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Fabrizio Bottini
Sovracomunalità e filiere corte: una volta si diceva “autarchia”
21 Maggio 2009
Percorsi di pianificazione territoriale
Contributo al convegno Percorsi di Pianificazione Territoriale per il Futuro degli Enti Locali: Lodi 16 maggio 2009

La pianificazione di area vasta, provinciale o comunque per un territorio composto da più circoscrizioni comunali, ha una storia e una tradizione piuttosto lunghe anche in Italia. Storia e tradizione che risalgono a ben prima di quelle che, di solito, si ritengono esperienze pioniere nell’epoca della programmazione economica e del centrosinistra (quello originario degli anni ‘60, con l’ingresso del Partito Socialista nella cosiddetta “stanza dei bottoni”).

Forse è possibile fissare addirittura in modo esatto non solo la data, ma persino l’ora della nascita ufficiale del problema piano territoriale. È una bella mattina di primavera del 1924, e in un piazzale in mezzo alla campagna, all’estrema periferia occidentale di Milano oltre Musocco, si affollano automobili di lusso, signore eleganti, alti personaggi ufficiali. Aspettano qualcosa. A un certo punto, il brusio si calma, dal gruppo delle autorità emerge Vittorio Emanuele di Savoia in persona, e taglia un nastro. Congratulazioni, qualche applauso, e poi la macchina col Re, seguita dal corteo dei notabili, imbocca l’opera appena inaugurata: la Milano-Laghi, prima autostrada del mondo.

Un osservatore a distanza dell’evento, il riformista Alessandro Schiavi già molto attivo nella diffusione in Italia del movimento per le case economiche, popolari e le città giardino, coglie subito un aspetto che né il Re, né il suo seguito, né gli ingegneri che hanno concepito l’innovativa arteria avevano previsto. Quella nuova strada veloce, in un modo inimmaginabile prima con la ferrovia e i tram, potrebbe rapidamente trasformare molti comuni in qualcosa di simile a un quartiere di Milano, i cui abitanti (almeno quei fortunati che si possono permettere l’automobile) potranno abitare nel verde, magari vicino a un lago, e arrivare comunque in tempo al loro lavoro nel centro della città. Ma verranno coinvolti anche tutti gli altri, che l’automobile non la possiedono: il traffico locale, la necessità di nuove strade, l’aumento dei prezzi immobiliari, la trasformazione di superfici agricole ad altri usi. Insomma, in modo nuovo, una immensa area con l’autostrada inizia a smettere di essere solo campagna, magari con qualche villaggio, e a trasformarsi in un suburbio. Che fare?

Occorre ripensare il piano regolatore, capisce subito Schiavi, e capisce anche immediatamente che i percorsi possono essere due: il primo, quello di una autorità superiore (lo Stato, la Provincia, un’altra autorità costituita ad hoc?); il secondo, con un processo forse più immediato, è quello dell’associazione “dal basso” fra i comuni, così come avviene per l’erogazione di certi servizi, e come stanno ad esempio iniziando in questi stessi anni ’20 a sperimentare, a scopi urbanistici, alcuni enti locali della Gran Bretagna.

Pubblicità autostradale (1930)

Perché quello della nuova dimensione territoriale vasta, ovviamente, non è un problema che riguarda solo la macchina col Re sfrecciante sulla nuova autostrada verso i laghi. Nell’America del primo automobilismo di massa, le campagne cominciano ad essere invase non solo dalle orde dei primi pendolari, dei furgoncini che portano la verdura al mercato di città, ma anche da un’altra cosa per molti versi più pericolosa. Se ne accorge l’ecologista ed esperto di pianificazione regionale Benton MacKaye: è il ciglio della strada che sta cambiando, e si trasforma in road slum. La traduzione di questo termine potrebbe essere più o meno “baraccopoli stradale”, quella delle pompe di benzina, chioschi improvvisati o permanenti, piazzole per la sosta su cui si affacciano edifici anche tradizionali che cambiano destinazione, vecchie osterie per il cambio dei cavalli che diventano il nucleo di una specie di brutto villaggio, ad offrire servizi e possibilità di sosta ai nuovi viandanti su quattro ruote. MacKaye è quasi profetico nella sua preoccupazione, e nel chiedere, come Alessandro Schiavi in Italia, che qualcuno inizi a pianificare quel territorio: la baraccopoli stradale del primo ‘900 altro non è che l’antenata delle future strip, ovvero le fasce commerciali che sino ai nostri giorni rappresenteranno, non governate, uno dei più importanti elementi di degrado e spreco di suolo, oltre a creare e alimentare congestione lungo i corridoio stradali su cui si allineano, e a svuotare in parte le città della loro vita e occasioni di incontro.

