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Edoardo Salzano
20081209 La qualità della città pubblica
21 Aprile 2009
Interventi e relazioni
Relazione al seminario "Standard di qualità e perequazione. La qualità della città pubblica", Università degli studi Mediterranea di Reggio Calabria, 9 dicembre 2008

LA QUALITÀ DELLA CITTÀ PUBBLICA

Ringrazio molto Concetta Fallanca e Flavia Martinelli, che mi hanno invitato a questo incontro. E ringrazio Enrico Costa per le sue parole.

Sono particolarmente contento quando riesco a venire qui, nel Mezzogiorno. Anch’io sono di questa parti, sono napoletano anche se da molti anni vivo altrove. Delle molte patrie che ciascuno di noi ha, mi sento ancora molto legato alla mia patria meridionale. Ma rifuggirò di parlare in dialetto, di rivestire le mie considerazioni con un’ottica meridionale. Credo che uno degli sforzi che dobbiamo fare, in queste regioni “basse” della penisola, è quello di pensare fuori dai nostri luoghi, per poter connettere i nostri luoghi al resto del mondo. Guai a isolarci, a chiuderci nella nostra “specificità”, nel nostro idioma.

Il mio intervento, che temo non sarà breve, sarà costituito da una premessa, da due tempi d’una storia e da una conclusione.

LA PREMESSA.

Vorrei partire da una frase molto bella di Francesco Indovina. In un recente incontro pubblico (il testo è in eddyburg) ha detto: “La città è bella perché è buona”. Questa frase è la sintesi di un pensiero che voglio rapidamente sviluppare.

“La città è bella perché è buona”

La qualità di una città (sorvolo per un momento sul termine “pubblica”) sta nel fatto che essa è in primo luogo una città giusta, appropriata, buona, in rapporto a tre elementi: il luogo, il governo, la società (Indovina dice “i cittadini”).

La qualità del luogo è data dalla collaborazione della natura e della storia. Essa deve in primo luogo essere compresa, negli elementi che la caratterizzano e la rfendono meritevole d’essere conservata. Nostro compito deve essere quella di custodirla, mantenerla, se necessario restaurarla, se possibile migliorarla. E’ il prodotto dei nostri avi, dobbiamo lasciarla più ricca ai nostri posteri. “La bontà – per tornare alle parole di Indovina - è la buona cura dei luoghi, loro arricchimento, l’attenzione alla trasformazione

La qualità del governo, la bontà del governo, è racchiusa in alcune parole: il primato del’interesse generale, la capacità di ascolto, l’attenzione al conflitto non considerato come un fastidio, l’equità, la solidarietà, l’accoglienza, “la dilatazione dei servizi collettivi quali strumenti per rendere operativi i diritti di cittadinanza (senza i servizi sono parole vuote)”, la capacità di disegnare un futuro. Per il governo buono “il problema è la povertà non i poveri; è la clandestinità non i clandestini; è la prevenzione non la repressione; sono problema i motivi di disagio, non i giovani. La bontà di un governo si misura dal rifiuto di vivere alla giornata, e dalla capacità di coniugare intervento immediato e prospettiva futura”.

Se parliamo di qualità della società, dobbiamo innanzitutto ricordare che “i cittadini hanno il governo che si meritano ma anche i governi hanno i cittadini che si meritano”. Così, ad esempio, se chi governa non raccoglie i rifiuti in modi ragionevoli ed efficaci non può pretendere che non vengano essi vengano gettati per strada.

Città pubblica

Qualità della città pubblica. Ragioniamo su questo attributo: "pubblica". Per me questo attributo significa due cose.

Significa che la città è, nel suo insieme, un bene comune. Quindi è necessaria una regìa pubblica, un governo pubblico per la costruzione, la trasformazione, il controllo del suo insieme. E’, se volete, il principio dal quale nasce – come componente tecnica – la pianificazione: il sistema di regole nell’a,mbito delle quali ciascun operatore svolge la sua azione.

E significa che nella città hanno un peso determinante gli spazi pubblici. Nella mia interpretazione della città gli spazi pubblici hanno un peso rilevantissimo, per una molteplicità di ragioni:

1. perché la città nella storia si forma, si organizza, acquista la propria identità e sviluppa la propria forza negli spazi pubblici;

2. perché negli spazi pubblici si manifesta pienamente, si realizza quel trascendimento dall’individuale al sociale, dal privato al pubblico, dall’intimo all’aperto, dal singolare al collettivo nel quale si realizza la società;

3. perché gli spazi pubblici costituiscono il luogo nel quale può manifestarsi la politica, cioè l’intervento del cittadino – meglio, dell’abitante – nel governo della città.

