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Eddytoriale 140 (11 marzo 2010)
13 Maggio 2010
Eddytoriali 2010-2012

Eddyburg ha raccolto la documentazione della vicenda in una ricca cartella di notizie e commenti (“ La barbara edilizia di Berlusconi”) e nell’archivio di legislazione (“ Le leggi del piano-casa del Presidente”) . Vogliamo aggiungere un’ulteriore riflessione, trascurando il fatto che non sembra aver avuto alcuna incidenza positiva sulla crisi economica. Prova ulteriore, se ce ne fosse bisogno, dell’assoluta inefficienza del governo ispirato ai criteri della managerialità aziendale.

Ciò che a noi più colpisce nella vicenda del berlusconiano “piano-casa” non è la proposta in sè, ma ciò che ha rivelato. Colpisce la smemoratezza, l’ignoranza, la superficialità testimoniata da quasi tutti: giornalisti e politici, popolo e intellettuali, gente di destra e gente di “sinistra”. Soprattutto colpisce la diffusa subalternità culturale all’ideologia sottesa a quella proposta, la generale indifferenza al modo in cui realmente si pone oggi in Italia (e non solo) il problema della casa, la supina accettazione del fatto che “politica” significa ormai solo non correre il rischio di perdere pezzi di consenso anche al prezzo di negare la verità dei fatti.

Abbiamo lanciato un’accusa grave; dovremo argomentarla. Riflettiamo sui fatti. Il premier propone una legge che affronta il problema della casa consentendo a chi ce l’ha già di ampliarla in deroga agli strumenti di pianificazione: in contrasto con le regole mediante le quali si vorrebbero rendere le città meno caotiche e meno brutte, il territorio meno devastato e più ordinato, le aree fragili per le loro condizioni naturali più meno rischiose per gli uomini, le aree belle per il paesaggio e la storia che rappresentano più protette. In deroga a tutto questo – e quindi modificando sostanzialmente le leggi che disciplinano l’utrbanistica e che sono di competenza delle regioni – vuole rilanciare il “fai da te” nel settore delle costruzioni. Dimenticando che già si era seguita questa strada, in Italia, nell’immediato dopoguerra, alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso. Con ben altre motivazioni: allora le case erano state distrutte, e la ppopolazione cresceva, gli abitanti si spostavano dalle zone interne alle coste, dalle campagne alle città. Eppure si sono visti gli effetti di quel modo di costruire, interamente affidato alla spontaneità. Il Paese era stato devastato, il suo territorio distrutto, i suoi paesaggi guastati, le città rese invivibili e rischiose (per la congestione del traffico, per l’assenza di spazi verdi e degli spazi pubblici, per le minacce delle alluvioni e delle frane). Dimenticando tutto ciò che era successo e contro cui si era voluto correre ai ripari modernizzando l’Italia e generalizzando la pianificazione urbanistica, oggi di nuovo si vuole rilanciare quello spontaneismo degli interessi edilizi cui ci si era affidati allora.

Poiché non si può dire “vogliamo che chi sta già bene stia meglio a discapito degli altri”, poiché non si può dire “a noi il cittadino non interessa, nostro amico è solo il proprietario edilizio”, allora ci si copre con un alibi. Dicono il premier e i suoi supporters: vogliasmo affrontare il problema della casa. É un problema che certamente esiste. Ma è il problema di chi la casa non ce l’ha, di chi non trova un alloggio decente, in un luogo adeguato, a un prezzo commisurato alla sua capacità di spesa. É il problema del giovane lavoratore pendolare o precario, dello studente fuori sede, dell’immigrato, della famiglia disagiata, dell’anziano solo. Invece no, nulla per questi: invece di costruire abitazioni a prezzi bassi per chi ha bisogno di alloggio e non lo trova, aiutiamo chi la casa ce l’ha già (e magari ha il capannone industriale vuoto, o l’albergo che potrebbe rendere di più se avere più stanze).

E qualche imbecille paragona il piano-casa di Berlusconi al piano INA Casa del Fanfani degli anni Cinquanta, o addirittura con quelli degli anni successivi: dei gloriosi anni Sessanta e Settanta, quando si raggiunsero traguardi altissimi rapidamente dimenticati. Quando si raggiunse, con la legge dei Piani per l’edilizia economica e popolare, con la programmazione decennale dell’edilizia abitativa pubblica, con il recupero dell’edilizia esistente, con l’equo canone, il risultato di poter costruire casa a basso costo (depurate dall’incremento della rendita fondiaria) in quartieri civili. Certo, le controriforme messe in atto negli anni delle stragi di stato e della strategia della tensione hanno tentato di cancellare quelle conquiste. Ma oggi, invece di riprendere il cammino da lì, invece di affrontare il problema della casa nei suoi contenuti reali, si fanno dieci passi indietro: si ritorna a premiare il proprietario contro il cittadino, il ricco contro il povero, chi possiede contro chi non ha nulla.

