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Edoardo Salzano
20040403 Tre film. Pagine della nostra storia
3 Luglio 2008
Interventi e relazioni
Il testo dell'intervento che ho svolto alla manifestazione della Compagnia dei Celestini "C'è una città. Nessuno si senta escluso". Bologna, 3 aprile 2004

I film che abbiamo visto, nella postazione fuori dalla sala e qui dentro, ci danno molti elementi per comprendere un momento della nostra storia che è stato decisivo: la fase della ricostruzione del paese dopo la fine della guerra e la sconfitta del nazismo e del fascismo.

Molti elementi, non tutti. Alcuni li dobbiamo aggiungere noi, utilizzando qualcosa che abbiamo appreso dai libri e dai giornali e – i più vecchi di noi - la memoria personale.

Abbiamo visto - nella pellicola “Cronache dell’urbanistica italiana”, sceneggiata da Carlo Doglio e girata per la regia di Nicolò Ferrari - qual’era la situazione di miseria e di arretratezza del nostro paese, dopo la guerra e – soprattutto – dopo il ventennio fascista.

Le immagini e le parole sulle campagne, sul Mezzogiorno, sui paesi arroccati sulle montagne e sulle colline o dispersi nei latifondi e sul loro isolamento e il loro abbandono, sulla mancanza d’acqua in vaste zone del paese, sui metodi arcaici dell’agricoltura dove uomo e animale quasi si scambiano i ruoli – tutto questo ce lo hanno raccontato.

Abbiamo visto la complessità e l’impegno del grande sforzo di ricostruire su basi diverse – modernizzando ma senza rompere il tessuto tradizionale di solidarietà sociale – un paese diventato vecchio, e dissanguato dai conati imperialisti del regime di quel tempo. Le immagini e le parole sull’esperienza dei nuovi borghi rurali della Basilicata (in primo luogo la Martella) e quelle sulla riforma agraria, ne hanno dato immagini ed episodi.

Non abbiamo visto però, se non marginalmente, il motore di quella tentativo di cambiare l’Italia, riscattando dalla miseria, dall’abbandono, dalla sete, dall’ignoranza, dalla sottoccupazione endemica masse sterminate di abitanti delle campagne, delle zone interne, del Sud.

Non abbiamo visto l’epopea dell’impegno collettivo - immane, generoso, spesso punito nel sangue - delle lotte sindacali e contadine: l’impegno dell’ intero movimento sindacale e operaio italiano.

Un impegno unitario, pienamente nazionale, teso a liberare il Mezzogiorno e le campagne dall’arretratezza e dalla miseria.

Un impegno unitario e nazionale che trovò la sua espressione - più che il suo simbolo - nel fatto che un uomo del mondo bracciantile del Sud, un uomo di Cerignola, in terra di Puglia, Giuseppe Di Vittorio, diventasse negli anni difficili del dopoguerra e della ricostruzione il più grande leader dell’intero movimento sindacale italiano.

Ma si sa, dodici minuti di pellicola non possono raccontare tutto. Io però voglio sottolineare il nesso tra

- processo di riforma (di riforme strutturali, quali erano quelle per cui si lottava allora, non di riforme elettorali e istituzionali, quali quelle di cui sciaguratamente ci si limita a parlare oggi) - tra processo di riforma e processo di rinnovamento delle basi della società da un lato,

- e movimenti e lotte di popolo dall’altro: movimenti e lotte guidati da una politica che era tesa, allora, a incidere sui meccanismi reali della società, e non solo sul gioco superficiale dei poteri.

Quel nesso che del resto è perfettamente individuato e sentito da Carlo Doglio – il generoso sociologo bolognese d’adozione, apostolo del riscatto della “povera gente” attraverso l’intreccio tra pratiche sociali e pratiche urbanistiche – negli ultimi fotogrammi del film.

Doglio individua con molta precisione il nocciolo dei valori che la storia sociale ha depositato nella città e che non devono essere perduti, dei valori che nella città moderna (anche quella disegnata con le migliori intenzioni) rischiano invece d’essere smarriti.

Avete visto le immagini dei casermoni anonimi e tristi, dei quartieri recintati e chiusi, degli insediamenti nei quali i bambini venuti in città dalle campagne non sanno dove giocare. E avete visto, per converso, come quel popolo, quei cittadini vivessero prima nei paesi “poveri ma accoglienti” – dice il film - , dove le piazze, gli spazi pubblici erano i luoghi nei quali la comunità si riconosceva come tale, e l’uomo si sentiva parte di una società.

Insomma, il ruolo degli spazi pubblici come vera cerniera tra l’ uomo sociale e la città umana Carlo Doglio l’aveva colta quasi cinquant’anni prima della Compagnia dei Celestini.