IL PRIMO TEMPO DELLA MIA STORIA

Non vi spaventate. Non vi porto troppo lontano, troppo indietro nel tempo. Solo al decennio che vide nascere, in Italia, lo strumento di misura degli standard urbanistici e lo slogan del diritto alla città.

Le trasformazioni del dopoguerra

E’ una storia che inizia, in Italia, alla fine degli anni 50, per una serie di eventi di diverso ordine:

1. la trasformazione economica: l’attività produttiva prevalente, che fino ad allora era l’agricoltura, diventa l’industria;

2. la trasformazione territoriale: avviene in pochi lustri una gigantesca migrazione - qualcuno l’ha definita “biblica” - dal sud al nord, dalle campagne alle città, dalle zone interne ai fondovalle e alle coste;

3. la trasformazione sociale: l’elemento più emblematico e significativo è l’ingresso delle donne entrano nel mercato del lavoro, cioè nel lavoro extracasalingo;

4. la trasformazione culturale: la sprovincializzazione della cultura italiana, e in particolare l’affermazione di una cultura urbanistica e d’una cultura economica moderne: il tema della riforma urbanistica e della programmazione economica

Alcune date

Ricordiamo alcune date significative:

1959, il Codice dell’urbanistica dell’INU;

1962, la Nota aggiuntiva al bilancio di Ugo La Malfa, individua negli squilibri territoriali una delle cause significative delle difficoltà del paese e afferma la necessità della programmazione economica;

1962, vede la luce la legge 167/1962, che permette di espropriare consistenti quantità di aree per realizzare interventi organici di edilizia abitativa integrata con servizi differenti tipologie abitative e di gestione;

1963, una violenta campagna di stampa induce la DC ad abbandonare il tentativo di riforma urbanistica, basato sull’esproprio generalizzato delle aree d’espansione e di ristrutturazione presentato dal ministro democristiano Fiorentino Sullo;

1963, un organismo di massa, l’UDI (Unione donne italiane), apre una grande campagna per una legge d’iniziativa popolare (vengono raccolte oltre 50mila firme) e affronta il tema dei servizi collettivi nella città e nei piani regolatori. Al convegno di lancio politico dell’iniziativa tre delle quattro relazioni generali sono svolte da tre urbanisti: Giovanni Astengo, Alberto Todros, Edoardo Detti;

1966, crolli ad Agrigento, alluvioni a Firenze e Venezia, rivelano i danni dell’assenza della pianificazione; si apre un grande dibattito nel Parlamento e nel paese;

1967, il Parlameno approva la “legge-ponte” urbanistica, che generalizza la pianificazione comunale, disciplina le lottizzazioni urbanistiche e introduce gli standard urbanistici;

1968, viene emanato il decreto legge che stabilisce gli standard urbanistici: il diritto per ogni abitante, esistente o futuro, di disporre di eterminate quantità di spazi pubblici, da prevedere e vncolare nei piani urbanistici;

1968, le sentenze n. 55 e n. 56 della Corte costituzionale che invalidano alcuni articoli della legge 1150/1942 e indicano al legislatore la strada possibile, e costituzionalmente corretta, d’una riforma del regime degli immobili;

1969, nel marzo la Fiat rende noto che assumerà 15mila operai nel Mezzogiorno, altrettante famiglie (circa 60mila persone) si trasferiranno a Torino aggravando la congestione:prezzi delle case, servizi, traffico; inizia una vertenza sindacale che, incrociandosi con le lotte studentesche, porterà dopo pochi mesi:

1969, 19 novembre, al grande sciopero generale nazionale per la casa, i servizi, i trasporti la pianificazione, il Mezzogiorno

Due processi paralleli

Da questo momento in Italia si svolgono due processi paralleli.

Da un lato, una forte e continua iniziativa dei sindacati dei lavoratori e dei partiti di sinistra per ottenere dal Governo e dal Parlamento leggi efficaci. “Nella battaglia per la riforma urbanistica il detonatore è la casa", scrive il responsabile del PCI per l’urbanistica, Alarico Carrassi. L’iniziativa conduce alla legge per la casa nel 1971 e si sviluppa poi fino alla legge Bucalossi che prevede, tra l’altro, il finanziamento degli standard urbanistici (1977), e alle leggi per il recupero abitativo (1978) e per l’equo canone per le locazioni nel mercato privato (1979).

