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Toscana in vendita
13 Novembre 2009
Articoli del 2009
La svendita del nostro patrimonio naturale continua,senza regole. Negli articoli su Il Tirreno, 13 novembre 2009 (m.p.g.)

Bellezze naturali all’asta. Lo Stato vuol fare cassa ma la Toscana si ribella

Giuliano Fontani

Lo Stato ha bisogno di soldi e per questo sta vendendo, all’asta, alcuni “pezzi” pregiati della Toscana. Con l’obiettivo di fare cassa, dopo lo scudo fiscale per il rientro dei capitali dall’estero, ecco la vendita dei beni ambientali, i gioielli di famiglia.

Non desta meraviglia che in Toscana a rischiare di più sia l’isola d’Elba, dove il demanio possiede spiagge e campagne su cui da sempre sono puntati gli occhi degli speculatori edilizi. Ma sono in vendita anche beni “minori”, appartamenti, appezzamenti di terra, magazzini, perfino cabine telefoniche. Una strategia politica tesa a monetizzare, che non risparmia neppure gli “affitti”, vale a dire le concessioni demaniali.

«Quel che meraviglia e che ci sentiamo di contrastare - dice l’assessore regionale Paolo Cocchi - è la mancanza di concertazione con gli enti territoriali. Anche la Regione qualche volta è nella necessità di vendere, ma l’ha sempre fatto tenendo conto delle osservazioni delle amministrazioni interessate, delle loro prospettive di sviluppo, dei loro progetti. Qui invece, come nel caso di Pianosa, si calano dall’alto decisioni, senza alcun confronto. E’ il metodo, anzitutto, ad essere sbagliato».

La vendita di Capo Bianco. Il caso più emblematico, ma anche il più importante, riguarda la spiaggia di Capo Bianco, all’asta con una base di centodiecimila euro. Un pezzo di paradiso che il Comune di Portoferraio è deciso a difendere con gli strumenti a sua disposizione. Non avendo il denaro per partecipare e vincere l’asta, l’amministrazione locale deve fare di tutto per rendere difficile, se non impossibile, la vendita ai privati.

E’ quel che pensa di fare il sindaco di Portoferrario, Roberto Peria, che ha dato mandato agli uffici comunali di trasformare l’area in invariante strutturale. Ciò significa che adesso e neppure in futuro a Capo Bianco non si potrà murare neppure un mattone.

«Intendiamo intervenire con decisione - sottolinea il sindaco Peria - per evitare speculazioni su un bene che rappresenta un pezzo della nostra identità. Se proprio qualcuno vorrà comprare l’ex batteria di Capo Bianco, si dovrà rassegnare a coltivare fagioli...».

Le spiagge all’asta. La partita è aperta. In questo contesto si inserisce un altro capitolo che tiene in allarme centinaia di operatori turistici toscani, tenuti appesi al “gancio” del rinnovo delle concessioni demaniali. Il ministro Giulio Tremonti sembra molto attento nel seguire l’applicazione della direttiva europea che rimette tutto in gioco, alla scadenza dei contratti, per quanto riguarda la titolarità dei bagni e la loro gestione. La logica che sta dietro la normativa europea è chiara: concessioni all’asta al termine dei sei anni di contratto.

Le amministrazioni locali, da Massa alla Versilia, hanno già detto che per il momento non intendono applicare la normativa europea e tutto andrà avanti come prima. Ma fino a quando?

«Un primo effetto - spiega Francesco Belli, presidente dei balneari di Marina di Pietrasanta - si è già avuto: i concessionari stanno bloccando gli investimenti. Chi può dare il torto a loro, se non hanno sicurezza sul tempo degli ammortamenti?».

Non manca, ovviamente, la dietrologia di sempre. Chi si vuol favorire? E’ la domanda che i balneari rivolgono maliziosamente al governo: in tempi di crisi industriale, le sole risorse che non si possono delocalizzare sono quelle strettamente legate al territorio. Dunque si aspetta che sia qualche multinazionale del turismo a partecipare ai bandi di gara e a vincere le aste?

Dall’altra parte ci sono gli argomenti di chi sostiene le regole del libero mercato, della logica del massimo profitto, con lo Stato imprenditore di se stesso che non guarda in faccia a nessuno pur di tutelare i propri interessi.

