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Edoardo Salzano
20070531 Pubblico e privato nella pianificazione del territorio
8 Marzo 2008
Interventi e relazioni
Relazione svolta al seminario “Pubblico e privato nel governo del territorio”, Dipartimento di urbanistica e pianificazione territoriale dell’Università di Firenze, 31 maggio 2007

Due aspetti del rapporto tra pubblico e privato

Il tema che mi è stato affidato è il nocciolo duro della questione urbanistica. Anzi, è la ragione che sta alla base della moderna pianificazione urbanistica. Questa infatti nasce, all’inizio del XIX secolo, all’apice del trionfo dell’economia capitalistica e nel cuore della società borghese, quando ci si rende conto che il mercato non riesce a risolvere i problemi che nascono nella città per effetto della sua crescita e dell’impetuoso sviluppo della produzione. Non solo la bellezza, ma la stessa efficienza dell’ambiente della vita e del lavoro degli uomini e delle aziende è minacciato dal caos inevitabilmente provocato dallo spontaneismo.

Mi sembra che il rapporto tra pubblico e privato sia oggi rilevante, nel nostro paese, per due aspetti: l’aspetto del potere e delle responsabilità, l’aspetto dell’economia e dell’impiego delle risorse.

I due temi sono stati sempre connessi, in modo più o meno esplicito, nelle vicende dell’urbanistica italiana. Rispetto agli altri paesi europei siamo arrivati tardi a disciplinare il modo di intervenire nel governo della città. Ma già la legge urbanistica del 1942 esprime in modo chiaro una scelta di campo decisiva su entrambi i punti:

(1) la responsabilità, e quindi il potere, di disegnare l’assetto della città spetta al governo pubblico e alle sue istituzioni; su questo principio è disegnato infatti l’intera impalcatura della pianificazione e delle sue procedure;

(2) in relazione a questo suo potere/responsabilità il governo pubblico ha la facoltà di sottrarre al mercato, tramite i collaudati meccanismi espropriativi messi a punto dalla borghesia nel corso del XIX secolo, le aree necessarie alle trasformazioni urbane.

Nel dopoguerra, superata la fase critica della Ricostruzione, si commise probabilmente un errore: invece di sviluppare le potenzialità della 1150/1942, si progettò un disegno che voleva essere interamente nuovo: la “riforma urbanistica”. confitto il tentativo di Il ministro democristiano Fiorentino Sullo propose una legge ispirata ai modelli di regioni europee non dominate dalla rendita fondiaria. Il suo tentativo fu sconfitto da quello che Valentino Parlato definì “il blocco edilizio”[i]. Infranto quel tentativo di modernizzazione si procedette comunque a un processo di completamento dell’edificio fondato sulla 1150/1942 attraverso alcuni passaggi decisivi.

Una stagione di riforme

Da testimone – sia pure molto marginale – di quegli anni posso dire che la sostanza della proposta Sullo era comunque quella che ispirò i diversi passaggi di quel faticoso processo di riforma, che si sviluppò, grosso modo, dal 1962 (la legge per favorire l’acquisizione delle aree per l’edilizia economica e popolare) al 1978 (equo canone e piano decennale per l’edilizia pubblica). Con qualche passo avanti rispetto alla stessa proposta Sullo.

Ribadita l’obbligatorietà della pianificazione urbanistica e territoriale, estesa quest’ultima al livello nazionale (i “lineamenti dell’assetto territoriale nazionale” del DPr 616/1977), arricchito l’armamentario della pianificazione attuativa (con i PEEP, i PIP e i Piani di recupero), introdotto (con gli standard urbanistici) il fondamentale principio del diritto dei cittadini a disporre di spazi adeguati per le strutture del “consumo comune”, si era intervenuti nella regolazione del rapporto pubblico/privato in tre aspetti di grande rilevo:

(1) si era stabilita la perequazione tra i proprietari privati negli ambiti di trasformazione lasciati all’iniziativa dei privati proprietari,