Ha scritto uno storico: “Negli anni 1969-1971 le forze che premevano per una riforma del settore abitativo e della pianificazione urbana erano diventate più forti che all’epoca di Sullo e dell’inizio del centro-sinistra. La principale differenza consisteva nella presenza attiva del movimento operaio” (P. Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino 1989, p.445)

Vengono lanciate e raccolte parole d’ordine forti, capaci di mobilitare: “la casa come servizio sociale”, “diritto alla città”.

Dall’altro lato, si manifesta una forte reazione delle componenti più regressive dello schieramento conservatore: la strategia della tensione si esprime con le bombe di Brescia (Banca dell’agricoltura) e di Roma (BNL), con il tentativo di colpo di stato di Valerio Borghese, con l’azione dei servizi segreti e con le ricorrenti crisi di governo ad ogni minaccia di nuova iniziativa dei sindacati.

Risultati e insegnamenti

Riflettiamo sui risultati e sugli insegnamenti di questo periodo.

Sul piano legislativo e normativo segnalerei due grandi successi:

- l’affermazione del diritto di ogni abitante di disporre di una determinata quantità di spazi pubblici (1967 e 1968), e il finanziamento degli spazi pubblici con gli oneri di urbanizzazione e di costruzione (1977);

- l’apprestamento degli strumenti per una politica della casa che consentivano il governo pubblico di tutti i segmenti dello stock abitativo: l edilizia pubblica e quella edilizia sociale con i PEEP (1962-1971), la programmazione dell’intervento pubblico con la filiera Stato-regioni-comuni (1971), il recupero dell’edilizia esistente e degradata (1978), il calmieramento ragionevole del mercato privato (1979).

Mi interessa, soprattutto in questa sede, sottolineare un insegnamento positivo: il forte impegno dei detentori del sapere nell’azione sociale. Ciò ha dato alle masse (donne 1963, operai 1969) le parole d’ordine e le soluzioni praticabili per cui lottare con successo. Due le condizioni che lo hanno consentito:

1. la capacità degli intellettuali di piegarsi ad ascoltare le esigenze inespresse che nascevano dalla società, e quella di trovare le parole giuste per far comprendere i cambiamenti possibili;

2. la capacità della società di costruire gli strumenti economici (il sindacato) e politici (i partiti) capaci di imporre le soluzioni

Ma voglio segnalare anche un insegnamento negativo: l’applicazione meramente burocratica, non innovativa, spesso ritardatrice degli stessi risultati raggiunti. Sia da parte degli urbanisti e delle istituzioni, che per esempio hanno applicagli standard urbanistici e la zonizzazione finalizzata al loro calcolo come criterio di progettazione qualitativa della città, anziché come mero strumento di verifica del rispetto quantitativo. Sia da parte della politica e della società, dove dobbiamo registrare la graduale perdita nella politica della capacità di azione riformatrice (non “riformista”) da parte dei partiti, sotto la sferza del terrorismo di destra e di sinistra, e il prevalere, nella società, del rifugiarsi dell’uomo nell’individualismo, nell’intimismo, nel privato.

Il ragionamento dovrebbe allargarsi molto a quanto succedeva nel resto del mondo, al montare e all’espandersi delle pratiche neoliberali e neoliberiste, alla pervasività dell’azione di trasformazione del capitalismo iniziata con la dottrina Truman (1947) e sviluppatasi con il quartetto Tatcher, Reagan, Deng Xiaoping, Pinochet (primi anni 70). quell’insieme di ideologie e di pratiche che ebbe, come suo principale agente per l’Italia, Bettino Craxi. Così però passiamo alla seconda parte della mia storia

SECONDA PARTE DELLA MIA STORIA

Parliamo dei nostri anni, di questa fase della nostra storia nella quale siamo ancora immersi.

Tutto è cambiato

La prima sensazione è questa: quanto siamo lontani dalla fase che ho finora ricordato. Così lontani che appare spesso sterile ricordarla, si rischia di cadere nella pericolosissima sindrome della nostalgia, di un rimpianto paralizzante perché ricorda scenari non ricostruibili, perduti per sempre.

