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Eddytoriale 116 (17 luglio 2008)
17 Luglio 2008
Eddytoriali 2008-2009

Due obiettivi, due pratiche che costituiscono un dispositivo con pericolosi elementi di trasversalità partitica, testimoniata se non altro dall’indifferenza con la quale le opposizioni guardano a ciò che sta accadendo.

Sul terreno delle norme nazionali, nella XIV legislatura si era riusciti a fermare la Legge Lupi; nella XV si stava approdando a un risultato condiviso e convincente, la XVI appare come quella che rende concreti – surrettiziamente – i progetti di sregolazione del territorio e privatizzazione dei beni pubblici teorizzato e avviato in Lombardia e abbracciato dal neoliberalismo all’italiana.

Sul terreno dell’azione politica e amministrativa le regioni sembrano scivolare, in forme diverse ma confluenti, verso le pratiche sregolative e privatizzatrici; tentano di strappare allo Stato pezzi di autonomia e poi la subdelegano ai comuni o, nei casi peggiori, alle imprese, rinunciando comunque ad esprimere i propri interessi territoriali mediante la pianificazione. Le province boccheggiano tra l’abulia e l’attesa del loro scioglimento. I comuni sono abbandonati alla contraddizione tra lo strangolamento finanziario e le aspettative della popolazione in materia di welfare, oggettivamente sollecitati a svendere il territorio agli interessi della rendita per ottenere un po’ d’ossigeno..

Sul terreno della cultura l’accademia di affanna a conservare i propri privilegi e gli esperti si occupano d’altro.

Naturalmente, in tutti i campi, salvo rare eccezioni. Ma su tutto grava la pesante nuvola di un’ideologia, largamente condivisa, che vede nella crescita del PIL l’unica speranza di salvezza e nel mercato l’unico regolatore di ogni attività sociale.

Soffermiamoci su un evento, pernicioso di per se e tappa di un processo in corso: il decreto legge 112 del 25 giugno 2008, che nel pieno delle ferie agostane dovrà essere ratificato dal Parlamento. Il titolo è “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”. Quattro articoli almeno incidono pesantemente sul territorio e sui beni comuni. Siamo stati i soli a segnalarli, ma l’eco è stata debolissima. Riassumiamo i contenuti.

Il patrimonio di edilizia abitativa degli istituti delle case popolari deve essere venduto a prezzi stracciati: prioritariamente agli attuali inquilini, ma poi sul mercato libero (articolo 13).

Comuni, province e regioni sono stimolati a redigere il Piano delle valorizzazioni immobiliari: per sopperire alle decrescenti risorse concesse dalla fiscalità statale sono sollecitati a vendere suoli ed edifici, modificando le destinazioni d’uso se serve ad accrescerne il valore di mercato: naturalmente, in deroga alla pianificazione urbanistica (articolo 58).

Ma le deroghe sono ancora più consistenti per interventi ancora più suscettibili di indurre trasformazioni sull’assetto delle città e dei territori: la norma che a suo tempo tentò di introdurre l’on. Capezzone quando militava nel centro-sinistra, e che era stata fortunatamente bloccata in extremis, viene riproposta ora che l’on. Capezzone ha mutato schieramento, ma ancora peggiorata: chi vuole costruire una fabbrica o un albergo – o una pluralità di fabbriche e di alberghi – su una parte del territorio dove la pianificazione urbanistica prevede altre utilizzazioni, e dmagari la presenza di beni culturali e paesaggistici e le condizioni di rischio prescrivano tutele, può farlo con procedure acceleratissime e senza praticamente la possibilità di interferire nel processo della decisione, sostanzialmente affidata all’autocertificazione (articolo 38).

Ulteriori deroghe e ulteriori trasferimenti di risorse dal pubblico al privato promuove il “piano casa”: per realizzare edilizia sociale i comuni sono sollecitati a cedere suoli (magari destinati a spazi pubblici o al verde o all’agricoltura) a imprese private che si impegnino a realizzare edilizia residenziale da assegnare a determinate categorie di utenti a prezzi concordati; trascorso un decennio, entreranno in pieno possesso degli immobili realizzati sulle aree, con le edificabilità e le risorse finanziarie della collettività (articolo 11).

È lo stravolgimento di regole, procedure e pratiche che furono avviate nell’ambito dello stato liberale tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, con i primi piani regolatori, gli espropri per pubblica utilità, la realizzazione di edilizia residenziale pubblica, i primi vagiti della tutela de beni culturali e del paesaggio. L’evoluzione proseguì nell’epoca fascista, con l’ampliamento degli interventi di edilizia sociale, le leggi di tutela dei beni artistici e storici e del paesaggio, una più matura disciplina urbanistica. Si sviluppò – conclusa la fase anch’essa per altri versi devastatrice della ricostruzione postbellica – nel nuovo clima della democrazia popolare e di massa con il consolidamento e la generalizzazione della pianificazione urbanistica, un coerente dispositivo di intervento pubblico nell’edilizia abitativa finalizzato a soddisfare in modo differenziato le diverse fasce di esigenze, l’introduzione generalizzata delle tutele tra le componenti prioritarie dell’uso programmato del territorio.

