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Maurizio Giufrè
Metropoli indistinte - il territorio nella morsa del mercato
26 Luglio 2008
La domanda, a partire dall'analisi di Osmont, è sensata, ma i testi citati non sembrano rispondere a tono. Il manifesto, 25 luglio 2008

È possibile estendere anche ai centri italiani la definizione di città «neoliberiste» nell'accezione indicata da Annik Osmont nel suo saggio La ville du néo-libéralisme (pubblicato nel 2006, in «Cahier Voltaire: la Ville à l'épreuve du libéralisme», e tradotto nel sito eddyburg.it)? Sembrerebbe proprio di sì, se consideriamo l'importanza assunta dal mercato come regolatore dello sviluppo di intere aree urbane e la competitività che si è innescata tra le città per essere appetibili agli investitori finanziari. L'ideologia della città neoliberista si propaga nel nostro paese con l'aggravante di un debole governo del territorio. Così, là dove arretra il pubblico e si disimpegnano risorse per affinare tecniche, saperi e procedure per uno sviluppo coerente della città, si limitano se non si cancellano i «diritti urbani» e avanza l'insicurezza sociale.

Interessi particolari

Come ricorda Osmont, i modelli neoliberisti si sono ormai conformati - superata la fase sperimentale applicata alle città dei paesi in via di sviluppo - alle specificità di quelli occidentali, al loro grado di emancipazione e complessità. La città e il territorio italiano, forse più di altri, sono stati sottomessi all'interesse particolare e a ogni forma di individualismo. Cosa è rimasto del governo pubblico, della capacità di trasformare la realtà urbana secondo regole di interesse generale? Analizzando alcuni casi italiani (Pescara, Sottomarina, Roma, Torino), Cristina Bianchetti ha osservato che la sfera pubblica si è ormai «prosciugata come un lago in secca» (Urbanistica e sfera pubblica, Donzelli, pp. 169, euro 25). Per contrastare l'avanzare dell'ideologia neoliberista, l'urbanista - indebolito nella sua capacità di «forgiare sensibilità e pensiero» riguardo alle trasformazioni della città - non può far altro che «curare» quelle poche «pozze» che si riformano. Un compito impegnativo, il solo praticabile. Davanti all'«afasia della parola» non resta che mettere in discussione il progetto urbanistico, ritornare agli aspetti dottrinari e mettere in discussione, con metodi interdisciplinari, concetti quali società, politica, economica, committenza pubblica e mercato.

È quindi necessario ragionare sui nuovi modelli culturali relativi alla pianificazione, alla salvaguardia ed estensione dei diritti, all'economia delle aree urbane. Da qualche tempo, infatti, si discute di crisi dell'urbanistica, o meglio delle capacità degli strumenti della programmazione e della pianificazione di incidere realmente.

Ai dispositivi di progettazione e attuazione del piano seguendo le regole del government (secondo le quali i processi di trasformazione urbana vanno diretti in base a una organizzazione politica gerarchica che va dal centro alla periferia, dalla città al territorio) si sono sostituite quelle della governance: pratiche che si vorrebbero più flessibili, aperte al confronto pubblico-privato, partecipative e negoziali, più coerenti, quindi, per risolvere le numerose questioni urbane.

La comparsa, infatti, di nuovi attori e interessi hanno comportato una serie di cambiamenti che hanno generato di conseguenza una diversa organizzazione dei processi politici decisionali, e quindi una modifica delle culture urbane. Non a caso il tema del cambiamento è al centro dei diversi interventi di urbanisti e amministratori anche dell'ultimo Rapporto dal Territorio 2007 dell'Istituto Nazionale di Urbanistica (Inu Edizioni, pp 406, euro 35).

Verso nuove città

Nel presentare il Rapporto, Federico Oliva scrive: «La città italiana si è profondamente modificata, a causa, soprattutto, del processo di metropolizzazione in atto: la tradizionale dimensione amministrativa non corrisponde più a quella geografica e la maggior parte della popolazione vive ormai in una "nuova città" sempre più estesa». Le soluzioni che impongono le «nuove città» non potranno mai risiedere nelle semplificazioni estetizzanti dell'architettura contemporanea, orientata in modo esasperato ad assecondare le richieste dell'investimento immobiliare ammantandolo di socialità e partecipazione. La più adeguata composizione degli spazi urbani dovrà, piuttosto, misurarsi con i nuovi strumenti strutturali di «area vasta». È dal confronto urgente con la dimensione territoriale delle infrastrutture, vale a dire della mobilità collettiva e dei nuovi insediamenti per l'edilizia abitativa e del terziario, che forse si potrà porre argine al drammatico consumo del suolo riqualificando tanto le periferie urbane come le aree industriali centrali nella città, ancora disponibili un po' dovunque.