(2) si era superata l’impostazione ghettizzante dell’edilizia per i ceti meno abbienti, segregata in parti della città “specializzate” e sottodotate di elementi di qualità e di servizio, per dar luogo a quartieri caratterizzati dall’integrazione sociale, da adeguate dotazioni di servizi e dal regime pubblico dei suoli:

(3) si era introdotto il meccanismo del convenzionamento dell’edilizia, che – negli ambiti nei quali le aree erano preventivamente acquisite alla proprietà pubblica – avrebbe consentito di impedire il trasferirsi della rendita dall’area alla costruzione;

(4) si era messo a punto un meccanismo di amministrazione del prezzo delle locazioni che avrebbe potuto incidere significativamente sul valore della rendita immobiliare in tutto lo stock consolidato.

Da un lato, insomma, si era ribadito che il progetto della città doveva essere deciso dall’espressione rappresentativa della collettività, dagli istituti del potere pubblico democratico; dall’altro lato, si erano predisposti gli strumenti capaci di incidere sulla rendita immobiliare.

Si trattava di principi e di strumenti. Le leggi non potevano prescrivere che chi governava avesse la volontà politica di applicarle coerentemente. Quel “blocco edilizio” che aveva sconfitto il tentativo di Fiorentino Sullo non era stato dissolto.

Un momento in verità ci fu, in cui apparve possibile farlo. Fu quando nel paese si aprì uno scontro politico e sociale forte a partire dalla questione della casa e dei servizi. Ricordo lo sciopero generale nazionale per la casa, i servizi, i trasporti (novembre 1969), e ricordo le dichiarazioni dei padroni della FIAT, esponenti di quella borghesia capitalista moderna di cui oggi Corsero di Montezemolo si proclama il leader. Le dichiarazioni di Gianni Agnelli e di Umberto Agnelli vanno ricordate oggi, per sottolineare la distanza che ci separa da quel clima.

Nell'autunno del 1972 - con una intervista al settimanale Espresso e con un documento pubblico mandato al presidente del Consiglio - i due fratelli Agnelli, padroni della Fiat, entrarono direttamente nell'argomento. Affermava Gianni Agnelli:

“Il mio convincimento è che oggi in Italia l'area della rendita si sia estesa in modo patologico. E poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impresa. Questo è il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire (...) Oggi pertanto è necessaria una svolta netta. Non abbiamo che due sole prospettive: o uno scontro frontale per abbassare i salari o una serie di iniziative coraggiose e di rottura per eliminare i fenomeni più intollerabili di spreco e di inefficienza”.

Ancora più reciso nelle sue formulazioni anche l'altro Agnelli, Umberto, l'amministratore delegato della Fiat:

“Per risolvere la crisi dell'edilizia e la carenza degli alloggi non bisogna fare marcia indietro sopprimendo la legge 865 per la politica della casa. La legge non ha dato buona prova, non perché fosse errata nei suoi presupposti, ma perché è risultata carente di strumenti operativi. Occorre quindi emendare con urgenza la legge, senza negarla peraltro nei suoi presupposti e nelle sue motivazioni, così da farne il punto di partenza per una organica politica della casa. In particolare occorre aumentare la responsabilità della Regione dandole un potere generale di surroga dei comuni inadempienti (...) Quanto alla polemica fra proprietà e affitto della casa, riemersa di recente, va chiarito che ammettere la proprietà della casa non è una concessione alla rendita e che questa, combattuta e eliminata nell'esproprio del terreno, non ha possibilità di risorgere a valle, quando la proprietà sia ottenuta nel quadro dell'edilizia convenzionale”

Interesse generale e rendita

La politica e la cultura di quegli anni erano basate su una concezione dell’interesse pubblico e su una concezione della rendita che è utile ricordare, per verificare quanto siano ancora vive nei soggetti che oggi animano la scena del governo e quella della governance.

