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Gli architetti? Non solo disegnatori ma anche progettisti
17 Febbraio 2009
Una recensione al testo di Vittorio Gregotti “Contro la fine dell’architettura”. Da l’Unità, 17 febbraio 2009 (m.p.g.)

«È necessario riaffermare che il fatto che l’architettura sia connessa con l’idea di costruzione, di abitabilità, e quindi di stabilità, solidità fondazione non è affatto in contraddizione con il processo di costante cambiamento». Così scrive Vittorio Gregotti in Contro la fine dell’architettura, lamentando che oggi l’architettura per inseguire il proprio cambiamento, sollecitata dal progresso tecnologico e l’avvento dell’immaterialità nonché dallo smarrimento del referente (conseguente alla morte delle ideologie), tende a trascurare abitabilità e solidità, risolvendosi in una proposta di pura valenza estetica. Con il che, conclude Gregotti, nel tentativo di difendere il marchio arte finisce per definitivamente perderlo.

Periferie

Certo il problema dell’architettura oggi è questo, ma è anche altro (e soprattutto è prima). Le democrazie moderne sono premute dall’esplosione della civiltà di massa e le domande di scala grande che urgevano, impegnate in ricostruzioni totali dopo le rovine dell’ultima guerra mondiale, travolte dell’irruzione del mercato quale nuova molla dell’economia e strada obbligata per la globalizzazione, e insieme a questi a causa di mille altri condizionamenti, tendono a «s’en foutre» dell’architettura risolvendosi per soluzioni ingegneresche, di immediata praticità e provvisoria utilità. Di qui le orrende periferie che rattristano le nostre città, sterminati dormitori per masse migranti; ricostruzioni come pedissequa e raffazzonata ripetizione di modelli precedenti e oggi senza più senso e funzione (vedi il centro di Varsavia); proliferazione di infrastrutture di collegamento (trasformatrici della natura e del paesaggio), indispensabili strumenti nelle economie di mercato. Ma se questo è l’andazzo generale vi sono vistose eccezioni che testimoniano ben altre e più corrette prospettive. Una per tutte la rinascita di Berlino.

Berlino

Oggi Berlino è irriconoscibile rispetto a quella monumentale e severa dell’era prussiana. Piano la ha ridisegnata, insieme scomponendola e conservandola compatta, in modo che non riflettesse l’aria (spesso arcigna) del dominio ma l’autorità conversevole (e per nulla solenne) propria di chi considera il presente un avamposto del futuro. Piano ha operato non come architetto ma come urbanista, non si è limitato a disegnare i profili di edifici e palazzi ma ha realizzato un progetto di città (misurandola a una idea di cultura che punta su quel che non sa e può accadere). Ecco il salto che agli architetti è richiesto: i fini utilitaristici cui l’architettura deve rispondere (il suo manifestarsi su commissione) impongono (all’operatore architetto) di resistere alla perdita di simbolizzazione che ha investito l’arte oggi e consentono loro (e forse li obbligano) a operare su ipotesi che non escludano (anzi prevedano) visioni di prospettiva (cioè a immaginare oltre l’oggetto proposto).

Liberi da...

L’auspicio che gli architetti si trasformino in urbanisti vuole dire: che gli architetti non sono disegnatori ma progettisti e anche quando sono alle prese con la commessa di un singolo edificio non trascurino gli aspetti costruttivi e di piano ed evitino di scadere, in nome di un’arte finalmente liberata, in prodotti estetizzanti di fragile presenza. Liberata da che? Si chiede Gregotti; forse dall’arte stessa?

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