Alcune immagini mi hanno particolarmente colpito. Nei nuovi borghi della riforma incompiuta gli uomini, la sera, in assenza di spazi comuni, prendono il cavallo o la motoretta e vanno al vecchio paese, dove trovano gli amici, l’osteria – e magari la casa del popolo. E nel borgo le donne rimangono sole: gli spazi comuni sono lontano dalle abitazioni, e le donne rimangono nella loro solitudine casalinga.

Le donne, la condizione delle donne: accorgersi di questa servitù e di questa esigenza di riscatto in quegli anni significava davvero saper guardare bene addentro alla società del tempo e ai suoi disagi, e ben avanti nel tempo.

Sono dovuti passare quasi tre lustri prima che la consapevolezza evocata da Doglio diventasse norma e strumento. Mi riferisco al decreto per gli standard del 1968 che impose di riservare, in tutti i piani urbanistici, determinate quantità di spazi pubblici e d’uso pubblico in ragione del numero dei cittadini previsti.

E poiché parliamo di questo, di quella regola e di quello strumento che noi tecnici chiamiamo gli standard urbanistici – e poiché poi ho sottolineato il ruolo delle forze sociali, della spinta del popolo organizzato, per ottenere i cambiamenti nella società e nella città, voglio parlarvi di un libriccino che ho riscoperto qualche giorno fa. E’ una storia della quale i film di De Carlo e Doglio non potevano dar conto, perché è avvenuta dopo: sebbene – l’ho appena detto – nei loro lavori ce n’erano i germi e – per così dire – l’attesa.

Il libriccino che ho ritrovato raccoglie gli atti di un convegno sul tema “Obbligatorietà della programmazione dei servizi sociali in un nuovo assetto urbanistico”, organizzato dall’UDI (Unione Donne Italiane), a Roma, il 21-22 marzo 1964. Di quel libriccino, stampato ma fuori commercio e fuori dalle biblioteche universitarie, mi hanno colpito due cose che hanno a che fare con questa manifestazione.

La prima: quattro anni prima che gli urbanisti riuscissero a far diventare legge dello Stato la loro richiesta che anche in Italia - come negli altri paesi europei – ci fossero aree in misura adeguata per le esigenze della collettività (asili nido e scuole, campi sportivi e palestre, biblioteche pubbliche e ambulatori, piazze e giardini), quattro anni primi una grande organizzazione di massa aveva organizzato e svolto una vasta campagna di mobilitazione dell’opinione pubblica, aveva raccolto migliaia di firme in calce a una proposta di legge d’iniziativa popolare, e aveva posto al centro della sua iniziativa un convegno di studi. Quel lavoro ebbe uno sbocco, se quattro anni dopo la rivendicazione di più spazi per le cittadine e i cittadini diventò legge.

(E’ vero, l’elemento scatenante perché si arrivasse alla “legge ponte urbanistica” e al decreto sugli standard fu la frana di Agrigento e lo scandalo che quell’evento rivelò. Furono provvedimenti dettati dall’emergenza. Ma una volta tanto il movimento popolare che si era determinato indusse il legislatore a rispondere all’emergenza con un intervento strutturale).

La seconda cosa che in quel libricino mi ha colpito. A quel convegno due delle quattro relazioni fondamentali furono svolte da due urbanisti già allora famosi – due uomini cui l’urbanistica italiana deve moltissimo, Giovanni Astengo ed Edoardo Detti.

Due figure di rilievo, nelle cui vite l’attività professionale e l’attività politica si erano sempre strettamente intrecciate, ed entrambe avevano alimentato un loro ruolo importante nell’attività di direzione culturale – in particolare, nel’Istituto Nazionale di Urbanistica di cui Astengo era il portavoce e Detti divenne il Presidente in anni difficili.

Non era la concertazione con gli interessi forti che cercavano allora gli urbanisti.

Non era la pretesa di far sedere gli interessi immobiliari al tavolo delle decisioni che stimolava gli urbanisti a cercare nuove soluzioni legislative.

Non era lo sforzo di perequare gli interessi dei proprietari fondiari che li affaticava.

Ciò che invece li impegnava

- era lo sforzo di soddisfare le esigenze della vita sociale delle donne e degli uomini, di dare risposta alle domande che salivano dai settori avanzati del popolo,

- era la ricerca di soluzioni che, nell’organizzazione della città, riducessero la sperequazione – quella sì ingiusta, e da assumere come avversario! – tra chi ha un’area e diventa straricco se ottiene di edificarla, e chi – come tante donne, tanti bambini, tanti uomini, come la Compagnia dei Celestini nel libr di Benni – cerca uno spazio per giocare, per crescere, per diventare comunità.

