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Carla Ravaioli
Caro Viale, non fare un passo indietro
8 Luglio 2010
Capitalismo oggi
C’è chi ritiene che, soprattutto in un mondo delle idee sempre più pasticciato, mantenere il rigore delle proprie posizioni sia essenziale anche nel fuoco della polemica. Il manifesto, 8 luglio 2010

«L'auto è un prodotto obsoleto, che nei paesi ad alta intensità automobilistica non può che perdere colpi: 'tirano' per ora solo i paesi emergenti, fino a che il disastro ambientale, peraltro imminente, non li farà recedere anch'essi». Così ha scritto Guido Viale sul manifesto il 15 giugno scorso. Buttando all'aria tutte le «verità» di cui è intessuto il discorso del potere economico, universalmente diffuso nella «vulgata». Parlando di governi che sprecano miliardi «a cementificare il suolo, a rendere irrespirabile l'aria delle città e impraticabili strade e piazze, a riempirci di veleni rendendo sempre più sterili i suoli agricoli» e a sostenere «un'industria delle costruzioni che vive di Olimpiadi, expo, ponti fasulli e montagne sventrate»; che «continuano a riempirsi la bocca con la parola crescita, e stanno riportandoci all'età della pietra».

Con lucida rabbia affermando che l'alternativa a Marchionne esiste, ed è una decisa conversione ambientale di produzione e consumi, «a partire dagli stabilimenti in crisi e dalle fabbriche di prodotti obsoleti e nocivi: tra i quali l'automobile occupa il secondo posto, dopo gli armamenti». Ponendo i presupposti (come già notavo sul manifesto del 20 giugno) di un discorso capace di affrontare in tutta la sua terrificante magnitudine la crisi sociale e ecologica che scuote la Terra.

Ciò che d'altronde trova conferma nell'ampiezza e nella durezza della reazione prontamente opposta al discorso di Viale da numerosi e importanti organi di informazione. Condotta peraltro con argomenti che (a parte le banalità e talora le volgarità) mostrano non solo la sconfortante pochezza delle posizioni comuni anche ad «esperti» di larga fama, e la sostanziale assenza di ipotesi alternative a una realtà sociale e ambientale sempre più insostenibile, ma la deliberata mancanza di volontà, o forse la paura, di guardare senza veli questa realtà e metterla in causa: in una sorta di rimozione collettiva, di fuga dalla magnitudine di un problema apparentemente irresolubile, e soprattutto tale da rimettere in causa le «verità» come tali imperanti.

Debbo dire però che nemmeno la risposta di Viale (il manifesto 23 giugno) mi convince, anzi mi pare in qualche misura un arretramento rispetto alle posizioni coraggiosamente sostenute nel primo intervento. Come se l'autore fosse spaventato dall'azzardo del suo stesso discorso, e disposto a rispondere a quanti lo attaccano scendendo sul loro terreno. Cioè sulle consuete posizioni di una critica tutta interna alla logica invalsa: la quale non si sogna di mettere in causa la corsa obbligata alla crescita produttiva nella sua sostanziale insensatezza (il Pianeta Terra, come da sempre ripete l'ambientalismo più qualificato, non è dilatabile a nostro piacere, e ha ormai raggiunto livelli di «antropizzazione» oltre cui c'è solo catastrofe), ma si limita a discuterla in base alla capacità ricettiva dei mercati, e a quantificarla sulle previsioni della «ripresa», dei piani aziendali, della domanda dai paesi emergenti, ecc.

Viale si esercita infatti nel considerare quali settori produttivi sia preferibile conservare in Italia e quali trasferire in paesi terzi; nel calcolare il possibile aumento di produttività degli stabilimenti italiani; nell'indicare, tra le cause di scarsa efficienza, degrado complessivo del territorio, corruzione diffusa, immondizie inesorabilmente in accumulo, sfacelo amministrativo, ecc. Tutte cose vere ma che non mettono causa l'impianto complessivo dell'economia mondiale, e la sua insostenibilità presente e futura, come il primo intervento sembrava promettere, e in buona parte già abbozzava. Quella radicalità che accusava il crescente deterioramento degli ecosistemi insieme alla «irreversibile contrazione del mercato dell'auto», e apertamente auspicava la «conversione ambientale del sistema produttivo», in questa prospettiva citando l'automobile e gli armamenti - collocando anzi gli armamenti per primi - come «prodotti obsoleti o nocivi»: tutto ciò sembra, al momento almeno, dimenticato. Resta la citazione della green economy, ma senza tentativi di approfondimento della materia, che pure ne avrebbe gran bisogno.

