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Ugo Mattei
Il governo del comune il pianeta salvato dal declino
27 Giugno 2010
Scritti 2010
Prosegue la riflessione sui “commons”: le due visioni del mondo (competizione e collaborazione) che sono al fondo di ciascuna questione dei nostri tempi, e quella virtualmente superatrice. Il manifesto, 27 giugno 2010

Rimanere ancorati all'opposizione tra pubblico e privato impedisce lo sviluppo di una gestione cooperativa e condivisa dell'acqua, del sapere, della salute, dell'energia e del patrimonio culturale. Da qui la necessità di elaborare un'alternativa credibile al paradigma basato sull'individualismo metodologico dominante nel diritto, nella filosofia e nelle scienze sociali

Soltanto la rozza applicazione del modello dell 'homo oeconomicus, massimizzatore individualista delle utilità di breve periodo, spiega gli esiti (ed anche il successo accademico) della cosiddetta tragedia dei comuni. In effetti la nota parabola del biologo Garret Harding, presentata al pubblico in un celebre saggio nel 1968, pur oggi autorevolmente confutata perfino dal premio Nobel per l'economia nel 2009 Elinor Olstrom, ha portato il mainstream accademico a vedere il comune come luogo del non diritto. Secondo questa idea, una risorsa in comune in quanto liberamente appropriabile, stimola comportamenti di accumulo opportunistici che ne determinano la consunzione definitiva. Così ragionando si considera realistica l'immagine di una persona, invitata ad un buffet in cui molto cibo è liberamente accessibile, avventarsi sullo stesso cercando di massimizzare l'ammontare di calorie che riesce a immagazzinare a spese di tutti gli altri, consumando perciò la massima quantità possibile di cibo nel minor tempo possibile secondo il criterio dell'efficienza. Il senso del limite, creato dal rispetto nei confronti dell'altro e della natura, viene così escluso a priori da tale modello antropologico irrealistico fondato su una visione scientifica puramente quantitativa.

Tra competizione e concorrenza

La «tragedia dei comuni» evidenzia due visioni del mondo in conflitto. Quella dominante è fondato su un'idea fondamentalmente darwinista, che fa della «competizione» della «lotta» e della «concorrenza» fra individui o comunità gerarchiche (come le corporation) l'essenza del reale. Quella recessiva, sconfitta ormai da molto tempo sul piano della prassi in occidente (e sotto attacco in quei luoghi dove ancora in parte resiste) è invece fondata su un idea ecologica e comunitaria del mondo.

Il modello dominante lo vediamo proposto costantemente nelle retorica della crescita, dello sviluppo (dei modi di uscita dalla crisi) utilizzata dai media capitalistici nonostante la catastrofica situazione ecologica ed economica. Il modello recessivo caratterizzava l'esperienza politico-giuridica medievale in cui la parcellizzazione del potere feudale manteneva al centro della vita in società la comunità corporativa pre statuale. L'abbandono di questo modello comunitario in Occidente è il prodotto progressivo delle esigenze dei mercati di fondarsi su istituzioni politiche di dimensione statuale al fine di farne uso nella corsa al saccheggio coloniale e di rafforzare le concentrazioni di capitale. In periferia il modello recessivo ancor presente nell'organizzazione di villaggio subisce un assalto spietato fatto di aggiustamento strutturale (piani dela Banca Mondiale e del fondo monetario internazionale volti a favorire la mercificazione della terra) e culturale (retorica dei diritti umani, dell'emancipazione femminile all'occidentale e in generale della modernizzazione).

La rivoluzione olistica

Sul piano scientifico e filosofico il secondo modello si è preso vistose rivincite. Infatti si sta sempre più diffondendo una visione che vede il pianeta vivente come una «comunità di comunità ecologiche», legate fra loro in una grande tela, un network di relazioni simbiotiche e mutualistiche, in cui ciascun individuo (umano o meno che sia) non può che esistere nel quadro di rapporti e di relazioni diffuse secondo modelli di reciprocità complessa. Mentre il paradigma dominante (competitivo o gerarchico che sia) fondato su una antropologia individualizzata per ragioni ideologiche è inadatto a descrivere questi nessi, che sono prima di tutto qualitativi e non quantitativi, il paradigma recessivo ci offre una percezione della realtà ben più realistica.