Ho parlato fino adesso soprattutto di uno dei film che abbiamo visto: quello intitolato “Cronache dell’urbanistica italiana”, sceneggiato da Carlo Doglio e girato sotto la regia di Nicolò Ferrari. E ripensando al titolo mi colpisce – mi sembra tanto lontano dall’oggi – che urbanistica significava, per quegli uomini, cose un po’ diverse da quello che sembra oggi.

Significava occuparsi

- delle trasformazioni economiche e sociali del paese,

- dei diritti concreti delle masse diseredate,

- del benessere dei lavoratori e delle componenti più deboli della popolazione: le donne, i bambini, i contadini emigrati nella città, gli abitanti dei tuguri e delle baraccopoli – di quei campi di concentramento nelle lontane periferie delle città che ci ricordano quelli dove, da decine di anni, vivono sull’altra sponda del Mediterraneo centinaia di migliaia di palestinesi.

E’ una faccia del paese, e della storia italiana di quegli anni, che Doglio richiama alla nostra memoria: la faccia della sorgente (il Mezzogiorno, i campi, le zone interne collinari e montuose) di quella grande, e impetuosa, e largamente sregolata trasformazione dell’Italia, da paese prevalentemente agricolo e rurale, a paese prevalentemente industriale e cittadino.

Una trasformazione largamente sregolata, che provocò danni e disastri - umani sociali economici e territoriali - di cui molte generazioni pagheranno il prezzo.

Perché non fu raccolta, in quegli anni, l’esortazione che – nell’interesse comune – veniva da quei brevi messaggi cinematografici: si ricostruisca il paese mediante la pianificazione. Il film di Doglio si conclude proprio con queste parole: “La ricostruzione diventi pianificazione urbanistica, strumento di tutti e non arma di pochi”.

L’altro film che abbiamo visto or ora anche in questa sala, quello dal titolo “La città degli uomini”, sceneggiato da Giancarlo De Carlo e da Elio Vittorini, diretto da Michele Gandin, rivela un’altra faccia dell’Italia di quegli anni – e, per tante ragioni, anche dei nostri anni. Protagonista è la città, “la città degli uomini”.

Anche lì, la sensazione piena che la città non è solo le case e le strade, è anche gliuomini che la abitano e vi lavorano. E, soprattutto, è per gli uomini.

Un antico brocardo medievale proclamava: “L’aria della città rende liberi”. Si riferiva evidentemente a quel periodo lungo e fondativo della storia della città in Europa nel quale la città, amministrata da una borghesia che ospitava nelle sue fabbriche uomini liberi da balzelli e legami feudali, e perciò era disposta a vendere liberamente la propria forza di lavoro - torme di contadini cacciati dalla miseria, dalle angherie dei signore e dei suoi sgherri, dalle pestilenze- affluiva nei luoghi della libertà.

Nei luoghi nei quali diritti comuni e consumi comuni legavano gli uomini in un’unica cittadinanza, un’unicà società – solidale nelle sue elementari regole di convivenza.

Giancarlo De Carlo ed Elio Vittorini sottolineano come, fin dai tempi più remoti, “costruimmo la città per stare insieme”. E affermano – proprio all’inizio del film – che da “Babilonia a New York” (due città oggi unite da eventi orrendi), dall’uno Evo all’altro, due sono state le ragioni che hanno sollecitato gli uomini a stare insieme nelle città: il bisogno e la lotta per la sua soddisfazione, la libertà e la lotta per la libertà.

Da sempre, insomma, la città è il luogo dell’appagamento e della dialettica. Ma poi, nella lunga storia dell’uomo, qualcosa deve essere accaduto che ha minacciato di tramutare il bene in male, che ha tramutato l’appagamento in solitudine e la dialettica in caos.

Il film – lo avete visto e sentito - ha un lungo avvio costruito con i ritmi della città. Ritmi sonori e ritmi visuali: i clacson delle automobili e l’ossessiva ripetizione delle finestre. I telefoni, le macchine da scrivere, le sirene delle ambulanze e quelle delle fabbriche.

Oggi, la città è – dice De Carlo- ”un ritmo che attrae e disorienta”. Luogo della libertà possibile, e luogo dell’alienazione. Luogo della folla e luogo della solitudine.

Agghiaccianti, indimenticabili alcune delle sequenze del film.

La sequenza che segue la lunga attesa nelle macchine, l’uomo investito. L’ambulanza, la folla, la traccia di gesso sull’asfalto che ricorda l’uomo che non è più, le ruote dell’automobile che ne calpestano la memoria. Il commento: “Un uomo che muore non è che un incidente”.

La sequenza della lunga smisurata serie di uomini visti di schiena, nutrirsi faccia al muro sullo stretto banco del self service. Il commento: “Nutrirsi non è più una festa comune”.

