un diverso futuro, allora dobbiamo riferirci a ciò che resiste alle attuali tendenze e cerca di opporsi e di proporre delle alternative. Guardando alla società possiamo dire che il punto di partenza può essere costituito dalla miriade di episodi che nascono spontaneamente, che esprimono sofferenze individuali che però appartengono a moltissime persone, che si traducono spesso in tentativi di aggregazione, associazione, iniziativa comune di protesta (e talvolta anche di proposta). “Dentro queste nuove esperienze – ha scritto un uomo che viene dalla letteratura e dalla politica e che si è immerso nel movimento ambientalista - circola una gran quantità di energie nuove, diverse, provviste di un pensiero forte. Lo stesso potrebbe dirsi delle associazioni nel campo dei diritti civili” .

Proviamo a elencare gli argomenti che sollecitano la formazione di comitati e gruppi di cittadinanza attiva, delle migliaia di luoghi dove si stanno sperimentando modi nuovi di “fare politica”, di occuparsi insieme del destino di tutti. Le condizioni dell’ambiente fisico e del paesaggio, sempre più inquinati e sgradevoli, ricchi di pericoli e privi di qualità. La condizione della salute dell’uomo, esposto a malattie e a rischi di degradazioni biologiche. Le condizioni della vita urbana, sempre più caratterizzata dalla carenza di servizi per tutti, di spazi condivisibili da tutti, di luoghi collettivi accessibili da parte di tutti; difficoltà gravi per accedere ad alloggi a prezzi ragionevoli in luoghi dai quali sia facile e comodo accedere ai servizi e al lavoro. La precarietà della condizione lavorativa, della certezza di un reddito adeguato alle necessità della vita sociale. La privatizzazione, aziendalizzazione e commercializzazione di beni pubblici essenziali, come l’acqua, la salute, la formazione.

Questi temi toccano direttamente l’esperienza di vita dei cittadini. Meno direttamente la toccano altri temi, che pure hanno sollecitato un movimento molto vasto, che costituisce il tessuto connettivo tra moltissimi comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva. Mi riferisco al movimento che tenta di contrastare il consumo di suolo: la trasformazione sempre più estesa di terreni naturali, spesso caratterizzati da una buona agricoltura o da piacevoli paesaggi rurali, in aree urbanizzate dalla speculazione immobiliare o dall’abusivismo. Il consumo di suolo è molto esteso in Italia. Esso è considerato particolarmente grave perchè in Italia, a differenza che in altri paesi europei, le aree pianeggianti e di fondo valle (che sono quelle più interessate dalla trasformazione in cemento e asfalto) sono una porzione molto limitata del territorio nazionale, perché il territorio è ricchissimo di testimonianze storiche disperse per ogni doive, e perché sono del tutto assenti politiche governative e regionali tendenti a contrastarlo. Fino a pochi anni fa la stessa cultura accademica ignorava il fenomeno e la sua entità. Oggi, a parole, il consumo di suolo è criticato da tutti, ma solo un ampio movimento popolare ha intrapreso una lotta conseguente .

E insieme a questi temi, direttamente legati al territorio e ai beni comuni materiali, quelli dei diritti civili: della libertà e della cittadinanza per tutti, di un’equità vera nell’accesso di tutti ai beni dell’informazione, della partecipazione, della decisione, dell’eguaglianza di diritti tra persone minacciate dalla segregazione a causa del colore della pelle, della cultura e della religione, dell’etnia e della lingua, del genere e della condizione sociale.

Se guardiamo a queste rivendicazioni nel loro insieme vediamo che in esse si manifesta la spinta a trasformare i disagi individuali in un’azione comune. É un passaggio importante. Ricorda l’espressione di quel ragazzo della Scuola di Barbiana, nelle colline tra Firenze e Bologna, quando disse che aveva compreso una cosa decisiva: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica» . É la stessa molla che spinse i proletari in fabbrica a diventare forti utilizzando l’unico strumento che potevano opporre alla proprietà del capitale: la solidarietà dei possessori della forza lavoro. Allora il luogo nel quale il conflitto si svolgeva era di per se stesso tale da spingere alla solidarietà: era la fabbrica. Oggi l’habitat dell’uomo è un luogo nel quale è pervasiva la tendenza alla dispersione, alla frammentazione, alla segregazione.