Tutto è davvero cambiato. Allora per prima cosa è necessario comprendere dove ci troviamo: costruire una carta geografica del mondo e della città di oggi. Se non lo facciamo, se non dedichiamo all’analisi l’attenzione e il tempo necessari, ci riduciamo a inconsapevoli servi di forze e interessi che ci sovrastano. Il secondo passo sarà comprendere che cosa fare per cambiare un mondo e una città che non ci piacciono – se alla fine della nostra esplorazione riterremo che non ci piacciono: comprendere che cosa fare per conferire ad essi qualità, paer fare il nostro mestiere di urbanisti – se riterremo che il mondo e la città stiano drammaticamente perdendo qualità.

L’uomo e la società

I sociologi e gli antropologi hanno coniato molte definizioni per esprimere sinteticamente e criticamente la società e l’uomo di oggi: per denunciare una situazione che è il punto d’arrivo d’un progresso lungo, cominciato molto tempo fa, ma che ha ricevuto una fortissima accelerazione negli ultimi decenni.

A me sembra che l’aspetto centrale sia quello che Richard Sennett chiama “il declino dell’uomo pubblico”: la rottura dell’equilibrio che lega tra loro le due essenziali dimensioni d’ogni persona: la dimensione pubblica, collettiva, comune e la dimensione privata, individuale, intima. E’ quell’equilibrio che si esprime fisicamente nei nostri centri storici e nei nostri paesi, là dove vediamo la strada (dove non è invasa dalle auto) e la piazza costituire il naturale prolungamento della vita che si svolge nell’abitazione.

Contemporaneamente, l’uomo è stato ridotto alla sua dimensione economica: prima alla condizione di mero strumento della produzione di merci, poi a quella di mero strumento del consumo di merci prodotte in modo ridondante, opulento, superfluo. L’alienazione del lavoro prima, l’alienazione del consumo poi. Il lavoratore ridotto a venditore della propria forza lavoro prima, il cittadino ridotto a cliente poi.

Infine, la politica è diventata a sua volta serva dell’economia, appiattita sul breve periodo, priva della capacità di costruire un convincente progetto di società: priva della capacità di analizzare e di proporre.

Il mondo e la città

Il mondo e le città sono dominati dalla globalizzazione. Questa non è in sé un fatto negativo. Negativo è il modo in cui il neoliberalismo (la sua ideologia e le sue pratiche) se ne è impadronito e la gestisce.

Si è diffuso ed è diventato egemone un “pensiero unico”, per il quale gli unici “valori” sono quelli partoriti, elaborati, cesellati dalla civiltà “occidentale”, o “atlantica”. Valori e modelli di vita da imporre al resto del mondo, a civiltà diverse, anch’esse forse portatrici di verità, principi, modelli di vita dai quali magari qualcosa di utile per il miglioramento dell’umanità si potrebbe assumere.

Si è diffuso un modello economico-sociale devastante, ciò che nel mondo si definisce neoliberalismo: la fase attuale del sistema capitalistico-borghese. Inutile ricordare qui i suoi effetti sull’ambiente, sulle condizioni e le prospettive del nostro pianeta.

Vorrei sottolineare il fatto che il neoliberalismo è la matrice culturale dell’opinione corrente, del pensiero unico inculcato alla gente, e soprattutto della strategia dal quale nascono le politiche urbane in tutt’Europa (e nel resto del mondo).

Le politiche urbane del neoliberalismo

Le politiche urbane del neoliberalismo accentuano tutti i fenomeni di segregazione, discriminazione, diseguaglianza che già esistono nelle città. Lo smantellamento delle conquiste del welfare urbano ne sono una componente aggressiva, soprattutto nel nostro paese dove – a differenza che altrove – non c’è mai stata un’amministrazione pubblica autorevole, qualificata, competente, e dove salario e profitto sono stati sistematicamente taglieggiati dalle rendite.

Un’altra componente è la tendenziale privatizzazione d’ogni bene comune, nella città e nel territorio, che può dar luogo a guadagni privati: dall’acqua agli spazi pubblici, dall’università alla casa per i meno abbienti, dall’assistenza sanitaria ai trasporti. La città diventa una merce: nel suo insieme e nelle sue parti.

Il modello della città del neoliberalismo

È descritto con efficacia da Jean-François Tribillon in uno scritto ripreso su eddyburg: “Lo spazio urbano è costituito da mercati sovrapposti (i mercati dei suoli, degli alloggi, del lavoro, dei capitali, dei servizi …), scandito dai servizi collettivi (trasporti, polizia, sicurezza, amministrazione generale…) e dalla regolamentazione urbana. I gruppi sociali si collocano nello spazio urbano nei luoghi assegnati loro dalle dinamiche economico-sociali o dai processi di sfruttamento / oppressione di cui sono oggetto. Lo spazio urbano è disseminato da attrezzature dell’economia globale: sedi delle grandi imprese, complessi alberghieri, centri congressi, banche internazionali…: questi feudi dell’economia globale costituiscono una città nella città, autonoma e dominatrice” (la “infrastruttura globale” descritta da Saskia Sassen).

