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Lodo Meneghetti
La strada, la piazza. Un cuore antico per il futuro
15 Marzo 2009
Spazio pubblico
Alla ricerca dello spazio perduto (discorsi di piazza) è il titolo del mio intervento

in Eddyburg del 25 novembre 2006, divenuto testo di apertura di Libere osservazioni non solo di urbanistica e di architettura (Maggioli Editore 2008). Il tema della perdita degli spazi pubblici ha impegnato altri colleghi. Valgano, fra i contributi recenti, l’Eddytoriale120 di Edoardo Salzano (20 gennaio 2009) e l’articolo di Marco Romano Archistar fuori piazza in "il Domenicale" e in Eddyburg del 2 febbraio. Constatiamo che l’urbanistica e l’architettura moderne sono state incapaci di trarre insegnamento dalla storia della società e della città, antica e moderna.

Abbiamo perduto sia la piazza che la strada come luoghi di straordinaria manifestazione di socialità e di legame fra questa e l’architettura urbana. Piazze e strade magari ereditate quasi nella veste originaria non entrano più, per così dire, nella pratica intensa di rapporti sociali in spazio pubblico riconosciuto dalla comunità e nello stesso tempo intimamente tuo. Perché quei rapporti non esistono più. Avevano luogo in piazza e in strada ma l’esistenza di queste non ne erano il presupposto, invece costituito dalla data formazione economico sociale; che li determinava, non poteva farne a meno. La strada e la piazza, benché non loro causa diretta, diventavano però spazio urbano, architettonico, funzionale ed estetico che li favoriva, ne assicurava il sostegno e lo scenario. Spazio sociale e, direbbe Marc Augè, simbolico. In definitiva la comunità, come non poteva rinunciare a quei rapporti, così non poteva rinunciare a quel coerente contesto fisico.

Oggi, noi fiduciosi minoritari dell’urbanistica e dell’architettura potremmo forse realizzare strade e piazze belle (intanto non se ne vedono), ben dotate di funzioni richiamanti l’interesse delle persone, ma non possiamo far nulla né può chicchessia politico, sociologo, antropologo, economista riguardo alla rinascita di precedenti relazioni sociali rimpiante. È questa società a negarle, anzi ad averne decretato la morte schiacciate sotto il peso dell’unico moloch venerato: l’individualismo. Questa società non ha la possibilità di ammetterle, di crearle. Non le detiene impresse nei suoi geni.

Eppure dovremmo egualmente (saper) progettare per, dapprima, recuperare e poi realizzare piazze e strade tradizionali, vale a dire spazi incentrati sulla ricostituzione all’aperto del senso di limite, cortina, chiostro, del sentimento di agorà. Senza dimenticare che le piazze e le strade storiche maggiormente vitali furono quelle che insieme a funzioni commerciali, culturali, di servizio pubblico presentavano in larga misura abitazioni. Da tali spazi, se dotati delle destinazioni consolidate dall’uso storico, non per questo conseguiranno direttamente un rapporto comunitario e l’affabilità tra le persone, ma l’andirivieni e l’incontro obbligato in un contesto non solo funzionale ma estetico potranno aprire una falla nella loro solitudine e inserire un soffio di benestare nel cervello e nel cuore. È quello che può succedere quando si vive lo spazio ancora ricco di risorse di una delle sopravvissute magnifiche piazze o strade d’Italia e d’Europa. Non è vero che le ha sostituite l’ipermercato. Qui la frenesia dell’acquisto ad ogni costo divide, aumenta la solitudine di te davanti alla merce spropositata e ai tuoi soldi. E manca l‘influenza essenziale della bellezza architettonica, impossibile perché disdegnata, paventata dagli scopi dell’ipermercatismo.

"Il faut tuer la rue corridor", Le Corbusier. Il movimento moderno ha pagato un alto prezzo quando ha applicato quest’ordine meccanicamente, alla lettera senza capire cosa avrebbe perso la comunità cittadina distruggendo la cortina stradale e risolvendo ogni nuovo intervento urbanistico e architettonico mediante l’"edilizia aperta": corpi di fabbrica separati, distanziati secondo certe norme igieniche, distribuiti più o meno regolarmente nello spazio senza alcuna relazione con luoghi circoscritti di convergenza comunitaria ben distinguibili ("il disastro vero sono i quartieri nuovi delle città europee", Marco Romano). In Italia un protagonista del razionalismo ha cercato di interpretare cautamente il messaggio come gli rispondesse: "tuer? sì ma non troppo". Nacque (ma tardi, nel dopoguerra) il progetto di Piero Bottoni per la "Strada vitale", da un lato accettazione dei principi razionalisti per l’abitazione, dall’altro riproposizione, appunto, della vitalità della strada storica. Costruzioni residenziali relativamente alte perpendicolari al tracciato della strada ed edificio basso continuo lungo i lati per ricostituire l’efficacia della strada storica sia per funzione (tutti i servizi sociali culturali commerciali) sia per forma (la cortina continua). Circa la piazza o il suo parente cortile dell’abitazione il movimento razionalista non ha saputo trarre alcun insegnamento dal passato. Nessuna apprezzabile novità, poi, riguardo ai problemi qui proposti, nel prosieguo delle storie ormai separate dell’urbanistica e dell’architettura.

Dobbiamo ricorrere ad altri momenti del Novecento, soprattutto, per me, al tempo del piano di Amsterdam Sud di Berlage e della sua realizzazione attraverso i generosi architetti della "Scuola di Amsterdam" (Kramer, De Klerk, la Kropholler…). Il metodo berlaghiano di progettazione secondo cui il tutto sia presente nelle parti come le parti lo siano nel tutto – ossia l’urbanistica e l’architettura unite nell’azione – trova completa definizione attraverso un triplice riferimento: alla storia della città (l’isolato edilizio di forma rettangolare allungata), ai fattori istituzionali (le nuova legge del 1901 con regolamentazione promotrice dell’edificazione per blocchi residenziali), ai fattori sociali (la cooperazione, fondata sull’esperienza storica e profondamente radicata nel presente). Gli isolati e i blocchi chiusi concorrono al pieno rendimento del programma d’insieme fortemente coeso entro il quale dominano l’unità architettonica di quattro piani lungo i margini dell’isolato costituente all’esterno cortina stradale e la grande corte interna (50-60 x 100 e più metri), una vera piazza-giardino dei cooperatori e delle loro famiglie accessibile a tutti i cittadini.

Davanti a un pezzo di città moderna formato da strade e isolati Sigfried Giedion, mentore del razionalismo, scriverà: "Se consideriamo l’Amstellaan… ci accorgiamo che essa rientra nella corrente principale dell’urbanistica ottocentesca: la strada domina l’assieme. L’Amstellaan è rappresentativa dell’intero progetto: c’è una riforma, non una concezione nuova". Al contrario per il meno ortodosso dei maestri della generazione degli Ottanta, Bruno Taut, è la strada con gli edifici ai bordi a identificare "il prodigio, la creazione di un’architettura collettiva dove non è più la singola casa ad essere di particolare importanza, ma lo sono le lunghe schiere di case lungo le strade e ancor più l’aggregazione di molte strade in una unità complessa".

Per conto nostro, se pensiamo alla situazione attuale della città e della cultura urbanistica e architettonica, la Amsterdam Sud berlaghiana dovrebbe bastarci adesso. Ottocentesca? Se milanesi dovremmo tenerci stretta volentieri persino una Milano tutta berutiana, mille volte meglio dello sconquasso urbano guidato dagli insensati, spiazzati grattacieli d’autore (per modo di dire).

Milano, 18 febbraio 2009

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