Sul terreno della politica si riteneva che il compito di garantire la prevalenza dell’interesse spettasse alle istituzioni rappresentative nelle quali si esprimeva la prassi della democrazia. Si riteneva che la dialettica delle “parti” politiche, e degli interessi che ciascuna di esse rappresentava, fosse il modo per raggiungere la sintesi di una decisione la più vicina possibile a un “tutto” che fosse superiore alla somma aritmetica delle sue parti. E la politica veniva intesa come servizio alla collettività, non alle singole componenti della sua rappresentanza. Che l’interesse generale dovesse prevalere su quello di singoli gruppi e individui era un assioma indiscutibile: quella prevalenza era del resto la garanzia della tutela dell’interesse dei singoli, i quali dovevano avere essi stessi una prospettiva e una finalità “sociale”.

Sul terreno dell’economia si distinguevano nettamente le tre forme del reddito: salario, profitto e rendita. Al salario e al profitto veniva riconosciuto un ruolo pienamente sociale, utile all’avanzamento della società e al benessere dei suoi componenti. Al profitto si chiedeva – da parte delle forze politiche, non solo di sinistra, che si rifacevano ai movimenti dei lavoratori e ai principi del liberalismo – che producesse accumulazione, cioè reinvestimento nel processo produttivo per allargarlo; la dialettica era tra la quota della ricchezza da attribuire all’uno o all’altro, al salario e al profitto.

Per quanto riguarda la rendita essa era considerata, di per sé, una componente parassitaria della ricchezza della nazione. Veniva percepita e goduta dai soggetti che se ne appropriavano non in relazione a una funzione sociale, a un “lavoro” o a una “intrapresa” o a un “rischio”, ma unicamente alla circostanza di possedere un bene economico, cioè utile e scarso.

Della rendita immobiliare poi (fondiaria ed edilizia), e in particolare della sua componente differenziale, si sottolineava il fatto che essa non era comunque il risultato del lavoro del proprietario, ma del lavoro, delle decisioni e degli investimenti – attuali e storici – della collettività.

Che i padroni della più grande fabbrica italiana e massimi dirigenti della Confindustria si esprimessero nei termini che ho ricordato – pur senza essere sotto la minaccia della tortura – mi sembra significativo della condivisione ampia che queste convinzioni avevano raggiunto. E della distanza che separa il nostro oggi dal nostro ieri.

Dal Welfare State al Neoliberismo

La storia successiva, che inizia negli anni Ottanta, è infatti quella dello smantellamento della strategia costruita nei due decenni precedenti. È una vicenda che si inserisce in una storia più grande, che porta gran parte del mondo dall’assetto e dai principi che possiamo riassumere nelle figure di Franklin D. Roosevelt e di John M. Keynes a quelle che l’analisi di David Harvey effigia con le figure di Volckers, presidente della Federal Riserve, e di Margaret Tatcher, Ronald Reagan, Teng Shiao-ping: dal Welfare State, insomma, al neoliberismo.

In Italia, sul terreno che qui ci interessa, mi sembra che la fase più emblematica dell’inversione di marcia è compresa tra due momenti: quel fenomeno che fu definito Tangentopoli, e che esplose con l’inchiesta Mani Pulite, e quella vicenda culturale e legislativa che vide formarsi un largo consenso attorno alla legge che prese il nome dall’onorevole Maurizio Lupi.

Tangentopoli fu il rovesciamento secco della stagione di tensione riformatrice del modo di governare il territorio che aveva contrassegnato gli anni Sessanta e Settanta. Mani pulite non riuscì a innescare un processo di rinascita: provocò oggettivamente la crisi del sistema di potere in atto ma non provocò (una vicenda giudiziaria non poteva provocare) un processo alternativo virtuoso. La rivincita del privatismo sul comune proseguì il suo cammino. Si aprì una fase che ha visto i condoni dell’abusivismo urbanistico, lo svuotamento dei poteri locali e delle amministrazioni pubbliche, l’assunzione del mercato come misura di tutte le cose, la privatizzazione di fondamentali strumenti di una politica di welfare.