Un potere sempre più concentrato e globalizzato risiede nei luoghi selezionati nelle città globali. I cittadini sono tendenzialmente ridotti a sudditi: il padrone è il Mercato, dove i forti schiacciano sistematicamente i deboli. Il Mercato non deve essere disturbato: le regole sono un impaccio, devono essere ridotte al minimo: solo a far funzionare la città così come serve a chi comanda. La politica si riduce alla tecnicità disincarnata della gestione dell’esistente.

L’emarginazione, la segregazione, la rimozione diventano pratiche di pianificazione. I servizi collettivi sono finalizzati a garantire contro ogni tentativo di ribellione. La distribuzione dell’informazione è organizzata per accrescere il consenso per il potere e per impedire che voci alternative possano farsi sentire.

Nasce una controegemonia?

In tutt’Europa nascono movimenti di protesta: spesso deboli, frammentari, episodici, qualche volta collegati in reti più ampie, anche internazionali. Si tratta di proteste che riguardano prevalentemente due temi:

(1) la difesa dagli sfratti, dall’espulsione dalle case e dai quartieri sottoposti a processi di rigenerazione e riqualificazione che spostano gli abitanti originari nelle più lontane periferie;

(2) la difesa di spazi pubblici (piazze, parchi, edifici pubblici) sottratti all’uso collettivo dall’edificazione o dalla privatizzazione.

Sono proteste che cominciano ad emergere nei forum sociali nei quali si esprimono le forze, culturali e sociali, che non credono che la globalizzazione del neoliberalismo porti benessere e felicità a tutti, e cercano altre vie per affermare i diritti dell’umanità.

Il “diritto alla città”

Tra questi diritti riemerge un diritto antico, evocato alla fine degli anni 60 del secolo scorso da Henri Lefebvre, ripreso da David Harvey e solo recentemente riapparso nelle parole d’ordine dei movimenti e nel lavoro dei ricercatori: il diritto alla città. Un diritto che spetta agli uomini e alle donne non in quanto singoli individui (anche se ciascuno ne è beneficiario) ma in quanto membri della società: in quanto cittadini o in quanto abitanti ancora privi del diritto di cittadinanza.

E’ un diritto che si concreta in due aspetti principali, dai quali tutti gli altri derivano:

1) Il diritto a fruire di tutto ciò che la città può dare (a partire dalla possibilità di incontro e di scambio, di utilizzare le dotazioni comuni, di abitare e muoversi destinando a queste funzioni risorse commisurate ai redditi);

2) Il diritto a partecipare al governo della città, ad esprimere, orientare, verificare, correggere, momento per momento, le azioni di chi è preposto all’amministrazione ed i loro risultati.

La tesi che abbiamo discusso e approvato al Forum sociale europeo del 2008 è che la risposta positiva all’esigenza di diritto alla città è costituita dalla capacità di realizzare nel concreto quel modello di habitat dell’uomo che abbiamo definito “la città come bene comune”. Ma di questo, magari, parleremo in un’altra occasione.

CHE FARE, DA DOVE PARTIRE

Come cittadini

Ricordiamo innanzitutto che, prima di essere urbanisti, siamo cittadini. Naturalmente come cittadino non posso dare consigli, posso solo esporre il mio pensiero. Io penso che in questo momento non si possa fare affidamento alla politica dei partiti. Credo che nessuno dei partiti esistenti abbia le carte in regola.

Certo, ci sono differenze, anche forti. Per esempio, tra

- i partiti che esprimono con pienezza gli interessi dei potentati economici e, in Italia, quelli delle componenti più parassitarie del mondo capitalistico,

- i partiti che, pur non esprimendo direttamente quegli interessi, ne condividono l’ideologia di fondo,

- i partiti che, pur esprimendo l’esigenza di una critica radicale al sistema economico-sociale e all’ideologia del liberalismo, non riescono a formulare un’analisi adeguata, a costruire su di essa un progetto di società e a dare gambe sociali a un’azione politica.

Oggi siamo orfani della politica. Io credo allora che, pur senza rassegnarci a questa precaria condizione, dobbiamo lavorare su due referenti, nei confronti di due recapiti.

