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Eddytoriale 89 (02.05.2006)
10 Giugno 2008
Eddytoriali 2006
1° maggio, Festa del lavoro. Una delle due date che Fausto Bertinotti, nel suo discorso d’investitura, ha ricordato come simboli della nostra società (l’altra è il 25 aprile). Nell’aprire la stagione del nuovo governo è utile riflettere sul significato di questo termine, “lavoro”, perché da esso nascono alcuni impegni per l’immediato e alcune prospettive strategiche.

“Lavoro” è un termine che esprime un valore profondo, primario, fondativo della nostra società. Per la nostra Costituzione (la difendiamo abbastanza?) il lavoro è il fondamento della Repubblica italiana. E in effetti, in modo diverso e con alleanze di classe diverse, le grandi forze che fondarono la Repubblica esprimevano tutte il mondo del lavoro: dal PCI e il PSI, alla DC, ai “partiti laici”.

La corrente di pensiero che, nella sua analisi e nella sua azione, ha posto come centrale il lavoro dell’uomo è comunque indubbiamente la marxista. E allora vale la pena di ricordare il modo in cui Marx lo definiva: “l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso [corsivo mio] di qualsiasi genere”. E ancora: “In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita”.

Riflettere sul significato del lavoro dell’uomo nei contesti nei quali viviamo (dal governo nascituro dell’on. Prodi alla crisi planetaria) porta a sottolineare due connotazioni dei nostri tempi, l’una di carattere tattico e relativa al breve-medio periodo, l’altra di carattere strategico e relativa allungo periodo. Da esse scaturiscono due necessità dell’azione politica e di quella culturale: necessità certamente distinte, ma che sarebbe delittuoso separare.

Da un lato, è evidente che nell’attuale situazione italiana, così come questa si è determinata per colpa sia della destra che delle debolezze del centro-sinistra, il lavoro ha perso la centralità che la Costituzione gli assegnava. Lo rivelano l’espansione del precariato e la sua assunzione come “fattore di modernizzazione”, l’indebolimento dei sindacati dei lavoratori, lo squilibrio tra la tassazione dei redditi da lavoro e quella dei redditi finanziari, nonché, per riferirci a un tema centrale per queste pagine, la prevalenza della rendita (remunerazione della proprietà) sul salario (remunerazione del lavoro) e del profitto (remunerazione dell’attività imprenditiva secondo una scuola, il frutto stesso del lavoro secondo un’altra). Un programma di governo che volesse ripristinare il rispetto della Costituzione su ciò che costituisce il fondamento della Repubblica dovrebbe assumere perciò come centrale la questione del lavoro, in tutte le articolazioni ora enunciate.

Ma accanto e dietro questo aspetto del problema del lavoro un altro se ne pone, che ne costituisce in qualche modo la prospettiva e lo scenario. La concezione del lavoro che ancor oggi nutre il pensiero economico e l’organizzazione sociale è quella propria del sistema capitalistico: il lavoro socialmente ed economicamente riconosciuto è quello finalizzato, direttamente o indirettamente, alla produzione di merci. Se Marx, nel brano sopra citato, riferiva il lavoro alla produzione di valor d’uso, oggi per il calcolo economico, e per la stessa considerazione sociale, l’unico valore che è rimasto è il valore di scambio. I beni (siano essi oggetti o servizi) cui la produzione è finalizzata sono solo quelli riducibili a merce, e in tanto sono considerati in quanto sono ridotti a merce. Ciò che conta non è la loro utilità ai fini dello sviluppo dell’uomo e dell’umanità, ma la loro capacità di essere acquistati da un consumatore.

È morto qualche giorno fa John Kenneth Galbraith. Fu lui che, nel lontano 1958, coniò per primo il termine “società opulenta” (affluent society). Con questa espressione si designa appunto una società nella quale la produzione ha perso qualunque profondo connotato umano, ed è finalizzata esclusivamente a vendere, in misura via via crescente, merci via via più lontane da ogni reale utilità per l’uomo. Sembra che un lavoro finalizzato esclusivamente alla produzione crescente di merci superflue (spesso per di più dannose) non possa essere considerato durevole. Il ragionamento sul lavoro e la rivendicazione della sua necessaria centralità si deve perciò connettere a quello attorno ai limiti dello sviluppo (di questo sviluppo, basato sulla riduzione dei beni a merci, sull’orgogliosa negazione dei limiti posti dal pianeta, sulla perdita di ogni finalità propriamente umana), al nuovo imperativo della “decrescita”, al pieno riconoscimento economico e sociale dei valori d’uso - e delle qualità culturali,ambientali, storiche del territorio.

Il discorso di Fausto Bertinotti

Scritti sulla "decrescita" nella cartella Il nostro pianeta

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