Tornando in Italia, va detto che l’intuizione lucidissima di Schiavi non è del tutto isolata: il tema dell’estensione del piano regolatore a territori più ampi di un solo Comune è oggetto di discussioni scientifiche e di dibattito politico-amministrativo. Per esempio nel solo 1926 ci sono ben tre eventi di notevole importanza da questo punto di vista. Il primo a Torino, dove nel quadro di un grande evento periodico dedicato all’edilizia si tiene un convegno espressamente dedicato alle esperienze internazionali di pianificazione metropolitana e regionale, visto che non solo nella già citata Gran Bretagna, ma anche nella regione della Ruhr in Germania, o in quella attorno a New York, che abbraccia ben tre Stati diversi, si stanno sviluppando importanti esperimenti (uno pubblico, l’altro privato e volontario, di coordinamento territoriale a scala vasta). La città di Milano, nel bando per il suo concorso di piano regolatore, precisa come per la prima volta i partecipanti non dovranno limitarsi a studiare il centro monumentale e i quartieri di espansione, ma estendere lo studio a tutta la regione interessata dai movimenti pendolari per lavoro, e comunque che gravita sul capoluogo lombardo. Infine, i piani regolatori “sovra comunali” diventano addirittura in qualche modo legge in Italia nel 1926, quando con l’istituzione delle Agenzie di turismo e soggiorno si prevede che nel caso in cui la tutela di paesaggi o la promozione delle strutture e attività turistiche interessino bacini omogenei ma appartenenti a circoscrizioni diverse, lo strumento urbanistico possa scavalcare i confini.

È proprio quest’ultimo aspetto, apparentemente di secondo piano (almeno per le dimensioni territoriali e gli obiettivi specifici) ad essere il più importante per gli sviluppi futuri, che si legano soprattutto alla naturalità di campagne e paesaggi tradizionali, anziché alle concentrazioni metropolitane di popolazioni e infrastrutture. La politica antiurbana ufficialmente adottata dal regime fascista, favorisce nel nostro paese lo sviluppo di un dibattito sulla pianificazione territoriale vasta legato soprattutto ai processi di “bonifica integrale”, che vedono tra l’altro affiancarsi in modo per certi versi molto moderno e anticipatore le figure dell’architetto/urbanista, dell’agronomo, dell’economista, dell’ingegnere e del geografo. Ancora una volta non si tratta di fenomeno isolato al caso italiano, se - come ha osservato ad esempio la studiosa americana Diane Ghirardo - è possibile sovrapporre quasi perfettamente le esperienze dell’Agro Pontino e quelle di stampo riformista e (accusa terribile negli Usa) quasi socialista promosse nel corso del New Deal di Roosevelt per il sostegno economico all’agricoltura e alla produzione energetica nella valle del Tennessee. In Italia così come in America, la stampa, la comunicazione pubblica e anche gli studi successivi ricordano soprattutto le “città nuove”: Littoria (poi Latina), Pontinia, Sabaudia, oppure oltreoceano le Greenbelt Towns pensate da Rexford Tugwell al centro di grandi territori agricoli. Ma è appunto il grande territorio agricolo ad essere il vero protagonista della pianificazione: sia perché ad esso sono dedicate le grandi opere di bonifica, riorganizzazione fondiaria, infrastrutturazione e modernizzazione dei servizi (dalle reti dei canali, all’elettrificazione, ai sistemi sanitari, scolastici, di formazione e aggiornamento professionale); sia perché l’aver collocato la progettazione urbana non “sopra”, ma “dentro” la propria regione agricola, affronta consapevolmente o meno per la prima volta il tema moderno del consumo di suolo, della continuità della trama territoriale delle aziende, dell’opportunità o meno di attribuire potenzialità edificatorie a una zona piuttosto che ad un’altra proprio in funzione di tali equilibri.

