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Giorgio Ruffolo
Perchè oggi sono di moda
3 Marzo 2009
Capitalismo oggi
Le nazionalizzazioni: breve storia di quello che oggi il capitalismo reclama a gran voce dallo Stato. Da la Repubblica, 3 marzo 2009 (m.p.g.)

Nazionalizzare significava, una volta, trasferire permanentemente allo Stato la proprietà di una impresa privata, o di un intero settore di imprese private - per esempio le imprese elettriche - o addirittura di tutte le imprese operanti nell’economia. In tal caso si parlava, più propriamente, di socializzazione. Tutto ciò non avveniva senza "rumore e furore".

C’era una differenza di grande rilievo tra le imprese nazionalizzate e le imprese "partecipate" dallo Stato. Le prime assumevano solitamente, oltre che una diversa struttura proprietaria, anche criteri di gestioni diversi da quelli delle imprese private (per esempio, adottando come obiettivo fondamentale dell’impresa il valore della produzione piuttosto che il margine del profitto). Ciò si verificava soprattutto quando il fine prevalente della nazionalizzazione era di acquisire materie e prodotti essenziali per la sicurezza e la sopravvivenza economica di un paese. Per le altre la quota dello Stato sul capitale, pure restando di regola maggioritaria, poteva variare, ed erano osservati criteri di gestione "di mercato", spesso in concorrenza con altre imprese private del settore. Viene subito in mente la differenza tra l’Enel e l’Eni.

I fini della nazionalizzazione possono essere i più diversi. A un estremo c’è il pregiudizio ideologico contro la proprietà privata. E’ il caso della primissima fase del regime sovietico, il cosiddetto comunismo di guerra, quando ogni forma di proprietà privata, tranne quella dei beni domestici, venne abolita. Al lato opposto c’è l’intenzione di venire in soccorso della proprietà privata, investita da crisi economiche e finanziarie particolarmente gravi. In tal caso lo Stato interviene per colmare perdite ormai irrecuperabili confiscando le azioni; si incarica di ricapitalizzare l’impresa con fondi tratti dal bilancio pubblico (insomma, con i soldi dei contribuenti); e, quando l’impresa è stata risanata, la reimmette nel mercato.

Questa è evidentemente la nazionalizzazione che il capitalismo di gran lunga preferisce: specie se grazie a qualche marchingegno istituzionale i capitalisti espropriati possono riappropriarsi delle loro azioni. In tal caso si dice che a pagare è stato Pantalone. Ma Pantalone può anche guadagnarci. Se infatti il risanamento riesce, come spesso capita, lo Stato può rivendere l’impresa a un prezzo anche molto superiore a quello al quale l’ha acquistata. Agli svedesi è riuscito molto bene. Nel 1992 il governo svedese ha rilevato le banche insolventi, le ha convenientemente ripulite per poi rivenderle (chi sa perché agli svedesi certe cose vanno meglio che a noi: per esempio, il welfare! anziché l’esempio americano, che ci veniva insistentemente raccomandato, forse avremmo dovuto seguire quello svedese).

Può invece accadere che lo Stato "ci prenda gusto" e tenga per sé le imprese risanate costituendo, come è avvenuto in Italia a suo tempo, un settore di imprese a partecipazione statale. Ciò che invece non è mai avvenuto è che il guadagno realizzato dallo Stato sia stato restituito a Pantalone.

Oggi le nazionalizzazioni sono tornate di moda. E c’è da notare lo stupefacente mutamento intervenuto nell’opinione pubblica capitalistica, soprattutto quella bancaria, durante quest’ultima devastante crisi.

Ricordiamo tutti come la nazionalizzazione fosse diventata, nel secolo scorso, lo spauracchio del capitalismo e l’araldo del socialismo. O piuttosto, del dirigismo, che è cosa un po’ diversa. Ricordiamo la nazionalizzazione della rete ferroviaria italiana del 1902. Quella del settore assicurativo del 1912. La grande stagione delle partecipazioni statali degli anni Trenta. E la nazionalizzazione dell’industria elettrica del 1962, che segnò uno dei più alti livelli di scontro tra interventisti e liberisti nella storia di questo paese.

Adesso, il quadro è completamente cambiato.

Orde di banchieri americani, - l’Economist che immagina la scena - si avventano all’inesorabile inseguimento dei funzionari di governo. Come, dice, nella Notte dei morti viventi. Che cosa invocano selvaggiamente? La nazionalizzazione.

Il nuovo Segretario al Tesoro Geithner resiste (anche questa è da raccontare: le banche che chiedono l’invasione e l’invasore che si sottrae). Non potrà però resistere a lungo alle nazionalizzazioni, dice sempre l’Economist, perché i costi del cosiddetto stress test e cioè dei controlli di tipo sovietico cui sono sottoposte le banche che ricevono denaro pubblico sono troppo pesanti. Nazionalizzateci, invocano le banche americane. Persino Alan Greenspan, l’uomo che avrebbe ottime ragioni per tacere essendo uno dei maggiori protagonisti del disastro, si unisce al coro. È proprio vero che le vie del capitalismo sono infinite.

Certo: il moralista avrebbe qualche cosa da dire. Ma, come diceva il vecchio Premier britannico Macmillan, se chiedete la morale dovete rivolgervi al Vescovo.

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