C’è un concetto allora, al quale implicitamente rinviano tutte le vertenze che sopra ho elencato, sul quale si può (e si deve) far leva: occorre che la città (e per estensione l’intero habitat dell’uomo) sia considerato un bene comune. Ma su questa parole converrà soffermarsi.

Città come bene comune

Per comprendere il significato dell’espressione “città bene comune” è utile riflettere su ciascuna delle tre parole che la compongono.

Città

Nell’esperienza europea (ma probabilmente nell’esperienza storica di tutte le civiltà del mondo) la città è un sistema nel quale le abitazioni, i luoghi destinati alla vita e alle attività comuni (le scuole e le chiese, le piazze e i parchi, gli ospedali e i mercati ecc.) e le altre sedi delle attività lavorative (le fabbriche, gli uffici) sono strettamente integrate tra loro e servite nel loro insieme da una rete di infrastrutture che mettono in comunicazione le diverse parti tra loro e le alimentano di acqua, energia, gas. La città non è un aggregato di case, è la casa di una comunità.

Essenziale perché un insediamento sia una città è che esso sia l’espressione fisica e l’organizzazione spaziale di una società, cioè di un insieme di famiglie legate tra loro da vincoli di comune identità, reciproca solidarietà, regole condivise.

Bene

Dire che la città è un bene significa affermare che essa non è una merce. La distinzione tra questi due termini è essenziale per comprendere la moderna società capitalistica. Bene e merce sono due modi diversi, e anzi per certi versi opposti, di vedere e vivere gli stessi oggetti.

Una merce è qualcosa che ha valore solo in quando posso scambiarla con la moneta. Una merce è qualcosa che non ha valore in se, ma solo per ciò che può aggiungere alla mia ricchezza materiale, al mio potere sugli altri. Una merce è qualcosa che io posso distruggere per formarne un’altra che ha un valore economico maggiore: posso distruggere un bel paesaggio per scavare una miniera, posso degradare un uomo per farne uno schiavo. Ogni merce è uguale a ogni altra merce perché tutte le merci sono misurate dalla moneta con cui possono essere scambiate.

Un bene, invece, è qualcosa che ha valore di per sé, per l’uso che ne fanno, o ne possono fare, le persone che lo utilizzano. Un bene è qualcosa che mi aiuta a soddisfare i bisogni elementari (nutrirmi, dissetarmi, coprirmi, curarmi), quelli della conoscenza (apprendere, informarmi e informare, comunicare), quelli dell’affetto e del piacere (l’amicizia, la solidarietà, l’amore, il godimento estetico). Un bene ha un identità: ogni bene è diverso da ogni altro bene. Un bene è qualcosa che io adopero senza cancellarlo o alienarlo, senza logorarlo né distruggerlo.

Comune

Comune non vuol dire pubblico, anche se spesso è utile che lo diventi. Comune vuol dire che appartiene a più persone unite da vincoli volontari di identità e solidarietà. Vuol dire che soddisfa un bisogno che i singoli non possono soddisfare senza unirsi agli altri e senza condividere un progetto e una gestione del bene comune.

Il termine “comune” presenta peraltro una possibile declinazione negativa, più esplicito nel termine derivato “comunità”. Una comunità è una figura sociale che include (i membri di quell’organismo comune) ma contemporaneamente esclude (gli altri). Né questa declinazione può essere risolta sostituendo a “comune” il termine “collettivo”. É opportuno allora precisare il termine comune” (e “comunità”) con una ulteriore precisazione. Nell’esperienza della vita contemporanea ogni persona appartiene, di fatto, a più comunità. Alla comunità locale, che è quella dove è nato e cresciuto, dove abita e lavora, dove abitano i suoi parenti e le persone che vede ogni giorno, dove sono collocati i servizi che adopera quotidianamente. Appartiene alla comunità del villaggio, del paese, del quartiere. Ma ogni persona appartiene anche a comunità più vaste, che condividono la sua storia, la sua lingua, le sue abitudini e tradizioni, i suoi cibi e le sue bevande.