Il rapporto paradigmatico del modello recessivo non è il dominio assoluto del soggetto sull'oggetto (proprietario-beni; Stato-territorio) ma la cura, la dipendenza ed il nutrimento (simbiosi mutualistica, parassitismo). Ciascun individuo dipende per la sopravvivenza dal suo rapporto con gli altri, con la comunità, con l' ambiente. Cura, nutrimento e dipendenza sono relazioni di tipo qualitativo e non quantitativo perché le necessità ecologiche sostenibili sono sul piano quantitativo costanti. Infatti tutti gli individui hanno grosso modo lo stesso bisogno quantitativo di cibo (misurato in Kilocalorie) ed acqua (misurate in litri) per la sopravvivenza. Le differenze rilevanti sono evidentemente qualitative (tipo di dieta, purezza dell'acqua).

Ed in verità, atteggiamenti maggiormente olistici, fondati sulla mappatura di relazioni qualitative piuttosto che su misurazioni quantitative, nonché sulla critica al riduzionismo positivistico di matrice galileiana, newtoniana e cartesiana si sono imposti pure in fisica teorica. Essi, fin dalle origini della meccanica quantistica e del realitivismo hanno provocato un'autentica rivoluzione epistemologica, che ha tuttavia radici antiche. Tale rivoluzione «olistica» che sul piano filosofico sembra articolarsi nella nozione di fundierung e di «rilevanza» tipica della fenomenologia, non ha tuttavia contaminato le scienze sociali. Qui la tradizione empirista anglo-americana (con radici nello scientismo baconiano) domina ancora il panorama accademico soprattutto in economia, politologia e sociologia e anche nella tradizione filosofica analitica anglo-americana. E una simile impostazione scientistica domina oggi nel diritto.

L'ecologia si fonda fin dalle sue origini sulla tradizione recessiva in cui al centro si colloca la comunità ed in cui l'individuo solitario e competitivo viene denunciato come una mera finzione. Se infatti, l'individuo solitario in natura soccombe, la sua costruzione teorica e la sua spettacolarizzazione immaginaria sono certamente funzionali alle esigenze produttive del capitalismo che intende venedergli i suoi prodotti. Proprio allo scopo di inventare bisogni privati sempre nuovi si è sviluppata la disciplina del marketing la quale, creando false immagini e miti materialistici per lo più egocentrici e narcisistici produce comportanenti di consumo dagli effetti ecologici devastanti. L'individuo reso in tal modo solo, narcisistico e desideroso di consumare trova nelle merci e nel rapporto contrattuale il proprio principle (a volte unico) orizzonte relazionale reso «oggettivo» dal sistema dei prezzi da pagarsi per la soddisfazione dei vari sempre più complessi «bisogni».

Le false antinomie

La «finzione» individualistica tipica della tradizione liberale (il mito di Robinson Crosue) infatti scollega il bisogno dalle necessità reali di sopravvivenza (necessità che possono soddisfarsi in modo qualitativamente diverso ma quantitativamente costante) e lo «inventa» in funzione delle esigenze della sua soddisfazione (supply side economics). In tal modo un paradigma quantitativo sottomette quello qualitativo perché più si riescono a far crescere i bisogni indotti, più denaro si potrà incassare dalla loro soddisfazione.

Purtroppo la dimensione ecologica ed il pensare «sistemico» - paradigmi capaci di svelare queste dinamiche di accumulazione individualistica che sono devastanti per la vita in comunità - sono i grandi assenti del pensiero politico contemporaneo, il quale trova nelle «scienze sociali» (in particolare la microeconomia, le scienze aziendalistiche e per fino il marketing) e nel diritto la sua sola interlocuzione «culturale».

