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Francesco Indovina
Calimani: «La casa, tra sfratti e diritto urbano»
14 Aprile 2008
2008-13 aprile, prima e dopo
Un colloquio con Luisa Calimani, ex deputata e assessore a Padova, collaboratrice del ministro Di Pietro. Il manifesto, 13 aprile 2008

Luisa Calimani è docente di urbanistica, già deputata e assessore alla casa del comune di Padova, collaboratrice del ministro Di Pietro, presidente dell'associazione «Città Amica». Con lei parliamo di uno dei temi a nostro avviso più importanti della campagna elettorale: quello della casa.

L'esperienza di assessore alla casa ti ha sicuramente segnato, hai toccato con mano la situazione ed è un tema che ti impegna ancora oggi. Ma partiamo dalla situazione, come è noto la diffusione della casa in proprietà non ha risolto la questione abitativa, l'ha forse aggravata. Tu che tieni sotto controllo la situazione come ti pare che sia oggi?

Il presente come il passato, confermano che «l'emergenza abitativa» è una costante e non un fatto episodico e transitorio, è un aspetto strutturale del nostro sistema che non verrà risolto se non si incide non solo nei fattori culturali ma in quelli dell'economia, finanziari e della rendita immobiliare. Culturali, rispetto cioè alla proprietà dell'alloggio soprattutto per i giovani; finanziari, relativamente al confluire dei risparmi nel settore delle costruzioni e dell'azione delle banche nel promuovere e stimolare mutui anche a rischio per l'acquisto della casa; e della rendita immobiliare che è considerata ormai anche nel centro sinistra, non un fattore da abbattere, ma una componente dominante alla quale si assoggetta ogni esigenza e ogni diritto.

Mi pare che i programmi dei partiti, secondo un andazzo dissennato, propongono riduzioni fiscali a tutto spiano, senza rendersi conto che riducono in questo modo mezzi di intervento per risolvere questioni nodali, secondo il principio del «tutto affidato al mercato e per i suoi fallimenti qualche mancia». Se tu fossi in grado, tenuto conto della situazione, quindi con realismo ma innovando, quali sarebbero i tre provvedimenti che un futuro governo dovrebbe prendere per avviare a soluzione la «questione abitativa»?

Questa volta si può dire: predicano male e razzolano bene. Pochi sanno infatti che nella Finanziaria, quindi legge dello Stato, i ministri Di Pietro e Ferrero hanno inserito l'Erp (edilizia residenziale pubblica) fra gli standard. Un nuovo standard aggiuntivo rispetto al verde, parcheggi, servizi (da non confondere con le «sottrazioni» di standard milanesi), che come tale viene ceduto gratuitamente al comune sotto forma di aree e/o di alloggi.

Il futuro governo dovrà stabilire la percentuale minima obbligatoria in tutto il Paese di alloggi ottenuti gratuitamente dall'operatore degli interventi di trasformazione urbana, da riservare a famiglie a basso reddito e in condizioni di particolare disagio. Regioni e Comuni con proprie leggi e piani (come oggi avviene per gli altri standard) potranno ampliare le suddette percentuali ed estenderle, se credono, all'edilizia convenzionata in affitto a canone calmierato. Questo nuovo, straordinario provvedimento crea un meccanismo che incrementa con continuità l'edilizia residenziale pubblica che in Italia è fra le più basse d'Europa, unica a poter rispondere alle famiglie per le quali l'affitto di mercato ha un incidenza del 50% sul reddito. Terreni ed alloggi così ceduti debbono essere inalienabili (altrimenti il giorno dopo i Comuni se li vendono). Bloccherei anche l'insensata antieconomica alienazione del patrimonio edilizio esistente di proprietà pubblica e avvierei un programma decennale per il suo risanamento a partire dagli alloggi vuoti e dai quartieri degradati. Interverrei in una solida operazione di riconversione delle aree demaniali, in particolare delle caserme dismesse, che sono attualmente oggetto di consistenti operazioni speculative (complici Stato, Regioni, Comuni), per assicurare una quota di edilizia sociale e in locazione e una consistente dotazione di parchi urbani. La terza questione riguarda la definizione di alloggio sociale che deve comprendere solo alloggi in affitto a basso canone di locazione destinati a persone e famiglie disagiate. Se questa definizione sarà invece estesa (in difformità a mio avviso alla direttiva europea) anche agli alloggi in proprietà (come è stato proposto), si potranno (senza incorrere in infrazioni contro la concorrenza?) elargire soldi pubblici a cooperative e imprese da destinare all'acquisto della casa, magari finanziando l'abbattimento del mutuo con lo scopo vero ma non dichiarato di finanziare cooperative e imprese, cosa che piace a tutti i partiti e non solo a Berlusconi. E' un modello vecchio, che qualcuno baratta per nuovo (cofinanziamento, social hausing...) e che può considerarsi strumento complementare ma non principale o persino esclusivo, perché s'è dimostrato anche nel passato incapace di ridurre la tensione abitativa.

