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Paola Somma
12 Biennali di Architettura, 35 anni di saccheggio della città
28 Ottobre 2010
Esibizioni di architetture e penetrazione dell’ideologia modernista nella città storica. Scritto per eddyburg

Il discorso programmatico di Kazuyo Sejima che, appena nominata a dirigere la Biennale di Architettura, ha dichiarato di volere organizzare “non una vetrina di archistar ma un luogo d’incontro fra i cittadini e l’architettura” è stato accolto con entusiasmo dalla critica e dai mezzi di informazione di massa. In particolare, un clima di grande aspettativa è stato creato attorno ai cosiddetti “sabati dell’architettura”, una serie di tavole rotonde presiedute dai direttori che si sono succeduti nelle dodici edizioni della Biennale. Tali incontri hanno attirato folle di visitatori, inclusi molti gruppi di studenti universitari ai quali, oltre ad un biglietto a prezzo ridotto, vengono elargiti dei crediti accademici.

Gli ex direttori sono stati invitati a parlare dei “temi che più loro aggradano” e così hanno fatto, ritornando in genere su quelli attorno ai quali avevano organizzato la loro esposizione. A prescindere dal tono più o meno autocelebrativo di alcuni interventi, nel complesso è mancato il benché minimo accenno di riflessione sul ruolo che ognuna delle 12 Biennali - e tutte insieme nel corso di 35 anni - ha avuto nel sostenere e legittimare la devastante trasformazione della città.

Ovviamente, la Biennale non è l’unica responsabile del saccheggio di Venezia, ma vi ha contribuito in maniera attiva - in sintonia e complicità con le altre istituzioni locali, dall’università al comune - sia alimentando il consenso attorno alle più dissennate proposte di cosiddetta riqualificazione e rivalorizzazione di aree ed edifici che facendosi essa stessa promotrice di una serie di progetti.

A partire dalla consultazione internazionale del 1975 per la raccolta di idee “a proposito del molino Stucky” – che poi Caltagirone ha trasformato in un hotel Hilton – fino al recente conferimento del premio alla carriera al prestigioso architetto che ha appena predisposto il progetto per la riconversione della sede centrale delle poste in un ennesimo shopping mall, non c’è speculazione né saccheggio di spazio pubblico che non sia stato esibito alla Biennale e gratificato dal suo marchio di garanzia. Per questo, se nell’incontro conclusivo la direttrice volesse impostare su fatti concreti oltre che su vaghe declamazioni la discussione su quel “legame tra architettura e società” che tanto le sta a cuore, una ricostruzione anche sommaria dell’idea di città che in 35 anni l’istituzione ha appoggiato e propagandato potrebbe essere una traccia interessante.

Se il concorso di idee per il molino Stucky ha sdoganato l’idea che il lavoro ed i lavoratori dovessero essere scacciati da Venezia, le successive iniziative hanno cinicamente diffuso un’immagine della città come palcoscenico per suggestive ed effimere rappresentazioni ma, al tempo stesso, ne hanno usato il suolo per affari ben concreti. Una tappa fondamentale di questo processo è la Strada Novissima del 1980 che Bruno Zevi, in un celebre articolo dal titolo “facciatisti facciatosti”, stroncò come “architettura di cartapesta per un pensiero di cartapesta”. A suo giudizio, i postmoderni “non hanno idee sulla città e sul territorio… nel loro cinismo politico e sociale organizzano un po’ di feste baroccheggianti che distraggano la gente, guardano indietro con la pretesa fortunatamente vana di annientare le conquiste del movimento moderno” (vedi l’Espresso, 17 agosto 1980). In realtà, le loro idee sulla città e sul territorio sono diventate dominanti e operative e, non a caso, la successiva edizione della Biennale lanciò il “Progetto Venezia”, una serie di concorsi per siti e occasioni concrete, dalla costruzione di un nuovo manufatto per sostituire l’esistente ponte dell’Accademia ad un nuovo palazzo del cinema al Lido.

I progetti premiati non poterono essere realizzati, perché troppo costosi. Si avviò, quindi, una serie di progetti più “cantierabili”, quali il padiglione del libro di James Stirling nel viale d’ingresso ai Giardini. Propagandato come “uno dei più felici e duraturi risultati” della quinta Biennale, l’edificio “in posizione strategica tra i filari di alberi che saranno conservati” ha comportato la distruzione di una serie di alberi di alto fusto. (vedi foto)

In occasione della stessa edizione, e per ribadire l’importanza di un “confronto stretto tra la Biennale e il territorio di Venezia”, vennero banditi altri concorsi, tra i quali ancora uno per il palazzo del cinema ed un altro per la “riqualificazione di piazzale Roma”. La soluzione scelta, che prevede di riempire “il vuoto” attuale con un parcheggio interrato e di ricoprirlo con un secondo piano di negozi e attività commerciali, viene periodicamente ripresa in esame dall’amministrazione comunale che prima o poi conta di trovare gli “sviluppatori” interessati all’investimento.

Se l’elenco delle singole proposte può diventare inutilmente ripetitivo, è però opportuno che mentre la Biennale lanciava le sue iniziative, i governanti locali ne facevano proprie alcune ed altre le inventavano da sé, o grazie alla creatività dei loro consulenti scatenati nell’immaginare gigantesche “porte” della città, megaaeroporti per milioni di passeggeri, ponti inutili, nuovi centri commerciali e abitazioni di lusso, il tutto da realizzare grazie al saccheggio di tutti i beni pubblici. Tutti d’accordo, comunque, nel mettere a tacere ogni voce contraria e stroncare qualsiasi velleità di discussione montando campagne tese ad accreditare l’idea che Venezia debba smettere di essere una città ostile all’architettura moderna e all’innovazione e che i suoi cittadini superstiti e residuali invece di lamentarsi per la rapina debbano visitare la Biennale.

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