Appartenere a una comunità (essere veneziano, italiano, europeo, cittadino del mondo) mi rende responsabile di quello che in quella comunità avviene. Lotterò con tutte le mie forze perchè in nessuna delle comunità cui appartengo prevalgano la sopraffazione, la disuguaglianza, l’ingiustizia, il razzismo, e perché in tutte prevalga il benessere materiale e morale, la solidarietà, la gioia di tutti. Appartenere a una comunità mi rende consapevole della mia identità, dell’essere la mia identità diversa da quella degli altri, e mi fa sentire la mia identità come una ricchezza di tutti. Quindi mi fa sentire come una mia ricchezza l’identità degli altri paesi, delle altre città, delle altre nazioni. Sento le nostre diversità come una ricchezza di tutti.

Quali soggetti nella “città globale”

Nella città l’eguaglianza è sempre stata l’obiettivo di una dialettica mai placata. Sempre vi sono state differenze, più o meno profonde, tra i soggetti che l’abitavano. Differenze tra le diverse categorie di soggetti in relazione alla produzione della città (basta pensare a quelle tra i proprietari di fondi e di edifici e i non proprietari), e differenze in relazione all’uso della città (nell’accesso alle sue diverse parti e componenti, nella scelta tra usi alternativi delle risorse destinate al suo governo). Perciò la città è stata sempre anche il luogo dei conflitti, nei quali le categorie più svantaggiate hanno tentato di raggiungere un livello accettabile di soddisfacimento delle loro esigenze.

Possiamo dire che una città giusta è quella nella quale vi è un ragionevole equilibrio delle condizioni offerte ai diversi gruppi sociali, e nelle quali tendenzialmente a ciascuno è dato di partecipare in modo equo all’uso del bene città e delle sue componenti, e a concorrere in condizioni d’eguaglianza al suo governo.

É probabile che questo obiettivo non sia mai stato raggiunto in modo compiuto. Sembrava che vi si fosse vicini nell’età del welfare, almeno in quella parte del mondo nella quale le virtù del sistema capitalistico borghese avevano condotto a un ragionevole equilibrio tra le forze antagoniste presenti al suo interno, esportando nel mondo dello sfruttamento coloniale le contraddizioni. Oggi sembra che il mondo se ne stia allontanando sempre più.

La tendenza generale sembra infatti quella di un’accentuazione di tutti gli squilibri tra ricchi e poveri, sfruttati e sfruttatori. Tra i due estremi dell’opulenza e della miseria aumenta la casistica delle differenze con una forte propensione al moltiplicarsi di enclaves e recinti, ciascuno dei quali racchiude gruppi sociali diversamente dotati di accesso ai beni ma ugualmente rinchiusi nella loro incapacità di comunicare con gli altri in termini di comprensione, condivisione, cooperazione.

Essi sono però uniti da un comune destino costituito da due elementi. Da un lato, dal fatto di appartenere tutti al medesimo pianeta, le cui risorse appaiono sempre più limitate, e sono contese tra utilizzazioni alternative, dove prevalgono quelle che privatizzano e commercializzano i beni comuni. Dall’altro lato, dal fatto di appartenere a un habitat (e a un’economia) nel quale la tradizionale dimensione del “locale” è sempre più integrata da una dimensione “globale”, che lega tra loro i diversi “locali” in un sistema sempre più governato da attori lontani e irraggiungibili: da un pugno di uomini dotati di poteri invincibili.

L’habitat dell’uomo appare insomma sempre più caratterizzato dalla integrazione di differenti luoghi, ciascuno con la propria storia, le proprie tradizioni, le proprie peculiarità, i propri conflitti, ma tutti legati tra loro dall’essere funzionali a un unico processo di sfruttamento economico e a un unico sistema territoriale. Un sistema territoriale che Saskia Sassen ha definito “città globale” , del quale due elementi essenziali garantiscono la sopravvivenza e la funzionalità. Da un lato, “l’infrastruttura globale”, cioè l’insieme delle reti tecnologiche, dei luoghi eccellenti, delle attrezzature di livello mondiale che garantiscono la vita e le attività dei gruppi sociali che detengono il potere. Dall’altro lato, i flussi dei popoli e dei gruppi sociali che la miseria ha “liberato” dalla possibilità di risiedere nei luoghi della loro origine, proseguendovi le attività tradizionali, e ha ridotto così a mera forza lavoro disponibile, e perciò sono idonei a essere utilizzati nei luoghi dove è più opportuno sfruttarne il basso costo.