In primo luogo, i movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date: Essi crescono mese per mese e, nonostante la loro attuale fragilità, testimoniano di una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose. Mi sembra che un recente segnale molto positivo della forza e dell’intelligenza critica latenti nella società sia rappresentata dall’onda che si è sollevata dal mondo della scuola, in quasi tutte le sue componenti.

L’altro interlocutore cui dobbiamo guardare sono le istituzioni: i comuni, le province, le regioni, il parlamento. Naturalmente con maggiore attenzione per la prima, perché più sensibile al “locale”, cioè al luogo ove finora si manifesta la maggior pressione dei movimenti

Come esperti e come urbanisti

Ma non siamo solo cittadini. Siamo intellettuali, depositari d’un sapere che dobbiamo amministrare al servizio della società. Dobbiamo saper ascoltare la società, individuare le esigenze che sollecitano alla costruzione di una città “bella perché buona”, nel senso che ho indicato all’inizio. E a quelle esigenze dobbiamo e saper dare risposte: come hanno saputo fare i nostri padri negli anni 60

Comprendere le esigenze che affiorano e saper fornire i saperi necessari a trovare le parole d’ordine giuste. E raccontare, in termini semplici e fuori dal nostro glossario, in che modo le pratiche correnti della “urbanistica reale” rendano più povera, più precaria, più difficile la vita delle donne e degli uomini, in particolare delle componenti più deboli.

Poche settimane fa abbiamo organizzato a Venezia, in collaborazione con la Rete delle Camere del lavoro della CGIL, un convegno proprio sui temi che stiamo discutendo qui. Molte esperienze sono state illustrate del modo in cui le organizzazioni territoriali del sindacato si adoperavano per far comprendere agli abitanti quali erano le cause del disagio urbano, e quali i modi per combatterle. Mi meraviglia il fatto che oggi, chi ha studiato per conoscere queste cose, e le insegna ai propri studenti, non riesce a trovare i canali e le parole per spiegarle ai cittadini.

La questione degli spazi pubblici

Mi sembra che, tra le diverse componenti componenti della città pubblica, quella che offrr, più delle altre, un terreno privilegiato, di critica e di proposta, è la questione delle attrezzature, degli spazi pubblici. E’ un terreno progettuale con ampie possibilità, anche in relazione alla nostra professionalità. Vorrei suggerirvene tre, anche sulla base delle esperienze che ho svolto o sto svolgendo.

Un primo argomento è quello che definisco la costruzione del “sistema delle qualità”: Si tratta di non vedere gli spazi pubblici come degli immobili (aree ed edifici) separati, ma di costruire una rete di percorsi protetti, piacevoli e sicuri per chi va a piedi o spinge la carrozzella, che colleghino tra loro, collochino in un’unica rete, tutti i luoghi utili e belli: le scuole e il verde, il mercato e l’ambulatorio, il giardino e l’edificio storico, la sponda del fiume e la piazza, il luogo di culto e il teatro e così via. Si tratta di costruire l’alternativa alla città formata dalle abitazioni e dalle automobili. E si tratta di un disegno, di un sistema, che può proiettarsi all’esterno della città, toccare i luoghi belli delle campagne e delle colline, le spiagge e i boschi.

Un secondo tema, a proposito del quale ci sono esperienze significative anche in Italia, è quello del recupero alla convivialità e alla socievolezza, di luoghi adibiti a depositi di automobili, o comunque malamente utilizzati. Un’esperienza significativa è stata compiuta nella piccola città di Arenzano, in Liguria. Ne trovate qualche elemento in eddyburg, così come vi trovate un riferimento al progetto Urban a Cosenza: un’esperienza interessante, giunta a buon fine e poi, malauguratamente, abbandonata.

Un terzo tema, utile anche per promuovere, assistere e cercare ddi mettere in rete le proteste dei cittadini, è quello della difesa di spazi pubblici minacciati dalla privatizzaazione o dalla utilizzazione a fini di speculazione. Stiamo progettando, come eddyburg ma con un progetto di costituzione di una iniziativa nazionale ed europea, una “mappa degli spazi pubblici, e/o dei beni comuni: sia per raccogliere e diffondere la conoscenza di ciò che già c’è, o puà esserci, sul territorio, sia per mobilitare i gli abitanti alla difesa e al miglioramento di ciò che c’è.