Non è sicuramente un caso, se proprio nel quadro di questi grandi processi di pianificazione territoriale a scala vasta degli anni ’30 viene pronunciata per la prima volta la parola sprawl, con esatto riferimento ad una espansione edilizia casuale e disordinata, che anziché produrre insediamenti che avvicinano l’uomo alla natura (come sostenuto nello stesso periodo ad esempio da Frank Lloyd Wright col suo progetto di Broadacre City) finiscono per promuovere un ibrido, che frammenta la rete produttiva delle campagne e pochissimo offre in termini di qualità residenziale, pur ad elevatissimo costi economici e sociali. È del 1937, questa prima comparsa del termine sprawl in urbanistica, e a pronunciarlo è il direttore del settore pianificazione della Tennessee Valley Authority, Earle Draper, nel corso di una conferenza ufficiale ad Atlanta. Letteralmente, in riferimento ai primi processi di diffusione delle case consentiti dall’uso dell’auto privata, Draper osservava come “Perhaps diffusion is too kind of word. ... In bursting its bounds, the city actually sprawled and made the countryside ugly ..., uneconomic [in terms] of services and doubtful social value[1].

Anche in Italia, una sensibilità simile sembra articolare le due tendenze principali della pianificazione territoriale vasta, o almeno del dibattito teorico, visto che non esiste ancora alcuna legge che (salvo quella minore citata del 1926) preveda piani sovracomunali, e solo nelle tavole dei concorsi si intravedono schemi “regionali” o metropolitani. Ad esempio per l’area circostante Milano si delineano esattamente i due aspetti concorrenti: il suburbio a bassa densità a vocazione residenziale/industriale per il territorio di pianura asciutta settentrionale, la piana irrigua fertile meridionale sino al Po. In entrambi i casi lo slogan utilizzato è naturalmente quello della “bonifica integrale”, ma nei territori storicamente industrializzati della Brianza o del Sempione, secondo un interessante schema proposto dal presidente della Società per la Città Giardino, Cesare Penati, il territorio agricolo in quanto tale appare già troppo compromesso, e la vocazione produttiva storicamente orientata in senso manifatturiero. Uno sviluppo equilibrato per queste zone potrà al massimo mirare alla tutela delle fasce di interposizione a spazi aperti fra i nuclei abitati e industriali, da utilizzare ad esempio per orti o altri usi che possano integrare economicamente le principali attività meccaniche, tessili ecc. Ovvero seguire un modello simile a quello sostenuto internazionalmente dal movimento per la Città Giardino di Ebenezer Howard in Gran Bretagna, ma anche con una prospettiva egualitaria all’inizio del ‘900 dal geografo anarchico russo Petr Kropotkin.

Più vicina al modello pontino - e noto - della bonifica integrale all’italiana, la proposta di modernizzazione rurale per la bassa lodigiana presentata (più o meno contemporaneamente alla prima definizione di sprawl americana, vorrei osservare) dalla Provincia di Milano al primo congresso nazionale dell’INU di Roma. È il 1937, e anche sulla scorta delle esperienze sulle città nuove del’Agro Pontino l’Istituto Nazionale di Urbanistica dedica una intera sezione del proprio debutto ufficiale alla cosiddetta “urbanistica rurale”. Per conto dell’amministrazione provinciale milanese, Mario Belloni propone un importante elemento innovativo, ovvero il ruolo centrale dell’ente di governo nella gestione del piano territoriale: come altrimenti dare continuità e coerenza all’insieme complesso delle azioni necessarie, che si devono sviluppare non solo su una vasta regione, ma anche su un arco di tempo a volte molto esteso? Ad esempio,