Tra gli uni e gli altri, tra gli abitanti della “infrastruttura globale” e quelli del “pianeta degli slums ”, vive e consuma la massa del “terzo strato”: di quell’insieme di ceti e gruppi che appartengono alla cultura dei padroni, che sono indotti a condividerne l’ideologia e i valori, che aspirano a sedersi anche loro al desk dove si decide e, soprattutto, a condividere i livelli di remunerazioni e i benefici concessi agli abitanti del “primo strato”. Il loro destino oscilla tra il timore di essere gettati tra i poveri da una delle crisi ricorrenti, e la speranza di essere promossi ottenendo una promozione o vincendo qualche premio alla ruota della fortuna. Di fatto, essi costituiscono per i gruppi dominanti un tessuto sociale di protezione nei confronti della moltitudine dei più deboli e più sfruttati, dai quali è sempre possibile aspettare l’insorgenza.

Se questa rappresentazione della città di domani (che è già presente tra noi) è condivisibile, allora il concetto di “diritto alla città”, così com’è stato elaborato nel corso del secolo scorso, richiede oggi un impegno del tutto particolare, poiché sollecita ad affrontare la questione nel quadro della globalità che oggi la caratterizza. Oggi non è più sufficiente perseguire l’equità all’interno di una delle numerose “città”, o tipi di città, della tradizione, ma occorre cercarla nell’insieme dell’habitat dell’uomo, rompere le barriere tra i diversi strati che lo compongono la “città globale. E il tentativo di perseguire l’equità a questo livello non potrà condurre a risultati soddisfacenti se non si terrà conto, insieme a ciò che unisce, anche di ciò che divide: della grande diversità delle condizioni culturali e materiali tra le varie realtà locali che compongono il “globale”.

Non è insomma in un archetipo della vita urbana che si potranno trovare i riferimenti esclusivi di un nuovo paradigma, ma solo nell’attenta ricerca di ciò che – all’interno di tutte le storie, le culture, le tradizioni che hanno caratterizzato i popoli e i luoghi del mondo – costituisce un insegnamento da applicare per costruire, utilizzando le rovine delle vecchie, una nuova città pienamente umana.

Riconquistare la storia e lo spazio pubblico

La città della tradizione non è ancora scomparsa. Sul terreno non sono rimaste solo rovine. C’è anche vita, speranza, e quindi germi di un possibile futuro. Ne ho indicati i segni nelle tensioni sociali che nascono un po’ dappertutto per resistere alla dilapidazione del beni comuni, nelle vertenze aperte per difendere lo spazio e gli spazi pubblici che la globalizzazione neoliberista sta divorando, nei tentativi di ricostruire una nuova socialità – e una nuova politica – dal basso. É da qui bisogna partire.

Beni e valori comuni, spazi e spazio pubblico, funzioni collettive: questo è il punto di partenza segnalato da ciò che si muove nella società. Ed è questo, in definitiva, che la storia ci indica.

Se si vuole costruire un futuro diverso dal presente è dalla storia che bisogna partire. “Historia magistra vitae”, la storia è maestra della vita. Proprio per questo quei poteri che vogliono che le cose rimangano come sono hanno tentato di cancellare la storia (la consapevolezza del nostro passato, delle radici di ciò che siamo e quindi dei germi di ciò che saremo) dalla nostra memoria. Recuperare la memoria, recuperare la storia: questo è ciò che è innanzitutto necessario per contrastare chi vuole appiattire l’uomo sul suo presente, per inculcargli la convinzione che nulla è modificabile, perché tutto ciò che è stato è quello che sarà, ed è tutto già cristallizzato in un presente immodificabile.