Un’evoluzione che non aveva condotto ancora a un quadro privo di contraddizioni e di carenze. Non era stato risolto il nodo dell’appropriazione privata delle rendite causate dalle scelte e dagli investimenti pubblici: solo limitatamente e temporaneamente si era riusciti a incidere su di esso, con l’estensione delle aree destinate a essere rese pubbliche per la realizzazione della residenza (1962) e di spazi pubblici (1967). Si erano comunque tenuti fermi, e anzi consolidati, due cardini: il primato delle decisioni e degli interessi pubblici nel governo delle trasformazioni del territorio e nella garanzia di una sua visione sistemica, la presenza e l’allargamento di una quota del patrimonio immobiliare di proprietà collettiva. Sono questi due cardini che la politica urbanistica promossa del governo Berlusconi IV sta precipitosamente smantellando.

Chi può opporsi? In teoria molti soggetti.

In primo luogo i partiti dell’opposizione, dentro e fuori il Parlamento. Ma di tutto sembrano occuparsi, salvo che dello stato delle città e del territorio, e quindi della vita della società attuale e futura.

Poi gli altri livelli delle istituzioni repubblicane: le regioni, le province, i comuni, cui è affidata gran parte della gestione di quelle norme eversive che abbiamo segnalato. Ma essi, salvo rarissime eccezioni, sembrano affannarsi nel tentativo di impadronirsi delle briciole di uno “sviluppo” che, a voler essere ottimisti, non porta lontano (e a essere realisti porta alle catstrofi).

Resterebbe il popolo, ma questo è in largissimo misura conquistato dall’ideologia dominante (che in Italia ha rivelato perfino pesanti risvolti razzisti), propagandata da quel potentissimo strumento di formazione del pensiero che è il duopolio Mediaset-Rai (in ordine d’importanza). Quando esprime la sua protesta, la mancanza di risposte da parte della politica lo induce a gettarsi nella sterilità dell’antipolitica.

Per chi ha conservato lucidità e spirito critico, per chi non si è lasciato conquistare dall’ideologia corrente e ha conservato la memoria, o la speranza, d’una città e una società più giusta, l’imperativo è uno soltanto: resistere. Come però? Si deve sviluppare un’inventiva durevole, e si deve manifestare uno spirito pratico alimentato dalla consapevolezza della posta in gioco e dalla disponibilità a pagare qualche prezzo di persona.

Intanto bisogna convincersi che non ci si salva da soli. Nessuna associazione, nessun gruppo, nessun comitato o aggregazione di comitati, di gruppi, di associazioni si può salvare da solo e può salvare da solo il territorio dalla devastazione in corso. Occorre abituarsi a lavorare insieme, a superare ogni residuo di pratiche egoistiche o corporative.

Ci sembrano urgenti due piani di lavoro: la comunicazione, il monitoraggio della legislazione.

Sul primo punto bisogna tener conto che l’impoverimento del linguaggio, la distrazione dei media, la scarsa cultura specifica dei decisori e dei comunicatori, la stessa complessità del glossario degli operatori del territorio (in primis degli urbanisti) richiede di compiere uno sforzo notevole di semplificazione del linguaggio, di esemplificazione pratica degli effetti delle scelte sbagliare e di quelle virtuose. Su questa base bisogna fare ogni sforzo per raggiungere l’opinione pubblica utilizzando gli strumenti più adatti a questo scopo.

Sul secondo punto, bisogna in qualche modo sopperire al lavoro che una volta facevano i partiti di massa, che oggi si potrebbe attendere dal “governo ombra”, ma che in realtà nessuno compie: monitorare il processo di produzione delle leggi in materia, divulgare la conoscenza e la valutazione dei loro contenuti ed effetti, aiutare ad opporsi e a gestirle quando entrino in vigore.

Parallelamente a tutto ciò, bisogna impegnarsi – in primo luogo chi dispone degli strumenti idonei allo scopo – a risvegliare nelle persone lo spirito critico, la capacità di leggere dietro le parole correnti e le loro mistificazioni. Come ha scritto Franco Cordero, nel suo articolo su la Repubblica di oggi, “nell’Italia rieducata da Mediaset parola e pensiero sono drasticamente ridotti: circola un italiano «basic», vocaboli combinati in sintagmi che l’utente trova prêts-à-dire, senza fatica mentale; glieli forniscono speaker, giornali, politicanti”. Come ha detto Moni Ovadia, nel suo bellissimo intervento alla manifestazione del 7 luglio a Piazza Navona (qui sotto potete scaricare l’audiovisivo), “la perversione comincia dal linguaggio”. Dobbiamo innanzitutto riappropriarci delle parole, costruire il senso di un’alternativa all’ideologia dominante.

Sul decreto 112/2008 abbiamo pubblicato un articolo di Edoardo Salzano, Continua il grande furto, uno di Giuseppe Palermo, Un decreto legge devastante, e uno di Gianfranco Cerea, Una casa popolare ma non per tutti, da Lavoce.info, con una postilla di eddyburg. In calce potete scaricare gli articoli 11, 13, 38 e 58 del decreto legge.

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