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Massimo Quaini
Il paesaggio e’ morto, viva il paesaggio!
17 Agosto 2010
Il paesaggio e noi
La relazione del coordinatore del recente Rapporto “I paesaggi italiani” della Società geografica italiana al convegno di Agriturist (Confagricoltura) a Riomaggiore, 1° dicembre 2009

La terra promessa della modernizzazione è diventata terra bruciata dalla desertificazione ambientale, sociale, spirituale (Alberto Magnaghi)

Il paesaggio è morto? Ma quale paesaggio? E’ morto o moribondo il paesaggio che era espressione di un modello o sistema economico pre-industriale che, per quanto sopravviva ancora qua e là nel mondo e anche nelle pieghe del territorio di un paese come il nostro (che si definisce la quinta o sesta potenza industriale), è stato “superato” o, per meglio dire, annullato nella sua capacità di autoalimentarsi, non solo dall’industrializzazione ma anche dal dominio sempre più invasivo, anche a livello locale, del capitale finanziario globale.

Se il paesaggio è morto, quale capacità di progettare e costruire paesaggi ci rimane, oggi, al di là della conservazione e restauro dei paesaggi ereditati? La risposta prevalente è stata in passato quella di recintare spazi naturali e umani con l’istituzione dei parchi nazionali, regionali e anche urbani, nella convinzione che il paesaggio, come la natura, potessero vivere solo come spazi eccezionali, di piacere e contemplativi, disgiunti da qualsiasi finalità produttiva. Tutto il resto non doveva essere considerato paesaggio, ma apparteneva al regno del funzionale e dell’utile.

In altri termini, abbiamo certamente democratizzato le recinzioni e i parchi e giardini del regime aristocratico, ma siamo rimasti dentro lo stesso modello territoriale. Nelle rivoluzioni che hanno prodotto la caduta del regime aristocratico c’era qualcosa di più: la liberazione di tutti gli spazi recintati, la libertà celebrata da Rousseau di percorrere e godere liberamente del bel paesaggio, del giardino della natura e di continuare a produrlo limitando la città e la tecnologia. La trasformazione del paesaggio da “giocattolo” aristocratico a pratica popolare, democratica, e per questa via anche il superamento della separazione fra l’utile e il bello, la produzione e la contemplazione, che oggi viene ulteriormente sancita dalla Convenzione europea del paesaggio, data da questo momento storico.

La Convenzione, il suo più profondo significato politico, ci invita oggi a un diverso rapporto con la storia, con le ragioni di un passato non del tutto tramontato. Il modello economico “superato” dalla storia, di cui il paesaggio extraurbano che oggi cerchiamo di tutelare nei suoi spazi residui era la manifestazione visibile, si può definire di tipo pre-capitalistico per il fatto di mantenersi e vivere in una dimensione culturale prevalentemente locale, artigianale e familiare (l’azienda contadina e familiare vi aveva infatti una centralità che in buona parte è stata smantellata dalla nuova scala dell’agroindustria e del mercato).

Questo mondo pre-capitalistico, fatto di luoghi e paesaggi, confligge fortemente con la globalizzazione in atto, la sua conservazione è una delle poste in gioco della battaglia fra locale e globale. La teoria di Marx – che è alla base di qualsiasi teoria della globalizzazione – ci aiuta anche oggi a capire le manifestazioni di questa battaglia. In particolare, ci aiuta la teoria della crisi economica data da Rosa Luxemburg un secolo fa e di recente richiamata da Zygmunt Bauman anche per spiegare l’ultima crisi. Che cosa diceva la Luxemburg, che non a caso amava molto la geografia e il paesaggio (come mostra le sue lettere dal carcere)? Diceva che il capitalismo per continuare nella sua corsa alla accumulazione ha bisogno che esistano ambienti o spazi pre-capitalistici, ma che la sua è una corsa verso l’abisso, in quanto penetrando in tali ambienti li trasforma in capitalistici e quindi elimina progressivamente le basi economiche della sua espansione o accumulazione.