Tutti dietro a Berlusconi. La prima regione che ha applicato la sua strategia è stata una regione “rossa”, la Toscana. Quella che ha fatto la legge peggiore è stata un’altra regione amministrata da ex comunisti, la Campania. E le critiche che si sono sentite da parte delle opposizioni parlamentari (e da quelle stesse extraparlamentari) sono state flebili e impacciate, del tutto inferiori al necessario. Hanno tentato di de-peggiorare uno scempio culturale prima che urbanistico, invece di denunciarlo e contrastarlo.

E la cultura, l’accademia, gli intellettuali? Si contano sulle dita di un paio di mani quelli che hanno denunciato con forza, che hanno protestato, che hanno organizzato assemblee e levato forte la voce di “quelli che sanno”. Che hanno ricordato le conquiste degli anni del “welfare urbano” e rivendicato le pratiche di pianificazione e programmazione abbandonate. Ciascuno è restato chiuso nel suo guscio, nella sua torre d’avorio sempre più lontana dai problemi reali. É come se gli intellettuali avessero perso del tutto le coordinate di una corretta gestione del territorio, delle sue trasformazioni, dei poteri che su di essi incidono, di ciò che bisogna fare perché serve ai bisogni reali dei cittadini (e non alle attese dei proprietari immobiliari). É come se, per tutti, l’uomo che interessa non è il cittadino o l’abitante, ma il proprietario e il cliente.

Morale della favola: se la strategia di Berlusconi verrà effettivamente praticata dal “mercato”, se le leggi delle regioni verranno applicate nella realtà, avremo città più caotiche e disordinate, più terreno sottratto alla natura e all’agricoltura, meno spazi per tutti. E nessuna abitazione in più per le centinaia di migliaia di persone che ne hanno davvero bisogno (se non quelle che erano già state finanziate dal governo Prodi, e che il governo Berlusconi ha semplicemente riciclato… riducendone la quantità!). Inoltre, una forte disfatta culturale: l’ulteriore conferma del dominio di quell’ideologia per la quale non ci sono, non ci sono mai state e non ci saranno mai alternative all’individualismo più sfrenato, al neoliberismo più distante dal liberalismo vero, al ripiegamento nel passato più lontano dalla modernità. Quell’ideologia per la quale il privato vale più del pubblico, il mercato più dello stato, il proprietario più dell’abitante, il cliente più del cittadino, il prepotente più del mite, l’arrogante più del solidale.

Che fare, in questa situazione? In primo luogo una battaglia culturale: raccontare, spiegare, denunciare, richiamare i principi e dimostrare chi guadagna e chi perde quando i principi del buongoverno vengono traditi, informare correttamente e svelare le mille menzogne ammucchiate ogni giorno nella coscienza (e nel subconscio) degli spettatori passivi delle potenze mediatiche. Difendere quindi le poche voci libere, che informano e formano raccontando ciò che i potenti tentano in tutti i modi di dissimulare.

Ma al di là di questo, ci sono compiti specifici da affrontare, obiettivi misurabili da proporsi: compiti e obiettivi per i quali migliaia di comitati, associazioni, gruppi di cittadinanza attiva si battono da tempo. Resistere al consumo di territorio provocato dalla corsa forsennata alla “valorizzazione immobiliare”. Resistere al continuo processo di privatizzazione d’ogni bene e ogni spazio pubblico: dall’acqua alla scuola, dalla scuola alla sanità, dalle piazze e ai luoghi d’incontro aperti a tutti. E poi (non “dopo”) poiché i problemi da risolvere ci sono, misurare quanti spazi sono necessari per le abitazioni a buon mercato, per nuove attività della produzione di beni e di merci, per i servizi alle persone e alle imprese. Ma soddisfarli recuperando per le utilizzazioni socialmente rilevanti – e non per la “valorizzazione” dei patrimoni privati – le numerosissime aree ed edifici inutilizzati o scarsamente utilizzati, disponibili in ogni realtà del nostro paese.

Parte di questo articolo sarà pubblicato nel libro Piano casa e territori resistenti, a cura di Antonello Sotgia, in corso di stampa nelle edizioni di Carta

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