Un fenomeno particolarmente significativo di questa fase è stato costituito, all’inizio del Millennio, dall’arrogante espressione del mondo della rendita: i cosiddetti “immobiliaristi”. L’incremento della rendita immobiliare, promosso dalle pratiche di deregulation e di urbanistica contrattata, a cavallo del 2000 è stato così consistente da permettere a personaggi privi di spessore imprenditoriale di tentare la scalata a nodi rilevanti del sistema del potere economico e mediatico. Abbiamo potuto constatare allora come nel personale politico sia scomparsa del tutto quella distinzione, e quella valutazione differenziata, tra le tre forme di reddito costituite dalla rendita, dal salario, e dal profitto.

Dietro a questo fenomeno c’è però una realtà più profonda. C’è il fatto che la borghesia capitalistica italiana ha deciso di approfittare delle grandi occasioni di arricchimento consentite dall’appropriazione di rendite, finanziarie e immobiliari. Ingenti risorse e capacità affaristiche (non le chiamerei “imprenditive”) sono state spostate dall’attività industriale a quella finanziaria e immobiliare. All’assenza di una politica industriale (e della ricerca, che ne dovrebbe essere l’anima) ha corrisposto una grande attenzione dei politici alle vicende finanziarie e immobiliari. Possiamo dire che l’attenzione dei politici si è spostata dal salario e dal profitto alla rendita? Temo di si.

Sul terreno legislativo il documento più espressivo della fase che definirei del “neoliberismo urbanistico”è stata probabilmente la cosidetta “Legge Lupi”: in essa si proclamava, e lucidamente si perseguiva, l’obiettivo di privatizzare l’urbanistica, trasformandola da un’attività “autoritativa” (il termine viene adoperato con un chiaro intento dispregiativo), cioè di competenza del potere pubblico, a un’attività negoziale, cioè contrattata con la proprietà immobiliare[ii].

Una proposta positiva

In Parlamento giacciono oggi quattro proposte di legge. L’ultima presentata è quella di deputati dei gruppo DS e DL, sulla quale vorrei brevemente soffermarmi per tre ragioni: perché è quella più recente, quindi diene conto delle proposte avanzate precedentemente; perché è quella che copre lo spettro più ampio di argomenti, e probabilmente costituirà la base di un testo unificato; infine perché è presentata dal gruppo politico maggioritario. E’ il testo che ha come primo firmatario l’on. Raffaella Mariani, eletta in questa regione, e ha visto nella sua redazione un contributo consistente dei DS della Toscana.

La proposta Mariani recupera più d’un elemento della tradizione dell’urbanistica italiana, cancellata ope legis o lasciata cadere in desuetudine dalle pratiche recenti di “governo del territorio”. Rende esplicito il “principio di pianificazione”, con una formulazione efficace. Ribadisce la non indennizzabilità dei “vincoli ricognitivi”, cioè delle tutele poste per ragioni oggettive su parti del territorio dotate di qualità o soggette a rischi. Recupera gli standard urbanistici, sia pure con formulazioni non sempre convincenti. Ripristina alcuni strumenti caduti in desuetudine, come i “lineamenti fondamentali dell’assetto del territorio nazionale”. Riprende gran parte delle formulazioni sul contrasto al consumo di suolo della proposta di legge degli “Amici di eddyburg”.

Voglio sottolineare due punti della proposta Mariani che modificano rispetto a posizioni che precedentemente avevano ottenuto legittimazione culturale e politica da ambienti della sinistra: la perequazione urbanistica e i diritti edificatori.

Nella proposta:

(1) si riconduce la perequazione urbanistica a strumento attuativo della pianificazione urbanistica, e quindi se ne ripristina il ruolo di compensazione degli interessi immobiliari all’interno degli ambiti attuativi (il collaudato meccanismo dei piani di lottizzazione convenzionata);

(2) si sostituisce il termine impegnativo di “diritto edificatorio”, che compariva nelle precedenti stesure della legge, con il dal termine “previsioni urbanistiche”.