“Non può essere passata sotto silenzio l’opera svolta dalla Provincia a pro della Bonifica della Bassa Lodigiana. È crediamo nota a molti, la difficile situazione idraulica in cui versava la zona rivierasca del Po a sud di Lodi, in cui tutto il sistema idraulico era imperniato sui due collettori centrali, il Mortizza ed il Gandrola. A causa della inefficiente funzione del secondo non atto allo scarico delle acque basse che ristagnavano quindi in depressioni paludose, e della difettosa sistemazione delle arginature di ambedue i corsi, ogni piena del Po provocava danni ingenti in tutto il Territorio della “Bassa”.

Questo stato di cose aveva reso necessario ed urgente l’attuazione di tutto quel complesso di provvidenze che passa sotto il nome di “Bonifica della Bassa Lodigiana”. Per poter giungere alla realizzazione del grandioso programma fissato nel progetto del Genio Civile di Milano e dell’importo previsto di L. 20.500.000 l’Amministrazione Provinciale si era assunto l’onere del finanziamento contro il rimborso del 75% dell’anticipo da parte dello Stato. Con la promulgazione della Legge sulla Finanza locale tale onere è passato interamente a carico dello Stato e quindi l’azione della Provincia a partire dall’entrata in vigore della Legge sarà limitata all’anticipo delle somme necessarie.

Ciò però non può diminuire il valore morale dell’intervento dell’Amministrazione senza del quale l’opera tanto auspicata non avrebbe trovato pronta attuazione.

Il risanamento agricolo di tutto il territorio della Bassa per un comprensorio di circa 14.000 Ettari, non poteva naturalmente andare disgiunto da un complesso di provvedimenti che miravano a sopprimere tutti i focolai malarici della zona ed a migliorare la situazione dei fabbricati rurali.

Per rendere possibile l’attuazione di questo programma si ottenne l’emanazione di una Legge che estese ai Consorzi di irrigazione alcune facoltà di bonificamento agrario come la costruzione di case coloniche, strade poderali, pozzi di abbeveramento, tutto ciò con l’evidente vantaggio di poter coordinare le iniziative dei singoli e coi benefici portati dalle Leggi sulle riscossioni coattive dei contributi consorziali” [2].

Un ruolo centrale, quello della Provincia nella pianificazione territoriale, destinato a riemergere poi nel corso dei decenni, sino ad affermarsi (molto, molto più tardi) nell’ordinamento attuale. Si affermerà invece quasi subito, con la legge urbanistica generale approvata nel 1942, il concetto di coordinamento dei piani comunali. Con obiettivi impliciti che avrebbero dovuto ricalcare almeno in parte quelli di contenimento della diffusione urbana così come li abbiamo riassunti sino a questo momento, ma che alcune scelte di sviluppo nazionale e locale dell’immediato dopoguerra metteranno a lungo in secondo piano. Sino a tempi molto recenti, quando da una lato una maggiore consapevolezza nell’uso di risorse limitate, dall’altro la crisi energetica e climatico-ambientale faranno riemergere questi, temi: forse solo intuiti, ma certamente discussi e sviluppati in modo interessante ed attuale già alle origini dell’urbanistica.

Note: di seguito, solo le due note relative alle citazioni testuali; per la maggior parte degli altri riferimenti, rinvio ai links esterni (f.b.)

[1]Forse diffusione è una parola troppo gentile … Sfondando i propri confini in realtà le zone urbane si sdraiano scompostamente sino a rendere le campagne brutte, scarsamente economiche nell’erogazione dei servizi, e di dubbia utilità sociale”. L'affermazione di Earle Draper è riportata in varie versioni da alcuni siti web. Qui l’ho ripresa dalla “Guida allo Sprawl” http://www.plannersweb.com

[2] Mario Belloni, Il contributo della amministrazione provinciale di Milano al miglioramento delle comunicazioni ed al risanamento dei comuni rurali, in Istituto Nazionale di Urbanistica, Atti del I° Congresso Nazionale di Urbanistica, Roma 1937-XV, Volume I, Parte II: Urbanistica Rurale.

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