Ma, oltre a questo aspetto – che come ci mostra Bauman fa in qualche modo della difesa del paesaggio un’articolazione della lotta contro un capitalismo parassitario che della speculazione finanziaria e della rendita edilizia fa la sua principale strategia di sopravvivenza – ce n’è un altro che va richiamato: l’attualità della cultura artigianale. Ce lo ha di recente dimostrato Richard Sennet in una monumentale ricerca dedicata all’ Uomo artigiano (Feltrinelli, Milano, 2008).

Che cosa ci viene mostrando questa ricerca? Qualcosa di cui in molti proviamo sempre più nostalgia: la maestria dell’artigiano. Metafora di quel “materialismo culturale” oggi necessario per trovare alternative al mondo dominato da Pandora o dalla tecnica scatenata: “Il mito di Pandora è diventato oggi un simbolo secolarizzato di autodistruzione. Per far fronte a questa crisi fisica ci corre l’obbligo di modificare sia gli oggetti che produciamo sia l’uso che ne facciamo. Dovremo imparare modi diversi di costruire gli edifici e di organizzare i trasporti, dovremo imparare rituali che ci abituino al risparmio. Dovremo diventare bravi artigiani dell’ambiente” (p. 21). Anche e soprattutto rispetto e a questa arte che “oggi ci è estranea”. Sennet, con una serie di esempi e indagini davvero convincenti, ci dimostra come “la grande sfida alla quale la società moderna si trova di fronte, sia come continuare a pensare da artigiani facendo un uso corretto della tecnologia” (p. 50). L’esempio è in questo caso rappresentato dalla matita di Renzo Piano e dalla sua maestria artigianale che usa ancora la mano per disegnare e progettare e solo in subordine usa il computer. Secondo Sennet è questa “sinergia mente-mano-desiderio-ragione che ha fatto grande il mondo occidentale e forse può oggi restituirgli saggezza”.

Non dobbiamo mai dimenticare che è questo modello economico locale, artigianale e familiare che ha prodotto la qualità architettonica sia del paesaggio urbano (per i centri storici), sia di un paesaggio rurale che oggi ci pare insuperato, non solo per bellezza, armonia e diversità culturale (oltre che per biodiversità), ma anche per equilibrio nell’uso del suolo e delle risorse ambientali. Si potrebbe definire come un paesaggio che, essendo più ancorato al valore d’uso e alla qualità e perfezione tecnica che al valore di scambio e alla serialità e globalità della produzione moderna, era fatto per durare nelle sue forme insediative e territoriali e dunque era naturalmente sostenibile. Sostenibile senza bisogno di dichiararlo o pretendere una certificazione ambientale, perché questa durevolezza e sostenibilità era interna al sistema economico che produceva il paesaggio.

Per capirci con qualche esempio geografico: si trattava di un paesaggio che anche là dove esistevano le pressioni maggiori del capitalismo e del mercato internazionale, come è stata la Liguria anche prima dell’ultima rivoluzione industriale, si manteneva in quanto il sistema economico e la sua cultura continuava ad avere dentro di sé un senso molto forte dei limiti invalicabili, di natura sia geografica sia temporale, oltre i quali o sotto i quali non si poteva andare se non si voleva mettere in atto processi di degrado più o meno irreversibili.