La prossima sessione della Scuola estiva di pianificazione di eddyburg (che svolgeremo a settembre probabilmente ad Alghero) sarà dedicata a questo insieme di temi. Ci proponiamo di lanciare, nell’occasione, la proposta di “nuovi standard urbanistici”. Vorremmo proporre di ampliare la gamma degli standard, in tre direzioni: allargare l’attenzione agli standard territoriali (oggi riguardano sostanzialmente i servizi di vicinato), prendere in considerazione nuove esigenze (la balneazione, il fine settimana, il bisogno di aria pulita nella campagna ecc.), inserire nel ragionamento degli standard anche beni che meritano di essere aperti alla fruizione comune e aperta in ragione della loro bellezza, del loro interesse stirucoi, della loro qualità ambientale.

Quattro nodi

Non posso trascurare, prima di concludere questa relazione, quattro temi che sono i veri nodi della pratica professionale e del governo delle trasformazioni territoriali in questi anni in Italia. Sono riassunti in quattro parole: rendita, edificabilità, perequazione, partecipazione.

Rendita

Secondo l’economia classica la rendita è la componente parassitaria del reddito. Infatti, a differenza delle altre forme di reddito (il salario, che remunera il lavoro, il profitto, che è il risultato dell’attività di gestione della produzione) la rendita corrisponde unicamente alla proprietà di un bene che è desiderato da altri soggetti. Essa non svolge nessuna funzione sociale, neppure nellaa logica derl sistema capitalistico.

I maestri dell’urbanistica ci hanno insegnato che l’appropriazione privata della rendita urbana (la proprietà privata dei suoli urbani) è la causa maggiore di tutti i disagi che nascono nella città, all’indomani del trionfo della rivoluzione capitalistico-borghese. La consapevolezza di ciò era presente, negli anni ai quali mi sono riferito nella prima parte della mia storia, alle forze politiche e culturali progressiste, e perfino, in alcuni momenti, agli stessi esponenti del capitalismo italiano (ricordo parole molto chiare dei fratelli Gianni e Umberto Agnelli all’inizio degli anni 70).

Oggi le cose sono profondamente e drammaticamente cambiare anche su questo argomento centrale per il destino della città e per il benessere dei suoi abitanti. Oggi la rendita urbana, e il suo continuo accrescimento sono considerati addirittura il motore dello sviluppo. Non c’è sindaco, non c’è amministratore, non c’è politico (salvo rare eccezioni) che non attribuisca virtù positive all’incremento delle aree urbanizzate – e quindi all’incremento della rendita fondiaria. Le operazioni di trasformazione urbana sono guidate dalle volontà di aumentare il valore immobiliare delle aree investite, non dal benessere degli abitanti. Anzi, questi vengono espulsi per facilitare la valorizzazione immobiliare. Finché questo nodo non verrà sciolto non ci sarà futuro positivo per le città e i suoi cittadini.

Edificabilità

Da che cosa deriva l’edificabilità di un suolo? Per un urbanista la risposta è ovvia. Se non ci fosse stato un processo storico sociale che ha con dotto alla costruzione delle città esistenti, se gli investimenti pubblici non avessero realizzato le urbanizzazioni primarie e secondarie, se la decisione pubblica del piano urbanistico non avesse definito l’utilizzazione edilizia dell’area, nessun suolo sarebbe stato edificabile per funzioni urbane.

La lotta per ottenere il riconoscimento giuridico di questa verità oggettiva ha conosciuto fassi diverse, ma quel principio oggi, nel nostro paese, non è stato ancora pienamente codificato sul piano normativo. Ciò ha indotto qualche urbanista a teorizzare (e a praticare) la tesi secondoi la quale esiste un “dirittoo edificatorio” attribuito dal piano urbanistico: un “diritto” che una successiva decisione (un successivo piano) non può modificare, se non compensando adeguatamente il proprietario interessato. Sulla base di questo “diritto” si sono rese edificabili, nel PRG di Roma, aree vastissime, ancora oggi in edificate, che non esiste alcun motivo oggettivo per rendere edificabili.

Eppure, come ho dimostrato tutta la giurisprudenza è costante nel dichiarare che qualsiasi decisione urbanistica relativa all’edificabilità può essere modificata, riducendo o eliminando l’edificabilità, nel rispetto di due sole condizioni: che la decisione sia motivata da ragioni d’interesse pubblico, e che le spese legittimamente e documentatamente sostenute dai proprietari a causa di precedenti decisioni (per esempio, nel caso di lottizzazioni convenzionate già in parte urbanizzate a opera dei proprietari) debbano venir rimborsate.