La pianificazione urbanistica da sola, però, sarà insufficiente a risolvere i conflitti e le odierne contraddizioni se non verrà supportata da adeguate politiche sociali realizzate grazie all'interazione delle amministrazioni locali e dello Stato, con il contributo delle discipline rivolte allo studio delle questioni urbane. Non sappiamo se il dibattito sulla «Legge sui principi generali del Governo del Territorio» - anche una volta approvata - saprà invertire l'egemonia neoliberista in corso nelle nostre città come auspica l'Inu. A oggi sono in molti a nutrire perplessità sul cambiamento dello stato attuale delle cose, anche se Giuseppe Campos Venuti nel Rapporto continua a sostenere la svolta riformista, quella compiuta da diverse Regioni che hanno adottato leggi che modificano il regime urbanistico: dal diritto dei suoli alle norme di piano.

Una struttura caotica

Critico da questo punto di vista è anche Giuseppe Boatti. Da circa vent'anni sostiene la priorità dell'intervento di una pianificazione a grande scala, ma oggi non può che constatare come dopo il generale entusiasmo, intorno alla seconda metà degli anni Settanta, nella sperimentazione del cosiddetto governo intermedio del territorio (quello dei comprensori) sia sopraggiunto il rapido abbandono da parte di tutte le Regioni che l'avevano introdotto. Nel suo recente saggio L'Italia dei sistemi urbani (Electa, pp. 207, euro 40) Boatti si propone di decifrare dall'interno la realtà urbana del nostro paese. Pur condividendo l'affermazione che «la struttura insediativa è ormai a tutti gli effetti divenuta completamente caotica», lo studioso ritiene, comunque, che questa debba essere definita nella sua complessità.

D'altronde la «lezione europea» dimostra come questo problema sia stato affrontato da decenni in metropoli come Parigi o Londra. Lì un'efficace politica della pianificazione ha assicurato una crescita razionale e coerente integrando i sistemi insediativi con un'adeguata rete di trasporti pubblici e mitigando l'espansione urbana con la distribuzione di ampie aree dedicate a parchi urbani e giardini. Nel resto d'Europa lo sprawl urbano è stato governato con strategie innovative. I casi meno noti di città quali Lione e Francoforte citati da Boatti sono esemplari per farci intendere che in quelle regioni europee un solo piano di area vasta governa la gestione del suolo di intere comunità. Se nella provincia di Milano per circa duemila kmq sono adottati 189 piani comunali la pianificazione dell'hinterland francofortese, che si estende su un'area di circa venticinquemila kmq, è assegnata a un unico strumento di pianificazione unitaria (Planungsverband).

È questa la ragione per cui anche da noi occorre partire dall'individuazione dai confini dell'espansione disordinata della città, che sembra non rispondere ad alcun principio ordinatore, approntando di conseguenza strumenti urbanistici innovativi. Evitare un simile compito ridimensiona banalmente il problema della città alla progettazione di piccoli o grandi insediamenti, quelli preferiti dalla rendita immobiliare che vive dell'attuale «depotenziamento della pianificazione». Boatti non crede nella «insondabilità» del nostro caos urbanistico e procede con un metodo antico: analizza e aggrega i dati statistici dei flussi materiali - merci e persone - per poi farli interagire nella scala geografico-territoriale. Le aree metropolitane, così come i vasti spazi del nostro territorio, non sono per nulla qualcosa di incomprensibile e «infinito».

Ciò che andrebbe definito al contrario sono le «indistinte formule di governance» all'italiana che con il separare le decisioni dall'organizzazione del consenso perpetuano l'ambiguo legame tra poteri politici-istituzionali e gli interessi dei grandi gruppi economico-finanziari. È in questa situazione che consolidano la loro posizione gli attori della città neoliberista.

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