Le proposte che tu fai, che sono sicuramente di grande interesse, sono di "lunga durata", cioè i suoi effetti non sono immediati. Certo che bisogna lavorare anche per la prospettiva futura, ma esiste anche una emergenza immediata: famiglie senza case, famiglie che non riescono a pagare gli affitti, coabitazioni, immigrati che si accontentano di sistemazioni indecorose, ecc. Per queste situazioni cosa possiamo fare nell'immediato? Senza mettere in discussione le cose buone fatte dal passato governo che tu hai ricordato, si potrebbe sostenere che la "soluzione di lungo periodo", sia una scappatoia per non occuparsi del presente.

Innanzi tutto l'obbligo che in ogni Piano attuativo sia ceduta gratuitamente una percentuale (20% ad esempio) di alloggi ai comuni non è cosa di lungo periodo ma immediata. Regioni e comuni in applicazione della legge finanziaria, possono già oggi richiederlo ai privati, Piani attuativi vengono approvati quotidianamente. Questo strumento produrrebbe anche il benefico effetto di mescolare e integrare classi a diverso reddito, immigrati, ecc, che beneficerebbero di quei servizi - pulizia, decoro, sicurezza, verde - che ceti sociali benestanti sanno di solito ottenere nel loro quartiere. Ma nell'immediato, il problema forse più drammatico che colpisce migliaia di famiglie è lo sfratto al quale la legge 9 fatta da questo governo ha cercato di porre rimedio. Ma lo sfratto per morosità lascia le famiglie più deboli senza alcuna protezione. Se una famiglia con figli guadagna 1000 euro al mese e firma un contratto di affitto a 700 euro sapendo di non poter onorare il contratto e non ha alternative perché un alloggio pubblico non riuscirà ad averlo, che fa? Resta senza casa? Ma neppure questo è consentito, perché non si può vivere sotto i ponti nè in baracche abusive senza luce e senza gas. Si assiste infatti all'encomiabile "pulizia" del degrado urbano e sociale da parte della pubblica autorità che non si chiede dove andrà a dormire la notte successiva la gente cacciata. E allora? Dovrebbe almeno essere immediatamente ripristinata la commissione prefettizia che, d'accordo con il comune, provveda a graduare gli sfratti contemplando anche le esigenze dei proprietari e garantendo alle famiglie il passaggio da casa a casa. Dovrebbe essere imposto agli enti previdenziali di affidare ai comuni gli alloggi da assegnare in locazione rispettando graduatorie che tengano conto principalmente del reddito. I comuni dovrebbero obbligare i privati ad affittare gli alloggi vuoti anche a famiglie a basso reddito indicate dal comune facendosi garanti del canone pattuito. Insomma, mezzi e strumenti non mancano. Manca, come si usa dire, la volontà politica. Il problema casa non è percepito nella sua gravità e nelle conseguenze che ha sulla qualità di vita delle famiglie, non solo rispetto alla incidenza sul reddito, ma anche sulla stabilità, la sicurezza, la possibilità di costruire un futuro.

La soluzione, o l'avvio a soluzione della questione abitativa potrà avere anche un impatto significativo nell'organizzazione delle nostre città? O, detta in modo diverso, non ti pare che le due questioni: città e abitazioni, sono tra di loro strettamente legate?

Si, questo è un punto centrale. La città è tutto: casa, ambiente, trasporti, cultura, lavoro, fra loro interagenti. Ma la casa è il pilastro da cui partire per una riconquista del senso vero dell'abitare. Ripartire da questo diritto urbano fondamentale, per estenderlo alla città intesa come bene comune, significa rovesciare gli attuali processi di trasformazione urbana ribaltando parametri, valori e interessi che oggi costituiscono la base di ogni intervento. Il degrado delle periferie è pianificato. La differenza di qualità nei vari ambiti urbani incrementa la rendita differenziale.La città progettata per parti senza un disegno unitario che la organizzi e la pianifichi come organismo unitario e complesso, consente eccezionali operazioni speculative altrimenti più difficili da sostenere. Per questo operatori immobiliari e pubblici amministratori preferiscono progetti a coriandolo, separati fra loro e invariate al piano regolatore, per non doversi confrontare con i temi generali dei rapporti fra residenza e servizi, residenza e verde, residenza e mezzi di trasporto, residenza e lavoro, residenza e convivenza, che solo una visione generale e complessiva della città può dare. I conflitti urbani non esplodono, esistono sotto traccia ma non incidono nei meccanismi della rendita, la connivenza culturale (e non solo) ammansisce le flebili consapevolezze di un diritto alla città e all'abitare che chiede sommessamente equità, bellezza, salute, convivenza civile. La drammatica condizione abitativa è la misura del fallimento dell'attuale politica urbana e della cultura della città prevalente.

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