loader
menu
© 2024 Eddyburg
Ida Dominijanni
Per finire ci vuole coraggio
19 Maggio 2009
Scritti 2009
Per cominciare daccapo bisogna pur chiudere il passato. Una riflessione sulla politica a partire dall’irruzione del privato. Il manifesto, 19 maggio 2009

Circola on line (lo si può leggere in www.donnealtri.it) un testo scritto da un gruppo di femministe (Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elettra Deiana, Laura Gallucci, Letizia Paolozzi, Isabella Peretti, Bianca Pomeranzi, Bia Sarasini, Rosetta Stella, Stefania Vulterini) che si intitola «Il coraggio di finire» e sarà discusso domenica prossima alla Casa delle donne di Roma. E' un testo che incrocia la questione della fine della sinistra e della politica che abbiamo conosciuto nel secolo scorso con quella della politica della fine, ovvero con il modo in cui di questi tempi viene dibattuto il problema della fine della vita. A chi legge sembrerà forse un incrocio improprio o azzardato, ma invece è del tutto proprio: la coincidenza fra un certo stato terminale della politica «classica» e una biopolitica che sempre più frequentemente finisce di occuparsi, più che della vita, della morte (guerra, testamento biologico, eutanasia etc.) non dev'essere casuale, o può comunque essere sintomatica.

Come un sintomo della crisi della politica le autrici leggono infatti il dibattito sul caso Englaro: sia la risposta della destra - tenere in vita Eluana a tutti i costi - sia quella della sinistra - l'invocazione di una nuova legge a tutti i costi - mascherano una resistenza a confrontarsi con i problemi di senso che le tecnologie biomediche di allungamento della vita e di sospensione della morte comportano. E che richiederebbero un salto di pensiero sull'esperienza della fine e sulle modalità del congedo e del lutto nelle nostre società.Ma a sinistra il sintomo vale doppio, perché evoca la difficoltà della sinistra a fare i conti con l'eventualità della «propria» fine, ovvero con la possibilità di nominare come «fine» quello stato che da troppi anni continua invece a essere nominato, senza più pregnanza, come interminabile «crisi». Il testo ha l'indubbio merito di mettere coraggiosamente a tema questa eventualità, chiamando tutti, donne e uomini, a discuterne sulla base della pratica femminista del «partire da sé». Raccontano le autrici che il loro stesso gruppo, sulla questione della crisi della sinistra «girava a vuoto» finché non l'ha intercettata con la riflessione sull'esperienza personale della fine: l'esperienza del lutto per la morte di persone care o per una separazione o per la fine di un progetto, l'ansia per la fine della giovinezza, per l'invecchiamento e per la morte. E come sempre nel pensiero femminista, il sapere del corpo e dell'esperienza fa luce sulla politica. Rivelando ad esempio le segrete simmetrie con cui «la crisi della politica mima le crisi del corpo fisico» e della psiche individuale: bulimia (di parole) e anoressia (disseccamento delle radici e del senso), cupio dissolvi (ripetizione degli errori) e accanimento terapeutico (nel tenere in vita sigle e organizzazioni esaurite); depressione e prometeismo. Nevrosi che segnalano che il problema, venti anni dopo il grande terremoto dell'89, è ancora e sempre lo stesso: l'incapacità della sinistra di elaborare il lutto delle proprie perdite, rimuovendolo e rinviandolo con una ritualità ripetitiva e ossessiva che non cessa di «fare e disfare partiti, coalizioni e sistemi elettorali, chiudere e aprire fasi e cicli, invocare leader, proclamare 'nuovi inizi' senza mai fermarsi a prendere atto di ciò che è davvero finito, morto senza nemmeno degna sepoltura». Ma ciò che muore senza sepoltura, si sa, si aggira spettralmente nel presente, lo ingombra, ne impedisce l'apertura su nuovi eventi e nuovi avventi. Senza una consapevolezza e un pensiero della fine, la sinistra si sottrae contemporaneamente la possibilità di lavorare sulla perdita, ossia di mettere a fuoco «di cosa patisce la mancanza, di cosa ha bisogno e di cosa invece può fare a meno», e la possibilità di fare spazio a nuovi desideri, passioni, urgenze, eventi e avventi.

«Non vediamo modo di ricominciare se non si ha il coraggio di finire», concludono le autrici e non si può che essere d'accordo. Con tre aggiunte, come contributo al dibattito che esse stesse domandano. La prima è questa, che anche l'invocazione dell'elaborazione del lutto nella sinistra post-'89 - tema grande e grandemente messo a tema nel ventennio: due nomi per tutti, Derrida e Wendy Brown - rischia di restare un'invocazione o, peggio, un dover essere autoreferenziale, se non comincia ad essere accompagnata dalla stesura del catalogo di «che cosa» è perduto o finito, «che cosa» permane di irrinunciabile, «che cosa» ingombra il campo in forma di «attaccamento appassionato» (Brown) a un'identità fittizia e in cambio di quali rendite di posizione. La seconda è che nella stesura di questo catalogo l'asimmetria femminista rispetto alla sinistra vale non solo a livello di metodo e di pratica, come nel testo è fatta valere, ma anche come dispiegamento già in atto di una politica non ammalata della stessa malinconia della sinistra, che invece nel testo sfuma. E infine: l'elaborazione del lutto è una pratica riflessiva, ma non è solo una pratica riflessiva. Ci sono resistenze che la impediscono, ma anche atti, salti, pulsioni che la aiutano. E forse, cito ancora Wendy Brown, quello che alla sinistra dovrebbe proprio capitare è «imparare di nuovo ad amare».

Leggere anche lo scritto di Alain Touraine

ARTICOLI CORRELATI
5 Gennaio 2010
18 Dicembre 2009

© 2024 Eddyburg