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Paolo Cacciari
Le valli sono pubbliche, se ne occupi il parco
27 Giugno 2008
Terra, acqua, società
Qualcosa finalmente forse si muove, ma lunga è la strada da percorrere per restituire alla collettività ciò che è suo. Da Carta est nord, n.24, 28 giugno 2008

A sentir loro, ci sarebbe un gruppo di benefattori che per puro amore della laguna gestiscono in perdita una ventina di aziende faunistiche venatorie su 1.600 ettari di valli da pesca (bacini arginati con acque a livello controllato che coprono un terzo della intera laguna), con relativi “casoni”, “botti” da caccia, cavane. Si chiamano Zacchello, Andrea Riello, Vitaliano Rossi, Giuseppe Stefanel, Ferruzzi, Marzotto, Foscari Widman e altri fortunati. Panto, meno fortunato, si recava in valle in elicottero. Servono per incontri conviviali (Galan è un noto frequentatore) e spensierata vita familiare all’aria aperta. “Le valli non sono un guadagno, al massimo un blasone”, ha dichiarato il noto avvocato prof. Orsoni, dopo aver intascato le parcelle dai presunti “proprietari”.

Per sapere che le valli da pesca sono proprietà demaniale inalienabile basta leggere una delle tante ricerche storiche condotte fin dal dopoguerra. Da ultimo, in edicola si trova ancora una pubblicazione di Elvi Longhin, edita dalla Provincia di Venezia. Non solo la Serenissima Repubblica di Venezia, ma anche lo stato asburgico Lombardo-Veneto e il Regno d’Italia avevano ben delimitato le acque dalla terra ferma. Anche lo Stato repubblicano con una sentenza del tribunale superiore delle acque pubbliche del 1950 stabiliva intelligentemente che: “la laguna veneta costituisce un sistema idraulico unitario che non consente distinzioni tra le singole componenti le quali invece nel loro complesso organico dimostrano attitudine a fini di pubblico interesse di tutta la laguna nella sua interezza, comprese le valli costituenti la così detta laguna morta”. Gli studi scientifici sugli ecosistemi di transizione, sulle biocenosi e la biodiversità non hanno fatto che confermare l’unitarietà dell’ambiente lagunare. Infine la legge speciale per la salvaguardia di Venezia del 1973 imponeva una gestione del regime delle acque integrato anche nelle valli.

Come sia potuto accadere che le varie amministrazioni dello stato (Magistrato alle Acque in primis) abbiano nel corso degli anni chiuso tutti gli occhi di fronte a translazioni immobiliari e fondiarie del tutto illegittime fa parte del capitolo connivenze e mala-amministrazione pubblica.

Per contro, se le cose oggi finalmente sembrano prendere un verso diverso, il merito va riconosciuto ad uno sparuto gruppo di ambientalisti (Lega per l’Ambiente con Angelo Mancone, Natura Viva con Pino Sartori, Urbanistica Democratica con Giorgio Sarto, i Verdi con Michele Boato) che iniziarono una vertenza giudiziaria a fine anni ’80, guidati dagli studi di un appassionato funzionario provinciale del Lido, Sergio Sartori, e al tenace avvocato Luca Partesotti. Gli esposti furono presi sul serio da un integerrimo avvocato dello Stato, Michele Botta, che dopo alterne vicende sono giunti ora alla sentenza di secondo grado della Corte d’Appello, presieduta da Nicola Greco. Anche la causa penale è stata portata fino in Cassazione con l’accertamento della demanialità delle valli.

Insomma, finalmente, i tribunali hanno ristabilito un principio vitale per la Laguna. Gli attuali tenutari usurpatori – pur prosciolti in sede penale - sono chiamati a restituirle e a pagare le indennità di occupazione mai versate. Uno studio della Intendenza di Finanza di qualche anno fa aveva calcolato un risarcimento di 400 milioni di euro, più interessi. Ma di questo si occuperà il tribunale civile con separato giudizio.

Tutto bene, quindi? Una battaglia di giustizia e di salvaguardia dell’ambiente giunta a buon fine?

C’è da superare ancora il terzo grado in Corte suprema di Cassazione, ma soprattutto c’è la canea mediatica e politica sollevata dai signorotti “estromessi” dai lori fondi che chiede a gran voce una iniziativa legislativa a sanatoria. Vari deputati della destra avevano già tentato negli anni passati. E solo grazie ad una attenta interdizione era stato possibile impedire la ennesima alienazione di un bene pubblico. Le tesi a favore della privatizzazione si riferiscono al fatto che le pubbliche amministrazioni non sarebbero in grado di sostituirsi nella gestire delle valli con efficienza e criteri di conservazione ambientale. Alle istituzioni pubbliche mancherebbero i denari (anche se i potenziali produttivi della vallicoltura semintensiva non sembrano affatto irrisori) e soprattutto le capacità tecniche. Questo secondo punto è sicuramente vero. Le prove storicamente date dal magistrato alle Acque sono semplicemente disastrose. Del resto, al di là del nome magniloquente, si tratta di un ufficio periferico del Ministero alle infrastrutture (ex Lavori Pubblici), la cui vocazione è appaltare lavori al Consorzio privato di imprese Venezia Nuova.

Per trasformare questa vittoria giudiziaria in un reale passo avanti nella battaglia per la salvaguardia della laguna occorrerebbe un ente di gestione di scopo, con una missione specifica, come esistono in tutti gli ambienti con grandi valenze naturali in pericolo di degrado irreversibile. Servirebbe il Parco. Se fossimo in un paese a normale sensibilità civica e ambientale, la proclamazione della demanialità delle valli dovrebbe essere la molla per far scattare una iniziativa locale, delle associazioni, delle comunità dei residenti, dei Comuni, della Provincia, della Regione per rivendicare l’uso sociale e pubblico di una risorsa naturale, paesistica, economica che non ha pari al mondo. Una occasione unica. Ci sono esempi vicini (le valli polesane autogestite dalle cooperative di miticoltori) e lontani (il parco naturale delle Camargue sul delta del Rodano) che ci mostrano come si potrebbe fare. Anni fa la Giunta Galan non volle inserire le valli da pesca tra i beni dell’odiato stato centrale da trasferire alle regioni: gli amici non andavano disturbati. Né la Regione ha mai voluto rispettare le sue stesse leggi e istituire un parco della laguna. La legge nazionale sui parchi ha proprio nell’omissione della laguna di Venezia uno dei suoi punti più deboli. Del resto non mi pare che nemmeno la Provincia e i nove Comuni che si affacciano sulla laguna (Campagnalupia escluso, con i suoi ottimi esempi di valle Averto e valle Millecampi) abbiano alcuna intenzione di occuparsi dei loro beni pubblici. L’unica speranza è che associazioni e comitati così fortemente impegnati contro il Mose, il transito delle grandi navi e altre devastazioni turistico-industriali, sappiano anche occuparsi propositivamente delle inestimabili ricchezze che ancora contiene la laguna veneziana.

Paolo Cacciari

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