Proprietà privata e Stato nelle varie loro declinazioni, sono le due grandi istituzioni giuridico-politiche che declinano la visione dominante. Il discorso dominante, fondato sulla contrapposizione dualistica e riduzionistica fra stato e mercato, le presenta come radicalmente conflittuali. Si assume in modo criptico che il loro sia un rapporto a somma zero: più Stato uguale meno mercato; meno mercato uguale a più Stato. In questo schema riduttivo Stato e proprietà privata divengono la quintessenza rispettivamente del pubblico e del privato ed i poli della contrapposizione fra i due. Naturalmente questa immagine è del tutto falsa tanto sul piano storico quanto su quello del presente perché le due entità, in quanto istituzioni sociali e dunque vive, non possono che essere strutturalmente legate in un rapporto di simbiosi mutualistica. I confini fra le due sono presentati ad arte come netti per una precisa scelta ideologica.

Tuttavia la sua falsità storica è del tutto irrilevante nel riflettere sulla egemonia di un certo discorso politico, sicché la pervasività di Stato e mercato come rappresentanti rispettivamente del pubblico e del privato non lascia posto ad alcun terzo genere. Questa rigità e questo riduzionismo di analisi e prassi, sono in realtà il prodotto di una struttura comune a proprietà (mercato) e sovranità (stato) che consiste nell'elemento della concentrazione del potere. Le strutture privatistiche (proprietà privata, società per azioni ecc.) concentrano il potere di decisione ed eclusione in capo ad un soggetto (il titolare) o nell'ambito di una gerarchia (l' amministratore delegato). Similmente le strutture pubblicistiche (burocrazia) concentrano il potere ai vertici di una gerarchia sovrana simboleggiata dall'esclusione di ogni altro soggetto decisionale nell'ambito di una data sfera di giurisdizione (modello della sovranità territoriale e sue articolazioni politico-amministrative).

L'ecosistema della collaborazione

Il governo del comune sposa il paradigma recessivo e rifiuta radicalmente questa logica riduttivistica articolandosi intorno a diffusione del potere ed inclusione. Esso costituisce un altro genere radicalmente antagonista rispetto alla declinazione esaustiva del rapporto pubblicoprivato o statomercato. Il comune infatti rifiuta la concentrazione del potere a favore della sua diffusione. Il comune ha come modello un «ecosistema», ossia una comunità di individui o di gruppi sociali legati fra loro da una stuttura a rete; esso rifiuta più in generale l'idea gerarchica (e anche quella competitiva prodotto della stessa logica) a favore di un modello collaborativo e partecipativo che non conferisce mai potere ad una parte rispetto ad altri elementi del medesiono tutto, ponendo al centro l'interesse di quest'ultimo.

È quindi essenziale avere chiaro che proporre di considerare un'entità (acqua, università) come «bene comune» al fine del suo governo ha certamente lo spirito di una radicale «inversione di rotta» rispetto al trend apparentemente inarrestabile della privatizzazione, ma non significa che la prospettiva sia limitata ad un ritorno di gestione da parte di un settore pubblico burocratico, autoritario o colluso. La strada da intraprendere è piuttosto quella dell'istituzionalizzazione di un governo partecipato, in spirito cooperativo, capace di coinvolgere in modo diretto e con strumenti nuovi le comunità di utenti e di lavoratori secondo quanto previsto in Italia dall' articolo 43 della Costituzione.

Fare chiarezza su questo punto è essenziale sul piano politico perché ancora oggi, nonostante la drammatica crisi palestatasi nell' autunno 2008, quando si propone una «inversione di rotta» rispetto alla furia privatizzatrice della «fine della storia» non è raro ricevere accuse di statalismo. Va chiarito che una maggior estensione dell'ambito del comune (sottratto tanto allo Stato quanto al mercato) favorisce una diversa logica rispetto ad entrambi, quella dell'autentica democrazia partecipativa. Un'idea di «meno stato, meno mercato, più comune» costituisce io credo la sola via per far ripartire una narrativa «di sinistra» capace di recuperare consenso.

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