La Regione cerca di contemperare le due esigenze. Dice l’assessore Cocchi: «Stiamo predisponendo un provvedimento di legge-ponte, che prevede una breve deroga alle scadenze contrattuali, in attesa di esaminare i piani di investimento degli operatori turistici».

«Per anni - questa la conclusione - i governi si sono dimenticati di fissare regole precise, adesso si vuole passare a una disciplina ferrea in tempi radicalmente brevi, senza calcolare cosa accadrebbe nel settore in caso di un’applicazione rigida delle norme».

Se lo Stato mette all’asta il nostro tesoro

Mario Tozzi

Ma è possibile mettere in vendita un’isola o una montagna? Nell’Italia del terzo millennio sì, e non solo isole, ma anche parchi naturali, frammenti di territori di pregio, paesaggi incontaminati, insomma tutto quello per cui il nostro è stato per secoli il giardino d’Europa. Tutto nasce quando i nostri padri stilarono l’articolo 9 della Costituzione. Anzi, quando lo scrissero una seconda volta, eliminando una parola fondamentale.

Una parola fondamentale, presente nella prima stesura: «I monumenti storici, artistici e naturali del paese costituiscono patrimonio nazionale e sono sotto la protezione dello Stato», invece di «La Repubblica (...) tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».

La natura appunto, cancellata, aggiungendo al danno delle guerre quello dell’oblìo giuridico-istituzionale. E infine il colpo di grazia, una legge dello Stato che rinuncia a proteggere i suoi valori culturali, naturali o artistici: la famigerata Patrimonio S.p.A. e la sua collegata Infrastrutture S.p.A. con cui si mette a garanzia del denaro necessario alle opere pubbliche il patrimonio inalienabile dello Stato. Gli strascichi di quei provvedimenti stanno producendo danni ancora oggi. In pochi pensano oggi che il paesaggio non sia un bene culturale e che un parco vada tutelato né più né meno della Cappella Sistina o di Venezia. Il collegamento fra cultura e natura è molto stretto: il nostro bene più prezioso non è tanto la somma di monumenti e bellezze naturali, ma il contesto, quello che rende unico nel mondo un paese che pone a fulcro della propria identità nazionale e della memoria collettiva il patrimonio culturale e naturalistico.

In una sciagurata storia cominciata con Veltroni e Melandri e finita con Urbani - ma che inizia da quando si parlò di arte come “petrolio d’Italia” (!) - il valore venale del patrimonio culturale (e naturalistico) diventa qualcosa da investire per fare altro (le opere pubbliche), una risorsa da spremere, dando la tragicomica impressione di essere arrivati al fondo del barile mentre si hanno aspirazioni da quinta potenza industriale del mondo. Nessuno dice che si porrà in vendita l’isola di Budelli ma è grave che intanto sia diventato teoricamente possibile.

Se si gestiscono i beni ambientali e culturali in ottiche di mercato il cittadino viene alienato di un patrimonio che è prima di tutto collettivo e viene trasformato in un mero consumatore; distinguendo la gestione dei beni dalla tutela si potrebbe poi avere l’impressione che privato sia comunque meglio che pubblico, magari riferendosi erroneamente all’esperienza americana i cui musei sono in realtà tutti in perdita: qualcuno sembra pensare che il Getty campi solo su biglietti e gadget, mentre è sostenuto soprattuto da donazioni a fondo perduto.

Che ci sia qualcosa di altro sotto è chiaro: se si voleva far fruttare i soli beni di minor pregio non c’era bisogno di questa legge, lo si poteva tranquillamente fare prima e, anzi, lo si doveva. Il dubbio è che al pratone vicino alla ferrovia nessuno sia interessato e che le mani vogliano esser allungate sui beni di valore e sulle aree naturali ancora intatte, del resto se si ha bisogno di molti denari si devono mettere a garanzia i pezzi pregiati. E - se è vero che è meglio non fare una lista dei beni certamente inalienabili per non lasciarne fuori nessuno - perché non si rendono noti quelli eventualmente alienabili, per tacitare appetiti male indirizzati?

L’autore è Presidente del Parco dell’Arcipelago toscano

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