Faccio un esempio: il paesaggio della nostra regione si fondava su un rapporto equilibrato e armonico fra costa e entroterra, fra risorse ed economie del mare e risorse ed economie della campagna e della montagna, che è venuto meno solo nelle trasformazioni più accelerate del XX secolo. Ancora nell’Ottocento, ci sono state grandi riuscite marittime, per esempio a Camogli (i cui armatori avevano una flotta non inferiore ai genovesi), che tuttavia, come era accaduto in passato, non hanno stravolto l’equilibrio e le forme del paesaggio che le generazioni precedenti avevano costruito. Nessuno allora ha pensato che il futuro economico di Camogli dovesse realizzarsi a detrimento del suo territorio e paesaggio, per esempio con la creazione delle infrastrutture necessarie per mantenere questo tipo di sviluppo nell’età della crescente globalizzazione e competizione internazionale. Si sono rialzate di qualche piano le case della “palazzata” lungo mare, si sono costruiti, come altrove, nuovi servizi e limitate espansioni del tessuto edilizio, ma nessuno ha mai pensato che la grande tradizione ed economia marittima di Camogli dovessero tradursi in macro-infrastrutture portuali o stradali che per essere fuori scala avrebbero sconvolto un paesaggio che non era idoneo a questo tipo di sviluppo né sul piano commerciale né su quello del turismo nautico. E neppure è accaduto che i capitali locali ricavati da una florida economia marittima si riversassero in grandi speculazioni edilizie e turistiche. Quello di Camogli mi pare un bell’esempio di capitalismo marittimo che ha saputo autolimitarsi fino al punto da scomparire a vantaggio di altri porti di armamento che avevano maggiori possibilità geografiche di espansione.

Anche nel prossimo golfo della Spezia, la costruzione dell’Arsenale, per quanto abbia occupato paesaggi costieri suburbani e destinati essenzialmente a orti o a spazi incolti, non ha prodotto l’annullamento del Golfo e dei suoi paesaggi più amati dai viaggiatori dell’Ottocento, come hanno fatto, e ancora minacciano di fare, l’espansione della città, del suo porto commerciale e di un turismo, nautico e non, sempre più aggressivo e che oggi minaccia anche le Isole. Gli operatori economici e quanti stanno nella stanza dei bottoni sono incapaci di riconoscere l’incompatibilità geografica di certi sviluppi: porto commerciale, grandi navi portacontainer, turismo, maricoltura ecc., tutti destinati a convivere negli stessi spazi assai ridotti.

In generale, oggi – a differenza di quanto avvenuto a Camogli o nel Golfo al tempo della costruzione dell’Arsenale (dove a prevalere è stata la logica dell’intervento a fini di utilità pubblica) – accade che se in loco sono assenti i capitali privati ai fini degli interventi speculativi si convogliano quelli esterni, che, per la loro stessa formazione, non sono interessati alla sostenibilità della economia locale ma solo alla redditività di un impiego che per sua natura è indifferente ai luoghi in cui si realizza.

Per caratterizzare le differenze fra questi due diversi modelli economici potremmo prendere a prestito alcune categorie di Levi-Strauss – per nulla invecchiate – e parlare di “culture o società fredde” in grado di controllare le loro economie per mantenere i paesaggi nei quali riconoscono la loro identità, e culture o società “calde” che riconoscendosi in altri valori, eminentemente economici e settoriali (non identitari), sono disposte a sacrificare i loro paesaggi in nome del cambiamento, del “progresso”, della modernizzazione, della globalizzazione ecc. ecc.

La centralità del paesaggio, oggi, consiste nel metterci di fronte al grande tema di che cosa voglia dire progresso, modernità, civiltà, oltre che nel riportarci alla centralità del rapporto locale/globale.

Se noi oggi verifichiamo la verità del paradosso di Giuseppe Verdi, rievocato di recente da Marc Fumaroli su “La Repubblica”: «Torniamo all’antico, sarà un progresso», vuol dire che sono state poste le condizioni di un capovolgimento di valori. L’idea nuova è appunto questa: che guardare al passato e tornare all’antico (non semplicemente restaurandolo ma rinnovandolo) possa essere il vero progresso che dobbiamo inseguire. Ovvero che il vero progresso sta nella negazione dell’idea ottocentesca di progresso che le grandi tragedie del Novecento hanno smantellato sul piano filosofico ma non su quello economico.

