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Maurizio Chierici
Dubai, il paese lavanderia
1 Dicembre 2009
Articoli del 2009
La follia ambientale ed urbanistica di un luogo finto, creato dal nulla per esigenze molto reali...Su Il Fatto Quotidiano, 1° dicembre 2009 (m.p.g.)

Nel raccontare la paura dei grattacieli che tremano in Dubai, i guru dell’economia dimenticano qualcosa: Dubai non è un paese, ma un mercato provvisorio. Dietro le vetrine, niente. Anche la vocazione commerciale è una leggenda del teatro dell’imbroglio. Quando il petrolio finisce, la globalizzazione trasforma i suk dei mercanti indiani (oro e perle) in padiglioni mastodontici dove tutto costa la metà. Trent’anni fa anni diventa paese di servizio per accogliere capitali da risciacquare. Nell’ultimo viaggio mi sono chiesto che senso ha concentrare tecnologie sofisticate, informatica e laboratori in un deserto bollente.

Si può insabbiare il deserto in una Disneyland per adulti schiacciati dai 40 gradi? Manca l’acqua, ron ron dei desalinizzatori: un litro d’acqua costa più di un litro di whisky. Accanto ad ogni aiuola un’ombra del Bangladesh, pompa in mano, giorno e notte. Chilometri di aiuole nell’illusione della primavera di plastica. Il campo da golf più lungo del mondo – Tiger Woods Gold Course – asciuga 16 milioni di litri al giorno. Ma il mare è inquinato e i filtri non ce la fanno: erba che ingiallisce, acqua potabile sempre peggio. La follia di questo verde costosissimo non è solo il consumo astronomico dell’energia per l’irrigazione, la follia sono i battaglioni di emigranti attorno a battaglioni di piante rachitiche. Dietro ogni cespuglio, un extra arabo.

E per mantenere la tradizione che non c’è più, Dubai ed Emirati passano un sussidio a chi in giardino alleva dromedari. Importazione di vasche da bagno: mangiatoie. L’erba arriva dal Pakistan. E nuove spese per mantenere in forma delle navi del deserto grasse come maiali: somali che li fanno correre. I padroni di casa sono meno di 300 mila. Un milione e 200 mila vengono da fuori. Yemenita il tassista che mi carica in albergo. Libanese chi controlla il biglietto. Fra i banchi di scuola e negli ospedali, laureati palestinesi. Voglio sapere dalla ragazza filippina, bar aeroporto: le piace stare qui? Gira gli occhi attorno, orientale guardinga: “A lei piace?”, risponde. Non mi piace. Sospira sollevata. “Un posto terribile. Alberi falsi, contratti di lavoro falsi, isole false. Non è un paese, un’illusione”. Chi fa i raggi alla valigia è egiziano. L’hostess olandese mi accompagna alla poltrona dell’airbus Emirate Airlines. Il pilota inglese annuncia il decollo appena i sudanesi delle pulizie fermano le scope. In fondo alla pista muratori sudcoreani sistemano la torre di controllo. Nella kufia beduina c’è scritto made in Taiwan.

Ma è un islam addolcito. Se in Arabia Saudita mogli e mariti possono frequentare la piscina dell’albergo solo in giorni diversi, a Dubai è permessa la trasgressione del bagno assieme. L’aereo cammina verso la partenza. Angeli custodi, militari pachistani. Sull’Awacs-spia bandiera Usa. Paese lavanderia, specie di Las Vegas dove Berlusconi si è adagiato in visita ufficiale con un occhio agli affari di famiglia. Emiro che può diventare azionista del Milan; Cavaliere che forse prende casa in un’oasi artificiale, cascate e laghetti desalinizzati. Ecco il Dubai, spazio simbolo della finanza che nasconde i milioni nella sabbia come la spazzatura proibita nei deserti africani. Follia che deve continuare altrimenti le banche si ammalano. Il miliardo degli affamati dimenticati dalla globalizzazione non può pretendere di deprimere un paradiso così.

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