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Giovanni Valentini
Terremoto a RaiTre silurato Ruffini
7 Novembre 2009
Articoli del 2009
Se non si muovono i partiti mostrando un po’ di grinta, e non flebili lamenti, contro la soppressione del dissenso, come potrà esprimersi la democrazia? La Repubblica, 7 novembre 2009

Se non si corresse il rischio di fare un regalo a Mediaset, favorendo la concentrazione televisiva e pubblicitaria privata costituita dall’azienda del premier, forse bisognerebbe dire che è arrivata l’ora di non pagare più il canone d’abbonamento alla Rai. L’ora, cioè, dell’obiezione fiscale. O comunque, della disdetta collettiva, in forza di una protesta popolare e civile. Con la demolizione della terza rete, ultimo bastione di quella riserva indiana in cui è stata confinata l’informazione televisiva non ancora asservita al governo in carica, si completa la manovra di accerchiamento del servizio pubblico, con l’occupazione "manu militari" dell’azienda di viale Mazzini e la sua definitiva normalizzazione. Questo non è che l’epilogo di un lungo assedio in cui si intrecciano interessi privati e pretese di egemonia politica. L’assalto finale al Palazzo di vetro della televisione pubblica, tutt’altro che trasparente e luminoso.

Il declassamento annunciato di Rai Tre da rete nazionale a rete regionale, attraverso la rimozione del direttore Paolo Ruffini, non corrisponde però soltanto a un "escamotage" per smantellare trasmissioni considerate scomode o irriverenti: da Ballarò di Giovanni Floris a Che tempo che fa di Fabio Fazio, per arrivare fino al talk-show satirico Parla con me di Serena Dandini. Già questo, per la verità, sarebbe di per sé grave e preoccupante. E non tanto sul piano politico, del pluralismo interno o dell’indipendenza professionale; quanto proprio sotto l’aspetto del palinsesto, della produzione, della varietà e articolazione di scelte offerte al pubblico dei telespettatori.

Ma il progetto per così dire federalista che punta a trasformare la terza rete in una Repubblica televisiva separata, in una diaspora permanente di tg e programmi locali, insomma in un’appendice di viale Mazzini, minaccia in realtà di ridurre tutta la Rai da tv di Stato a tv di regime, mortificando l’identità e il ruolo istituzionale del servizio pubblico in funzione di una subalternità assoluta al governo e alla sua maggioranza. Se è vero che quest’ultima beneficia in Parlamento di una sia pur legittima maggiorazione, prodotta dal sistema elettorale vigente, è altresì vero che non gode di una maggioranza effettiva di voti e di consensi nel Paese. E ciò, evidentemente, rende ancora più abusiva la colonizzazione politica di viale Mazzini da parte del centrodestra, guidato da un premier-tycoon che è anche il principale concorrente privato dell’azienda pubblica.

Si dirà, magari, che in fondo è sempre stato così, che la Rai gravita da sempre nell’orbita governativa. Ovvero, per usare un’espressione di Bruno Vespa, che storicamente l’azienda ha considerato il partito di maggioranza come il proprio azionista di riferimento. Eppure, a parte la questione irrisolta del conflitto d’interessi in capo a Berlusconi, è stata proprio la presenza della terza rete a rappresentare finora un presidio di autonomia, a garanzia della minoranza, se non un alibi o una foglia di fico.

Ricordiamo tutti che, ai tempi della vituperata Prima Repubblica, questo fu il risultato di una spartizione fra maggioranza e opposizione, con l’appalto di Rai Tre e del Tg3 al vecchio Pci: era l’epoca della celebre "Tele Kabul", affidata all’esperienza e alla professionalità del povero Sandro Curzi. E sappiamo bene che, all’interno delle reti e delle testate giornalistiche, imperava (e continua a imperare) la legge della lottizzazione fra i partiti, le loro correnti e sottocorrenti. Ma la terza rete, al di là di certi estremismi e faziosità, ha rappresentato tuttavia un surrogato di alternativa, una zona franca, uno spazio di libertà, mentre oggi la sua amputazione rischia di compromettere la stessa ragion d’essere del servizio pubblico.

Con la forza profetica dei suoi arcani sondaggi, recentemente il capo del governo ha predetto che, in seguito al comportamento della Rai nei suoi confronti, l’evasione del canone è destinata a passare dal 30 addirittura al 50 per cento. Senza ricorrere all’ausilio di indagini demoscopiche, c’è da meravigliarsi semmai che ciò non sia ancora avvenuto. In rapporto al servilismo di gran parte dell’informazione – e in qualche caso anche dell’intrattenimento – propinato quotidianamente ai cittadini abbonati, la quota di evasione dovrebbe arrivare anzi al 65 per cento, corrispondente all’area elettorale che ha votato contro o comunque non ha votato a favore del centrodestra.

Sta di fatto che il servizio pubblico esiste in tutti i Paesi democratici e in alcuni di questi, a cominciare dalla Gran Bretagna della mitica Bbc, è finanziato soltanto dal canone d’abbonamento. Ora, se ne esiste uno al mondo in cui la sua funzione è assolutamente necessaria, questo è proprio il nostro, dominato dall’anomalia del conflitto d’interessi e ancor prima dalla concentrazione televisiva e pubblicitaria. L’obiettivo prioritario, piuttosto, resta quello di affrancare la Rai dalla sudditanza alla politica e dalla subalternità al governo.

Non c’è scritto in nessuna legge che in Italia la tv pubblica debba gestire tre reti: e infatti non accade altrove. Ma non c’è scritto neppure che un solo operatore privato ne debba detenere altrettante, in concessione dallo Stato. Né tantomeno che lo stesso soggetto controlli poi quelle pubbliche direttamente dalle stanze di Palazzo Chigi. Prima di abolire o disdire il canone, è necessario allora ridurre la concentrazione televisiva ed eliminare il conflitto d’interessi che condizionano l’intero sistema dell’informazione nel nostro Paese.

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