Anche qui, se vogliamo essere concreti e propositivi dobbiamo partire dall’oggi, dalla pesante crisi globale che ha coinvolto un capitalismo finanziario e parassitario che vede sempre più ridursi i suoi margini di manovra e di crescita (per crescere ha infatti bisogno come sosteneva Rosa Luxembourg di colonizzare quelle “terre vergini” e settori “precapitalistici” che si vanno continuamente riducendo nel momento in cui vengono “modernizzati”). Non teorizziamo a livello globale. Teniamoci al locale. Prendiamo l’Italia. In molti dicono che “se l'Italia uscisse dalla crisi, crescendo come prima della recessione, ci vorrebbero 15 anni solo per tornare ai livelli di benessere precedenti la crisi. E' una prospettiva tutt'altro che allettante. Eppure il dibattito pubblico tratta di tutto tranne che di scelte strategiche in grado di far ripartire il paese a tassi più sostenuti” (Economisti di La voce.info).

Anche a prescindere dal fatto che la scelta di tornare a crescere a tassi più sostenuti potrebbe anche non essere strategica (se è vero che ci dovremmo porre limiti alla crescita), viene da pensare che, se è vero che “fare ripartire il paese per riprendere il corso precedente significa sprecare una grande opportunità”, si dovrebbe guardare a ricette differenti e più radicali come potrebbero essere quelle di indirizzate l’economia, oltre che sull’ambiente e le energie rinnovabili, sulla stabilità del territorio e la tutela del paesaggio.

Nel Rapporto 2009 I paesaggi italiani fra trasformazione e nostalgia, che ho curato per la Società Geografica Italiana, mi sono per l’appunto domandato se alla luce della crisi “non sarebbe il caso di ripensare il modello di sviluppo” soprattutto in regioni ad alto tasso di disindustrializzazione, visti anche gli effetti positivi in termini di coesione territoriale e sociale di modelli economici regionali fondati sull’attrattività residenziale e sulla domanda delle famiglie”. Ovvero, perché non approfittare della crisi economica globale per rispondere a questa domanda sociale e fare del territorio e dei paesaggi finora disertati dagli investimenti e dal mercato, non meno che dalla politica, le basi di un grande cantiere di manutenzione ambientale e di mantenimento e gestione-valorizzazione di patrimoni insediativi e rurali che, in quanto costituenti paesaggi antropizzati da qualche millennio, non stanno in piedi da soli? Un grande cantiere che, oltre a rispondere alle enormi esigenze di prevenzione del dissesto idro-geologico, potrebbe cominciare a soddisfare una forte domanda residenziale che, in Liguria, dalla costa sovraffollata tende a spostarsi nella più rurale collina e montagna litoranea, e soprattutto a tradurre nei fatti un modello locale di sviluppo che armonicamente e con saggezza artigianale o contadina tiene insieme le molteplici offerte e domande che oggi collegano in maniera virtuosa la città e la campagna attraverso il turismo rurale, la nuova agricoltura contadina e l’artigianato rurale volti a produzioni di nicchia e di qualità.

Solo in contesti sociali e territoriali alimentati tanto da nuove ragioni scientifiche e culturali centrate sul bene comune paesaggio (e ambiente), quanto da orizzonti prospettici più ampi di quelli della tradizionale pianificazione, possono oggi maturare progetti che non siano di corto respiro, come è il recente piano-casa che va nella direzione esattamente opposta a quella ora indicata per un evidente deficit culturale e di progettualità innovativa.

In effetti i nuovi orizzonti economici e culturali, entro i quali dobbiamo oggi inserire la nostra progettualità, hanno molto a che fare con l’idea di modernità declinata non solo nel senso della postmodernità ma anche in quello della premodernità.

Qualche anno fa, un antropologo - Federico Scarpelli - ha pubblicato una ricerca intitolata La memoria del territorio. Patrimonio culturale e nostalgia a Pienza, partendo da questa domanda: «Come mai ed in che senso nel cuore di uno dei paesaggi più famosi del mondo, quello di Pienza e della Val d'Orcia, covano nostalgie per quando non si era moderni? Nell'epoca in cui il patrimonio culturale appare sempre di più un terreno di confronto, scelta, ridefinizione, la "nostalgia" diventa qualcosa di simile ad una macchina per pensare il passato, il presente, il futuro del proprio territorio».