E la sequenza della lunghissima, insopportabilmente lunga passeggiata della donna distrutta, interiormente devastata quanto esteriormente normale e quasi accattivante. Una donna sola e disperata, che cammina tra la folla assente, estranea, lontana. Il commento: “Non vediamo chi ci passa accanto disperato”.

A me, a dire il vero, di questo film è sembrata più forte la critica alla città d’oggi – alla città come cominciava a configurarsi in quegli anni – che la sottolineatura degli elementi positivi. E quando li vediamo, essi ci rinviano quasi tutti alla dimensione comunitaria.

E’ così quando il film richiama alla città come il luogo nel quale si svolge la “lotta per accrescere la libertà, e le immagini sono quelle della fabbrica e di uno sciopero operaio.

E’ così quando il film definisce, tra le positività della condizione urbana, la “possibilità inesauribile di comunicare”, le immagini sono quelle, bellissime, nutrite di echi di René Clair e di Cesare Zavattini, delle case a ballatoio dell’area milanese, dove nelle lunghe vie esterne che danno accesso agli alloggi si svolge una vita che è, a un tempo, individuale e sociale: sull’uscio di casa, e insieme sulla pubblica via. Come era fino a pochi anni fa nelle calli di Venezia o nei vicoli del Mercato a Napoli – o, se volete, negli spazi pubblici dei PEEP meglio riusciti, come quello di Giancarlo De Carlo.

Quei film furono girati, nel 1954, con la speranza che fossero proiettati nelle sale commerciali seguendo i film della programmazione normale. Il loro obiettivo non era quello di farne dei documenti d’archivio, o dei testi multimediali adatti a nutrire le aule universitarie e le carriere accademiche.

Il loro obiettivo era quello stesso della Compagnia dei Celestini: aiutare le cittadine e i cittadini a comprendere

- che il miglioramento delle loro condizioni di vita, materiali e morali, passa attraverso la conoscenza di meccanismi complessi che governano il loro destino,

- che essi hanno – in un regime democratico, quale quello che è stato conquistato all’Italia da una legione di martiri – il diritto e quindi anche il dovere di intervenire su quei meccanismi, per ottenere che le ruote girino a vantaggio del popolo e del suo futuro, e non a vantaggio dei padroni e della loro immediata ricchezza,

- che a questo fine essi, le cittadine e i cittadini, devono praticare l’urbanistica, la pianificazione, l’amministrazione della città, perché è attraverso questi strumenti che si cambia il futuro degli uomini: che si dà loro la possibilità di utilizzare le possibilità dello stare insieme, dell’esser diventati più ricchi, più consapevoli, più forti.

E in quei film c’è un insegnamento e un messaggio rivolto agli urbanisti, ai tecnici, a quelli come me e come molti di voi. Si fa effettivamente il proprio mestiere se ci si pone al servizio non di chi dà più soldi, ma di chi deve vivere la città.

Cercare e stimolare la partecipazione delle cittadine e dei cittadini non è qualcosa che si deve fare per ottenere gratificazione e popolarità, e neppure solo perché è un loro diritto. È qualcosa che si deve fare perché il nostro lavoro venga su bene, perché serva a ciò cui deve servire.

Oggi la situazione è certo più complicata di venti o cinquant’anni fa. Allora c’erano istituzioni, rappresentative dei cittadini (un po’ meno delle cittadine), che costituivano un riferimento sicuro.

Lo costituivano perché erano espressione di partiti e correnti politiche che rappresentavano grandi progetti di società, grandi e definiti sistemi di interessi e forze sociali, che si ponevano come generali: come capaci – magari in alternativa e in conflitto gl’uno con gli altri – di esprimere un futuro migliore per l’intiera società.

Le cose sono cambiate.

Se conoscere il passato e riflettere su di esso è utile per comprendere il presente e progettare il futuro, ogni rimpianto e ogni nostalgia servono solo a riscaldare qualche cuore senile.

Se abbiamo compreso che le cose sono cambiate, che non esiste più – o non esiste ancora - un circuito virtuoso tra popolo > partiti politici > istituzioni > urbanistica, allora credo che dobbiamo comprendere anche che occorre ricostruire quel circuito cominciando dal basso, dal popolo, dalle cittadine e i cittadini. Che la partecipazione (alla progettazione della città e alla progettazione della politica) è un compito di tutti, nel quale dobbiamo tutti sentirci impegnati.

Credo che è anche questo che hanno voluto fare, le amiche e gli amici della Compagnia dei Celestini (e se di Compagnia si tratta, possiamo chiamarli compagne e compagni) con questa bella manifestazione. Alla quale, spero, molte altre ne seguiranno.

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