Parlare di “diritti edificatori” avrebbe significato rendere impossibile la cancellazione di previsioni urbanistiche ritenute eccessive, oppure aprire la strada alla necessità di trasferimenti di cubatura, compensazioni, e altre manovre profondamente discorsive per la definizione di un adeguato progetto di città. Ritenere che la facoltà di edificare prevista da uno strumento urbanistico dia luogo a un “diritto” del proprietario, anziché un “legittimo interesse”, sarebbe stato del resto in contrasto con tutta la legislazione e la giusrisprudenza elaborata dagli anni 60 in poi, come ho avuto modo in altra sede di dimostrare per tabulas.

“Concorrenzialità” per i proprietari immobiliari?

Tra i punti della proposta Mariani che sollevano perplessità e preoccupazione vorrei riprendere la questione già sollevata su eddyburg da Marco Massa. Si tratta del tema del ruolo del privato nell’attuazione della pianificazione operativa, affrontato dall’articolo 20, il cui titolo è “Concorrenzialità”. L’articolo ribadisce la “titolarità pubblica della pianificazione del territorio”, ma consente alle regioni di istituire “forme di confronto concorrenziale”, che possono essere rese addirittura “obbligatorie” per “promuovere e selezionare capacità e risorse imprenditoriali e progettuali private e pubbliche, garantendo pubblicità e trasparenza del processo, nonché un equo trattamento della proprietà e assicurando la coerenza con il piano strutturale”.

So che la pratica della gara per la scelta di soluzioni urbanistiche è stata introdotta anche in Toscana. Essa a mio parere si basa su un presupposto erroneo, e presenta rischi gravi per il quadro pianificatorio nel quale si inserisce.

Il presupposto erroneo è quello di non comprendere, o di voler trascurare, che la proprietà immobiliare non è l'impresa, e che è sbagliato voler introdurre regole proprie del mercato concorrenziale in un ambiente economico che del mercato concorrenziale ha poco o nulla. Nel governo del territorio la concorrenza ha senso se è tra le imprese: come poteva essere quando le aree su cui si costruiva erano di proprietà pubblica, com’era per l’edilizia residenziale pubblica o i servizi sociali. Dimenticare questo significa a mio parere restituire alla proprietà un ruolo di direzione nella definizione sia del progetto di città sia di programmazione della successione temporale degli interventi di trasformazione. È un passo indietro rispetto alla prassi – introdotta dalla legge 10/1977 e rapidamente cancellata dalle legislazioni regionali – della programmazione degli interventi di traformazione nel tempo.

Un vero pasticcio. L’unica certezza è che il bandolo della matassa, la facoltà di proporre e di guidare il gioco è della proprietà immobiliare.

Se almeno le pratiche concorsuali fossero inquadrate in una pianificazione strutturale sufficientemente precisa, accuratamente sorvegliata nella sua logica e nei suoi meccanismi interni, se la successione degli interventi di attuazione del piano fosse garantita in sede di strumento formato d’intesa tra comune, provincia e regione, se si ammettesse (come precisa la proposta Mariani) che le decisioni della pianificazione strutturali concernenti le tutele e le strategie sono “conformative della proprietà”, allora si potrebe ragionare. Ma non mi sembra che le cose stiano così.

Osserva Marco Massa che le prime sporadiche applicazioni sono discutibili, che in Toscana ci sono Regolamenti urbanistici che hanno aperto una complicata fase di trattative e altri che hanno introdotto norme ambigue come le “aree a previsione urbanistica differita”, per le quali l’approfondimento delle indicazioni del Piano strutturale (localizzazione delle edificazioni, degli spazi pubblici e delle infrastrutture, ripartizione delle funzioni, modalità di realizzazione) è rinviata al bando di avviso pubblico”.

Io credo che le trasformazioni della città, per il significato che hanno, per gli interessi sociali coinvolti, per le prospettive che devono aprire, debbano essere attribuiti, e fortemente gestiti, dal potere pubblico. E sono fortemente preoccupato di constatare che il principale soggetto di attenzione nella pianificazione e progettazione della città non è il cittadino e la sua partecipazione, ma la proprietà immobiliare.