La storia – e le lotte di oggi – ci danno un’indicazione precisa: partire dalla difesa e dalla riconquista dello spazio pubblico. In tutti i suoi aspetti. Poiché è spazio pubblico la piazza, sono spazio pubblico le aree destinate alle funzioni collettive, è spazio pubblico una politica sociale per la casa. Ma è spazio pubblico l’erogazione di servizi e attività aperti a tutti gli abitanti: dalla scuola alla salute, dalla ricreazione alla cultura, dall’apprendimento al lavoro. Ed è spazio pubblico la capacità della collettività di governare le trasformazioni urbane e la possibilità di ogni cittadino di partecipare alla vita della città e delle sue istituzioni, è spazio pubblico la democrazia e il modo di praticarla al di là delle strettoie dell’attuale configurazione della democrazia rappresentativa.

Il compito dell’urbanista

Per un urbanista l’obiettivo della difesa e riconquista dello spazio pubblico pone una molteplicità d’impegni. Il primo , nella situazione di oggi, è quello della difesa del metodo e dello strumento della pianificazione in quanto tale. Senza una visione olistica e di lungo periodo del territorio e delle sue trasformazioni non è possibile realizzare una città equa e umana: non è possibile garantire un futuro nel quale il diritto alla città sia realizzato.

Non basta però una qualsiasi pianificazione. É necessaria una pianificazione che abbia come suoi obiettivi non il privilegio degli interessi immobiliari, né la crescente “valorizzazione economica” del territorio, né lo “sviluppo dell’urbanizzazione” indipendentemente dalle sue finalità, ma il benessere delle popolazioni presenti e future in termini di salute, di accesso alle risorse e a tutti i beni comuni sia naturali che storici. Una pianificazione che assuma tra i suoi compiti principali (se vogliamo contrastare ciò di più negativo oggi accade) il contrasto al consumo di suolo e delle altre risorse naturali limitate, e il soddisfacimento, nell’organizzazione della città e del territorio, delle esigenze collettive dell’abitazione, dei servizi, della mobilità in condizioni di equità per tutti gli abitanti. Una pianificazione che abbia al suo centro la ricerca dell’equità nella dotazione dei servizi , nella libertà dell’uso e dell’accesso agli spazi della vita e delle funzioni collettive indipendentemente dalle condizioni sociali, culturali, economiche, della razionalità nella disposizione delle cose sul territorio, della bellezza nella definizione dei nuovi paesaggi e nella conservazione di quelli esistenti.

Si tratta allora per gli urbanisti – almeno in Italia - di cambiare molto rispetto alle attuali tendenze culturali. Più che tecnici al servizio degli interessi attuali e futuri della maggioranza della popolazione gli urbanisti sono oggi ridotti alla condizione di “facilitatori” degli interessi immobiliari, di “negoziatori” tra le aspettative dei proprietari e utilizzatori di aree da “sviluppare” con l’urbanizzazione indipendentemente dalle priorità sociali, di operatori abili a “perequare” gli interessi dei proprietari immobiliari e del tutto indifferenti alle ben più gravi sperequazioni tra persone, gruppi sociali e classi che abitano la città.

Ma pianificazione significa anche partecipazione dei cittadini al governo del territorio, alle decisioni che concorrono a realizzare le condizioni della vita futura. Perciò lavorare in questa direzione significa anche impegnarsi nel tentativo di espandere le democrazia (la capacità e possibilità di tutti di concorrere alla costruzione del bene comune) al di là dei limiti della democrazia rappresentativa e dell’istituto della delega permanente. Significa allora dare a tutti la possibilità concreta di essere liberi di partecipare alla vita pubblica, rendendo indipendente la libertà dalla proprietà . Significa perciò anche costruire una nuova economia, nella quale il lavoro non sia alienazione (nel senso di ordinamento ad altro da sé) e riduzione dell’attività dell’uomo a merce, ma sia “lo strumento, peculiarmente umano, attraverso cui l’uomo raggiunge i suoi fini” . Ma qui si apre un discorso che andrebbe ben al di là del tema di questo contributo, e di questo stesso fascicolo.

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