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Vittorio Gregotti
Appunti per la città del prossimo futuro
18 Maggio 2008
Una approfondita – e partecipata – recensione all’ultimo libro di Paolo Perulli: “La città: la società europea nello spazio globale”. La Repubblica, 2 agosto 2007 (f.b.)

Nel 2002 Jean-Luc Nancy ha pubblicato, dopo un suo viaggio a Los Angeles, un breve saggio dal titolo La città lontana, affascinante testo letterario in cui lo sgomento per l´urbano "nebulizzato" lo induce a pensare la città futura come metafora della tecnica che «spinge ad aprire passaggi in tutte le direzioni senza alcuna vocazione finale» e a pensare l´uomo come un abitante di passaggio.

Il denso libro di Paolo Perulli, La città: la società europea nello spazio globale (pagg. 181, Bruno Mondadori) sembra avere come centro il pro e il contro dell´ossessione espressa dal testo di Nancy: parzialmente corretta dal pensiero del decentramento polinucleare di Louis Mumford. Il primo merito del testo di Perulli è la preoccupazione di confrontare la riflessione intorno alla sociologia urbana con il pensiero della filosofia teoretica, dell´economia, della politica e con la posizione di alcuni architetti, costruendo così un quadro degli interrogativi che tormentano il fatto urbano tanto che alla fine l´autore scrive: «La città (certamente in nuove forme) resta, magari nella forma della città delle reti o forse anche delle reti di città dell´arcipelago, il luogo dell´incontro, nell´epoca attuale della solitudine e della paura» ma anche il luogo dell´utopia. Ma che forma di governo (o di "governance"), e quale forma di società è possibile, si domanda Perulli, in questi insieme di reti? Sono le "città mondiali" di Saskia Sassen, con i loro centri finanziari molto più simili a centri di produzione che a shopping mall o sono le "città regioni" o gli arcipelaghi urbani? La scomparsa della città fisica, la libertà dallo spazio in quanto "città dei bits", città virtuale, sostenuta da W. J. Mitchell (la città dei non luoghi in cui sono parcheggiati i rifugiati del pianeta), l´abitare i flussi che fa dell´esule una figura esemplare, esclude il cittadino in quanto titolare non solo dei doveri civili e diritti politici, ma anche come "homo faber".

La scomparsa della città fisica («La città globale non è un luogo ma un processo» scrive Manuel Castells) proviene da lontano e si è generalizzata, sostiene Perulli, con lo svincolarsi, nel XX secolo, dello spazio dalla visione ambientale. Ad esso la modernità si oppone per mezzo dell´idea di progetto e della coincidenza tra "abitare e costruire", un´idea messa in crisi, però, dalla ideologia della condizione postmoderna. All´idea di separazione della città per funzioni si sostituisce l´idea della separazione geografica per ceti.

Il percorso lungo il dispiegamento di queste contraddizioni attraversa il libro a partire dal pensiero dei grandi sociologi del XX secolo, da Max Weber a Simmel a Durkheim alla scuola di Chicago, da Bourdieu a Carl Schmitt, da Saskia Sassen a Castells, senza dimenticare i contributi italiani recenti da Bagnasco a Martinotti, ma in continua dialettica da un lato con il pensiero urbanistico "da Mumford a Le Corbusier" accomunati dallo sforzo di dominare il passaggio dalla città alla megalopoli. Né manca un´analisi dei «processi di costituzione della governance postmetropolitana», cioè delle tendenze alle autonomie di pianificazione economica delle città e ai loro tentativi di applicazione, importanti in alcuni stati europei, con le relative forme contrattuali con lo stato, sino al caso speciale di coincidenza tra pianificazione statale regionale della Randstadt olandese.

Questa analisi si estende sino ai recenti sostenitori della deregolazione (né manca un accenno al disastro milanese) e ai negazionisti della tradizione urbana come opposizione ad ogni futuro realista. Ma il «realismo utopico - secondo la definizione di Anthony Giddens - è, anziché pensare l´oggi in base al passato, spiegare l´oggi per mezzo del futuro»; invece, io dico, sembra si voglia sfuggire alle contraddizioni dell´oggi per mezzo del futuro. Tutto ciò è messo in relazione con le analisi di alcuni dei protagonisti della filosofia, da Heidegger a Benjamin, da Habermas a Lyotard.

Ne esce un percorso che deve certo la sua origine a scopi pedagogici ma sempre affascinante, proprio perché intricato e costantemente sospeso tra interrogativi e contraddizioni la cui individuazione è uno dei migliori risultati del libro. Anche le conclusioni sono interrogative ma attraversate sempre dal senso della possibilità. Nonostante la necessità di un radicale ripensamento del concetto di locale, il territorio resta un testo (cioè, io dico, un terreno storicamente elaborato) e anche il luogo di costituzione e di accentramento di condizioni per avanzamenti specifici ma non necessariamente di dominio.

Quindi città policentrica contro ogni "città generica", a sua volta connessa con l´idea di capitale sociale e con quella di arcipelago di città comunicanti, secondo la migliore tradizione europea e in una versione in costante oscillazione tra «modelli associativi e dissociativi».

La domanda che non posso evitare di pormi nel contesto di queste contraddizioni è quale sia il ruolo dell´architettura la cui pratica artistica è, fra le molte, la più esposta al mutamento delle condizioni sui propri fondamenti. E qui per esempio la contraddizione tra la nozione di spazio concepito come dimensione oggettiva o come frame, descritta nel libro, diventa evidente.

Ma alcune risposte da parte della cultura architettonica sembrano, io credo, già formulate. Da un lato vi è chi pensa al ruolo di rappresentazione dello stato delle cose come positivamente stabilizzate nei confronti dell´individuo postsociale, alla positività infinita di tecnoscienze e mercato come fondamenti unici del globalismo, cioè, come scrive Paolo Perulli, «la città generica di Koolhaas, la cui indifferenza al luogo esprime bene la tendenza attuale degli architetti alla moda» (ma qui l´elenco di Castells riportato a pag. 123 è in totale contraddizione). Da un altro vi è chi invece vuole eleggere a materiale del progetto contraddizioni ed interrogativi in nome della sopravvivenza della città di una società politica.

Da un altro ancora, infine, chi cerca di liberarsi della specificità del nostro lavoro, cioè del suo confronto con l´abitabilità del mondo, per fare di esso un puro esercizio decorativo. E questa credo sia posizione insieme la più gradita ma anche la peggiore.

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