Ancora sulla rendita e sulla questione della casa

La questione della casa sembra tornata all’attenzione della politica. Non è però affatto chiaro in che modo sarà sfrontata. Speriamo che non ci si limiti a costruire qualche nuovo quartiere “pubblico su pubblico”, destinato ai poveri. Abbiamo già sperimentato i ghetti e, con la legge 167/1962 abbiamo provato a superarli. Speriamo che con le risorse pubbliche non si agevoli l’affitto di patrimonio privato, ricorrendo al mercato immobiliare e alimentandolo ulteriormente. Abbiamo sperimentato anche questo e abbiamo visto che affidare l’affitto al mercato significa aggravare il problema. E speriamo che non si prosegua con la promozione dell’urbanizzazione di nuove aree in cambio di qualche agevolazione su una percentuale del nuovo costruito: sarebbe un errore grave dilapidare lo scarso territorio ancora non incrostato di cemento per un temporaneo sollievo a qualche fortunato.

Ho ricordato come tra il 1962 e il 1978 erano stati predisposti gli strumenti per una strategia complessa, che toccava tutti gli aspetti della questione: quartieri integrati, dotati di abbondanti servizi, risorse per l’edilizia a canone sociale, recupero edilizio finanziato e agevolato, programmazione statale e regionale sulla base dei fabbisogni comunali, governo dei canoni di locazione del patrimonio privato.

Quella strategia non va bene? Sostituiamola con un’altra, ma che sia alla medesima altezza. E che mantenga fede a tre principi non rinunciabili: 1. la casa, a un prezzo rapportato alle capacità di spesa, è un diritto per tutti; 2. l’intervento deve essere organico e deve promuovere integrazione sociale e qualità urbana; 3. la mano pubblica deve ricompensare il salario e il profitto, non la rendita.

Siamo tutti convinti che la rendita urbana non deriva (per adoperare le parole di Roberto Camagni) “da una prestazione produttiva specifica, ma da elementi del tutto esterni: dai processi generali di urbanizzazione della popolazione e delle attività, dalla prossimità delle infrastrutture di trasporto, di un ‘centro’ urbano, di altre attività collegate”. Quindi dovremmo impiegare le politiche urbane, a partire dalla pianificazione urbanistica, per ridurre la rendita immobiliare non per aumentarla.

E poiché la rendita è comprimibile ma non è eliminabile, bisognerebbe ricominciare a fare ciò che fece la buona borghesia, anche in Italia, tra la fine dell’800 e l’inizio del 900. Bisognerebbe lavorare sulla leva fiscale, e sulle altre leve del potere pubblico (statale, regionale e comunale) per far tornare alla collettività una parte consistente della rendita, che è prodotta dalla collettività, e non da altri.

Lo ricordava Eugenio Scalfari domenica scorsa: fu la Destra storica che “pagò attraverso l’imposta fondiaria il 52 per cento di tutte le entrate tributarie dello Stato nel periodo in cui governò, tra il 1861 e il 1876. Il 52 per cento”. E, aggiungon io, fu il governo Giolitti, non il Soviet, che prescrisse nel 1907 il sacrosanto principio per cui, in caso di espropriazione, si pagava al proprietario il valore immobiliare che aveva dichiarato a fini fiscali.

Non credo che sia un paradosso affermare che la rendita urbana, nella misura in cui non è eliminabile, è un bene comune. È da qui che bisognerebbe ricominciare a ragionare e decidere sul rapporto tra pubblico e privato.

[i] Valentino Parlato, Il blocco edilizio, in “il manifesto”, nn.3-4, 1970. Ora in: “Lo spreco edilizio”, a cura di F. Indovina, Marsilio, Padova 1972.

[ii] Rnvio all’ampia rassegna delle critiche sollevate alla legge, approvata nella XIV legislatura da uno solo dei due rami del Parlamento, contenuta negli scritti raccolti in Controriforma urbanistica. Critica al disegno di legge «Principi in materia di governo del territorio», Firenze, Alinea editrice, 2005.

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