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Eddytoriale 120 (29 gennaio 2009)
29 Gennaio 2009
Eddytoriali 2008-2009

Non da oggi nascono il rischio per lo spazio pubblico della città e il suo indebolimento nella vita della società urbana. Lo testimonia il tentativo, in corso ormai trionfalmente da qualche decennio, di sostituire agli spazi pubblici i “non luoghi”, caratterizzati dalla ricerca dei requisiti opposti a quelli che rendono pubblica una piazza (lo spazio pubblico per antonomasia): la recinzione mentre la piazza è aperta, la sicurezza mentre la piazza è avventura, l’omologazione mentre la piazza è differenza e identità, la natura delle persone che la abitano, clienti anziché di cittadini, la distanza dalla vita quotidiana anziché la sua prossimità. E lo testimonia, da tempi ancora più lontani, la scomparsa degli spazi pubblici da grandissima parte delle periferie che da molti decenni circondano e affogano la città, costituendone la componente quantitativamente più importante.

La visione e i progetti di eddyburg

Eddyburg ha una visione molto ampia dello spazio pubblico nella città, e una percezione molto viva dei rischi che esso corre. Per noi lo spazio pubblico ha il suo punto di partenza nell’archetipo della piazza, ma permea l’intera concezione della “città come bene comune”. La lotta per una quantità e qualità adeguata degli spazi pubblici ha un suo momento significativo, in Italia, nella faticosa conquista degli “standard urbanistici”, ma vuole allargarsi oggi ad altri elementi e altre esigenze; del resto, fin dagli anni degli standard urbanistici la vertenza per i servizi e gli spazi pubblici si è saldata, diventando tutt’uno, con quella per “la casa come servizio sociale” e quella per il “diritto alla città”. Oggi ci proponiamo di allargare l’attenzione e l‘obiettivo dalla conquista (dalla difesa) delle attrezzature e dei servizi di prossimità all’intera gamma di esigenze dell’uomo che vive su territori più ampi: la ricreazione psico-fisica nei grandi spazi naturali dei monti, delle colline e delle coste, il godimento dei grandi patrimoni archeologici, storici e culturali disseminati sui territori, le attrezzature utilizzabili solo in una dimensione di area vasta. A questi temi dedicheremo la quinta edizione della Scuola di eddyburg, che terremo ad Asolo dal 9 al 12 settembre prossimi.

Gli spazi pubblici sono a rischio. Abbiamo accennato più sopra ai rischi principali. Essi hanno la loro matrice ideologica in quel declino dell’uomo pubblico che molti pensatori denunciano da tempo; un declino che ha forse la sua radice in quell’alienazione del lavoro, ossia nella finalizzazione dell’attività primaria dell’uomo sociale ad “altro da sé”, che costituisce l’essenza del sistema capitalistico. E hanno la loro matrice strutturale nel dominio del diritto alla proprietà privata e individuale sopra ogni altro diritto, che costituisce il fondamento dei sistemi giuridici vigenti, in Italia e altrove.

Ma sono concretamente a rischio per mille concrete iniziative di governo. Indichiamone due (ma si tratta, ahimè, di un elenco aperto). Le recente iniziative del ministro degli interni di vietare le manifestazioni religiose (ma latu sensu tutte le manifestazioni) nei luoghi pubblici in prossimità dei luoghi di culto: ma dove c’è, in Italia, una piazza che non sia vicina a una chiesa? E il perverso intreccio tra lo strangolamento finanziario dei comuni e l’arrendevolezza di questi ultimi, che li spinge a svendere gli spazi pubblici, o a commercializzarli, per ottenere il danaro con cui sopravvivere (vivendi perdendo causam).

A questi rischi occorre opporsi. E in mille luoghi d’Italia ci si oppone, con l’iniziativa di comitati, associazioni, gruppi di cittadini e di abitanti che si mobilitano a difesa del loro territorio, delle loro città, dei loro quartieri. Pochi giorni fa, a Cassinetta di Lugagnano, dove si è reso pubblico un appello dal titolo “Stop al consumo di suolo” si è potuto verificare come attorno a questo tema si annodino le mille vertenza aperte in ogni parte d’Italia per ottenere città che non crescano più sotto il dominio della speculazione immobiliare, ma siano città resi vivibili dalla quantità e qualità degli spazi pubblici, e dalla sua organizzazione d’insieme come unitario bene comune; tremila gruppi, comitati, associazioni hanno comunicato la loro adesione alla manifestazione. Ci proponiamo di coinvolgerli in una iniziativa che da qualche tempo, in collaborazione con altre associazioni, abbiamo avviato: un progetto per la costruzione di una mappa degli spazi pubblici e, parallelamente ad essa, di una mappa degli spazi a rischio e dei conflitti per la loro difesa, o riconquista, o conquista.