L’evviva al paesaggio sembra dunque declinarsi con la nostalgia, sentimento che in genere segnala una trasformazione troppo rapida e tutto sommato sconvolgente, portatrice di una perdita che suscita tristezza, malinconia. In realtà il rapporto del paesaggio con la memoria storica e con la nostalgia è più complesso di quanto appaia a prima vista ed è comunque essenziale per ripensare non solo il passato ma anche il presente e perfino il futuro del nostro territorio.

Ci aiuta a capirne la portata, un aforisma del vecchio Goethe, che segnala un’importante differenza rispetto al nostro tempo: “Non c’è passato che sia lecito richiamare con nostalgia, c’è solo un mondo eternamente nuovo, che si forma con l’ampliamento degli elementi del passato e la vera nostalgia deve essere sempre produttiva per creare un mondo migliore”. Goethe viveva nel momento storico in cui l’antico regime era crollato e attraverso rivoluzioni e guerre l’ampliamento o meglio la fecondazione degli elementi più validi del passato facevano nascere un mondo nuovo. Possiamo oggi dire lo stesso? Malgrado lo spreco e la conseguente insignificanza del termine “epocale”, oggi non possiamo ripetere quanto Goethe ebbe a dire di fronte all’esercito napoleonico: “è nata la novella storia”.

Che cosa ci manca? Ci manca l’ampliamento, la fertilizzazione delle eredità del passato che una discontinuità ancor più profonda ha reso, almeno per l’aspetto che ci interessa, più difficile. Per questo la nostra nostalgia deve essere più profonda e più produttiva, deve ricreare archi col passato non solo sul piano culturale e della civiltà ma anche sul piano della produzione di nuovi paesaggi.

In buona sostanza prima della più massiccia fase dell’industrializzazione europea si erano certamente manifestate trasformazioni anche profonde, ma non grandi rotture nel paesaggio urbano e rurale. Appare evidente se appena guardiamo alle aree più avanzate con gli occhi delle trasformazioni che abbiamo sotto gli occhi: la città non si era ancora dispersa, annullata nella campagna e le campagne non erano ancora state annullate dall’agroindustria e dall’urbanizzazione e infrastrutturazione selvaggia che caratterizza il nostro tempo. La continuità col passato e il graduale adeguamento alle nuove esigenze (igiene, bonifiche ecc.) consentiva una lettura stratificata dei paesaggi e interventi non traumatici.

In conclusione, il paesaggio, soprattutto nella versione della Convenzione europea, oggi può offrirci un’altra grande opportunità: riguadagnare il senso di una qualità diffusa che oggi non siamo più capaci di garantire, come avveniva in passato, quando nessuno avrebbe ammesso che la conservazione o il vincolo delle aree più pregiate o della aree protette in senso letterale potesse andare di pari passo con il degrado del resto del territorio o che, per fare tutt’altro esempio, l’alta velocità implicasse l’abbandono del resto della rete: esempi di una tendenza alla gerarchizzazione degli spazi e dei flussi che non è meno deleteria di quella che si accentua sul piano sociale ed economico.

Se ne avessi il tempo potrei concludere la mia relazione leggendovi qualche passo delle lettere dal carcere di Rosa Luxemburg. Ma il tempo non c’è. Vi invito a farlo, alla luce di un’ipotesi di lavoro che può aggiungere un po’ di sale al percorso che oggi riusciamo a vedere più chiaramente anche grazie al sacrificio di Rosa. L’ipotesi è questa: chissà se Rosa, sopravvissuta alla sanguinosa rivolta spartachista, non avrebbe potuto guidarci, proprio grazie alla sua sensibilità per l’ambiente e il paesaggio, alle soglie di una considerazione diversa della lotta sociale: quella che oggi ci porta a sostituire la coscienza di luogo alla coscienza di classe senza timore per questo di perdere di vista l’obiettivo di una giustizia spaziale e sociale.

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