Perequazione

C’era già con la disciplina dei piani di lottizzazione vigente dal 1967. Nella pratica si è estesa a tutti gli strumenti di pianificazione attuativa, come ripartizione degli oneri e vantaggi nell’attuazione del piano. Oggi si tende a trasformarle in una spalmatura dell’edificabilità su tutto il territorio. In questi termini è secondo me un’operazione perversa, che tende a rafforzare la convinzione che l’edificabilità sia un “diritto” di tutto il territorio (di tutte le proprietà), e tende ad aumentare il consumo di suolo.

È diventata, da strumento attuativo e limitato alle aree di trasformazione urbanistica, criterio generale da adottare per accrescere la rendita immobiliare, il vero “motore dello sviluppo”: di uno sviluppo perverso, che ha perso ogni contatto con i reali bisogni degli uomini.

Partecipazione

Dopo essermi soffermato sui nodi che strangolano la possibilità di accrescere davvero gli standard qualitativi del nostro territorio, vorrei accennare a una questione che può rappresentare un antidoto alle cattive pratichedi governo del territorio che le precedenti tre parole (rendita, edificabilità e perequazione) hanno evocato. La quarta parola è “partecipazione”. La speranza sta infatti nella capacità e volontà dei cittadini a intervenire nei conflitti del governo della città, esprimendo con forza e convinzione la volontà che le trasformazioni siano guidate dall’interesse collettivo, dall’esigenza degli abitanti di avere un ambiente urbano adeguato, fruibile da tutti.

Gli strumenti formali della partecipazione sono debolissimi. Nella legislazione urbanistica c’è solo l’istituto delle “osservazioni “ ai piani. A proposito, trovo aberrante che nella legge urbanistica calabrese l’istituto delle osservazioni venga ridotto, sicché vi abbiano diritto solo le persone che sono colpite direttamente dalle scelte dei piani. Se il mio terreno ha una destinazione che non mi fa guadagnare abbastanza, se una strada minaccia la mia proprietà, posso criticare e proporre un’alternativa. Se il piano riduce il verde pubblico, minaccia l’aria che respiro, mi rende disagevole raggiungere la scuola o il mercato, sottrae ingiustificatamente aree agricole, lascia costruire dove il terreno è permeabile e inquina la falda agricola, allora non posso criticare e proporre.

E’ una decisione aberrante, e mi meraviglio fortemente che nessuno abbia protestato. Come nessuno ha protestato perché in tutte le fasi della formazione dei piani sono fortemente presenti gli interessi economici (naturalmente prevarranno quelli della grande proprietà immobiliare) e sono praticamente assenti i cittadini.

Oggi ci sono in Italia varie esperienze di introdurre ben più largamente la partecipazione. Ma molto spesso ci troviamo davanti a pratiche orientate più a catturare il consenso su scelte preconfezionate, che ad attivare effettivamente pratiche di “governo dal basso”, di partecipazione effettiva dei cittadini alle scelte. Devo dire che credo oggi molto di più alla partecipazione che si esprime in iniziative spontanee degli abitanti che di quello "guidata dall’alto”. Ma esistono esempi significativi anche di partecipazione “top-down”. Il caso, certo rarissimo se non unico, del comune di Cassinetta di Lugagnano, ai margini dell’area milanese, dove un sindaco coraggioso è riuscito ad adottare un piano “a crescita zero” con il consenso di tutti i cittadini. Lo ha fatto intrecciando strettamente la discussione sul piano regolatore con quella del bilancio comunale, adoperando la partecipazione come strumento di appropriazione dei cittadino informati delle decisioni sul futuro del loro paese.

Una domanda finale

Altre parole mi vengono in mente sulle quali bisognerebbe ragionare. Tutte suscettibili di significati diversi, anche alternativi. Penso a parole come vivibilità, sostenibilità, qualificazione, rigenerazione, qualità: parole sulle quali abbiamo ragionato in particolare nell’ultima edizione della Scuola di eddyburg, scoprendo le mistificazioni e l’attivazione di azioni e poteri che da esse possono scaturire.

Io credo che, per interpretare correttamente quelle e altre parole occorra porsi ogni volta una domanda finale, a proposito di ogni pratica urbana nella quale siamo coinvolti – come attori, o come semplici osservatori critici.Chi ci guadagna e chi paga? Nell’immediato e in prospettiva, al di là della parola impiegata per raccontarla. Credo che sia un interrogativo essenziale per chi si occupa del governo del territorio

Grazie ancora a tutte e a tutti.

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