Il ruolo del commercio

Un ragionamento particolare merita il ruolo del commercio nella vita della città. La vitalità dei suoi spazi pubblici ha avuto storicamente un apporto decisivo dalla presenza del commercio: più precisamente, dal commercio legato alle esigenze quotidiane della vita degli abitanti di quel quartiere o di quel settore urbano. Le piazze sono state luoghi di incontro, di convivenza, di confronto e scambio anche per la presenza dei negozi d’uso comune e corrente. E le gerarchie tra i diversi spazi pubblici (e le diverse zone della città) era legata anche alle gerarchie tra le merci offerte: quelle più rare e più pregiate caratterizzavano le parti più importanti della città.

A un certo momento tutto ciò è cambiato. Da un lato, il consumo ha perso sempre più il contatto con le esigenze reali delle persone ed è diventato consumo artificioso, consumo del superfluo, consumo opulento, indotto non dal bisogno dell’uomo ma da un apparato che ne ha fatto una variabile dipendente della produzione. Dall’altro lato, grazie alle tecniche della distribuzione di massa, finalizzate a smerciare una quantità sempre più ampia di prodotti, si è riusciti a praticare prezzi fortemente competitivi non solo per le merci dell’opulenza, ma anche per quelle della vita quotidiana.

Così, prima i grandi supermercati e ipermercati, poi gli outlet, i mall, i grandi centri commerciali si sono localizzati in aree sempre più periferiche e hanno aspirato dalla città grandissima parte della vendita dei beni d’uso quotidiano: hanno provocato la morte del piccolo commercio (del fornaio e del droghiere, del salumaio e del fruttivendolo e, analogamente, dello stagnino e dell’elettricista, del ciabattino e del falegname). A questo processo un altro si è accompagnato. La spinta al consumo opulento ha fatto sì che i locali del commercio tradizionale si riempissero di una serie di altri commerci: non più legati alle necessità quotidiane degli abitanti, ma provocati da una strategia tendente a moltiplicare all’infinito lo smercio di quei prodotti, uguali in tutto il mondo, che caratterizzano il consumo opulento.

A questo complesso di problemi si riferivano recentemente sia Paolo Berdini sul manifesto che Renato Nicolini su Repubblica: entrambi il 23 gennaio, entrambi ripresi su eddyburg. Berdini osservava come a Roma i negozi di vicinato stiano “chiudendo uno dopo l’altro, perché la concezione liberista della città ha consentito che aprissero in otto anni ventotto giganteschi centri commerciali, oltre i quattro che già esistevano” e ricorda che “stime prudenti parlano della chiusura a breve termine di oltre tremila negozi di vicinato: ecco i motivi del deserto urbano” che genera, o favorisce, violenza e sopraffazione. E Nicolini, dopo aver constatato che “lo spazio pubblico, lo spazio di tutti, della polis, dei valori condivisi e della politica, sembra essersi improvvisamente ristretto”, domanda: “perché non reintrodurre almeno - partendo da zone come Campo de’ Fiori - il controllo delle destinazioni d’uso sostenibili? Qualcosa di analogo ai vecchi piani del commercio, che Rutelli abolì negli anni Novanta, senza pensare di aprire la strada alla trasformazione del centro in uno shopping mall a cielo aperto, con bar e ristoranti”.

Il fatto è che l’urbanistica (quella largamente praticata dalla maggioranza dei professionisti e insegnata nella maggioranza delle università) ha tralasciato di cercare e praticare le connessioni tra l’obiettivo sociale e le possibilità della pianificazione. E al tempo stesso ha trascurato di criticare il modo nuovo in cui il pensiero dominante affrontava quelle connessioni. Abbandonare il commercio (e l’insieme del futuro della città) alla forza apparentemente cieca e neutrale del “Mercato” provoca proprio ciò che è ogni giorno sotto i nostri occhi: l’abbandono delle piazze delle città (là dove esistono) da parte delle attività vitali e la concentrazione del commercio in quegli scatoloni, o quelle finte città (quelle scimmie di città) che il “Mercato”, dominato dalle multinazionali, erige, celebrando la riduzione del cittadino a consumatore e l’apoteosi della società opulenta (in quell’universo sempre più ristretto che si chiama Nord del mondo).

Ha ragione Nicolini: bisogna afferrare di nuovo gli strumenti dell’urbanistica. Il primo si chiama: governare le trasformazioni – ogni trasformazione – in vista di obiettivi sociali espliciti, nella consapevolezze che le trasformazioni della città agiscono su quelli della società. Il controllo delle utilizzazioni degli spazi è uno strumento essenziale per raggiungere un obiettivo sociale; e chi, avendo il potere e il sapere per adoperarlo dichiara l’impossibilità di farlo, di fatto lascia che siano i padroni del mercato, utilizzando gli ascari di una politica ridotta ad ancella dell’economia data, a decidere come le città e i territori si trasformano.

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