Quando poi qualcuno gli attribuisce la convinzione che «il capitalismo è un imbroglio e l'economia di mercato una mistificazione», Viale risponde: «Magari lo penso, ma non l'ho certo scritto e non sta tra le premesse del mio discorso». Parole stranamente contraddittorie, che però in qualche modo a me pare descrivano in sintesi scelte e comportamenti di larga parte della migliore sinistra d'oggi. Fatta di persone per la maggioranza senza partito, ma consapevoli dell'attuale insostenibilità sociale e fisica del sistema industriale capitalistico; le quali però fuggono dalla loro stessa consapevolezza per dedicarsi a impegni parziali, ancorché di forte rilievo: vedi la grande battaglia contro la privatizzazione dell'acqua, e la resistenza alla Tav, al Ponte sullo Stretto, al Dal Molin, e il sostegno esterno alle lotte operaie di Pomigliano o Termini Imerese, ecc..

Sono tutte azioni di grande rilievo e di alto valore civile, di cui però sempre - per valorizzarne il senso autenticamente rivoluzionario - andrebbe ricordata la causa prima, puntualmente riconducibile al sistema economico e sociale dominante. Per fare un solo esempio: l'acqua pulita oggi è scarsa, non perché sia diminuita di quantità dai tempi in cui era un bene di tutti, abbondante e gratuito, ma perché oggi è usata massicciamente, e fortemente inquinata, dalla produzione industriale (basti pensare all'industrializzazione dell'agricoltura, basata su irrigazione continua e uso sistematico e massiccio di pesticidi, o ai continui sversamenti di petrolio e altre sostanze tossiche anche in acque dolci, come è accaduto di recente nel Po). Sottrarre la distribuzione dell'acqua al privato è certo sacrosanto (anch'io ho firmato), ma non basterà a salvare dalla sete intere popolazioni del Sud del mondo.

Per questo, poiché Viale si dice convinto che «il capitalismo è un imbroglio e l'economia di mercato una mistificazione», come gli viene attribuito da uno dei suoi critici, forse non dovrebbe dimenticare questa sua convinzione, ma usarla (magari riformulandola in termini più congrui, diversi dal linguaggio di Francesco Forte) come elemento centrale del discorso relativo a Pomigliano o a qualsiasi altro conflitto di ordine industriale, e dunque sociale. E dovrebbe usarla di regola, come premessa illuminante di ogni proposta o intervento che riguardino decenti rapporti sociali o provvedimenti destinati ad arginare seriamente la distruzione dell' ecosistema.

Questo non accade nemmeno nell'ultimo articolo, dal titolo «Così si riconverte Pomigliano» (1 luglio) in cui Viale si impegna a delineare un dettagliato programma di «progressiva e graduale riterritorializzazione», indicata come «conversione ambientale dei settori vitali del sistema economico»: un obiettivo - afferma - largamente condiviso nel settore agroalimentare, secondo il quale dovrebbe essere restituita «sovranità alimentare a tutti i paesi». Il discorso ha indubbiamente una sua suggestione di recupero di culture perdute oltre che di migliore qualità attuale, ma non è facile vedere in che modo possa garantire una «mobilità sostenibile» con servizi di trasporto condivisi, ecc., in una società che dedica massimo impegno al continuo lancio di nuove auto; o come possa assicurare un uso ecologicamente corretto delle energie rinnovabili, dato l'abuso, oggi divenuto regola, di queste tecniche nate per sostituire le energie più inquinanti, e non - come di fatto accade - per sommarsi ad esse allo stesso fine di incontrollato produttivismo (con conseguente degrado); quando (a Copenhagen lo si diceva senza riserve e su tutti i toni) i grandi potentati economici ne stanno facendo il nuovo motore di industria e trasporto su scala planetaria, e liberamente parlano di green business, green competitivity, green power, green growth, all'interno di una dimensione operativa puntualmente fedele a una logica quantitativa, davvero difficile da leggere in chiave ecologica.

Tra l'altro Viale sembra aver dimenticato, al momento almeno, quell'azzardo di grande intelligenza che lo aveva indotto a collocare sullo stesso piano, e obbedienti alla stessa ragione, produzione di armi e produzione di automobili. Un grosso discorso, secondo me capace di conseguenze cariche di significato. Un discorso da non abbandonare.

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