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Ida Dominijanni
Quando tremò Lisbona
5 Dicembre 2007
Articoli del 2005
L'Occidente e i disastri, ieri e oggi. Da il manifesto del 4 gennaio 2004

Già ricordati nell'editoriale di Rossana Rossanda sul manifesto di domenica scorsa, il terremoto di Lisbona del 1755 e il dibattito che suscitò fra i filosofi dell'illuminismo tornano alla mente in una sorta di associazione spontanea con la tragedia del sud-est asiatico di oggi. E più che i due eventi, a suscitare l'associazione è il loro impatto sull'immaginario dei contemporanei, allora e oggi. A ricostruire quello di allora fa da guida un libro uscito qualche mese fa a cura di Andrea Tagliapetra, Sulla catastrofe. L'illuminismo e la filosofia del disastro (Bruno Mondadori), che raccoglie e commenta gli scritti di Voltaire, Rousseau e Kant sull'evento e traccia alcune piste di riflessione non banali per l'oggi. Scrive Tagliapietra che allora non fu tanto l'entità, pur immensa, della tragedia a fare del terremoto di Lisbona un evento del pensiero oltre che della storia: altri e più terribili cataclismi (il terremoto di Lima del 1746, 20.000 morti, quelli di Qili e Pechino di pochi anni prima, 200.000, quello dei Caraibi del 1693, 60.000, nonché quello dello Huaxian nel `500, 800.000) non lo erano diventati. Fu piuttosto l'effetto di vicinanza a colpire la nascente opinione pubblica europea, amplificato dalla contemporanea espansione del sistema della stampa. Lisbona, che contava all'epoca 275.000 abitanti e govenava un impero già provato dalle guerre coloniali con l'Olanda ma ancora esteso su tre continenti, era la porta dell'Europa sull'oceano e sul Nuovo Mondo, e il suo crollo, puntualmente descritto e comunicato da gazzette e volantini, colpì al cuore l'immaginario dell'espansione e l'ottimismo della conquista. «Il terremoto fu percepito come un evento che, mentre suscitava antichissimi interrogativi sul male, su Dio, sulla natura, la giustizia, il destino dell'uomo, poneva al contempo la cultura europea sulla soglia di qualcosa di nuovo. Sorgeva un mondo in cui si discuterà sempre meno di peccato e di colpa, e sempre più di catastrofe e di rischio, si smetterà di risalire ogni volta alle logiche apocalittiche del diluvio universale e si lasceranno parlare i sistemi descrittivi e gli apparati empirici della geologia e delle scienze della terra». Evento di passaggio: dai piani di Dio alla responsabilità degli uomini. Gli scritti di Voltaire, Rousseau e Kant documentano questo passaggio. La morte dell'ottimismo del migliore dei mondi possibili, decretata da Voltaire nel Poema scritto per l'occasione e nel Candido. La risposta di Rousseau, con il dito puntato sulle colpe dei mortali («la natura non aveva affatto riunito in quel luogo 20.000 case di sei o sette piani») e la speranza spostata dai disegni divini alle possibilità rivoluzionarie umane. L'analisi di Kant, minutamente condotta sulle cause fisiche e geologiche del disastro. Il mondo è nelle mani di chi lo abita: questo si dice, e si impone, la coscienza europea di fronte a una catastrofe che segna l'inizio della modernità. E tuttavia, e contraddittoriamente, nello stesso momento il fantasma della catastrofe si installa nel cuore della modernità stessa: la possibilità permanente del disastro diventa l'altra faccia, il lato d'ombra, l'inconscio persecutorio e minaccioso della responsabilità rivendicata e dichiarata. La modernità nasce in questa tensione fra l'imminenza della catastrofe e le strategie della sua prevenzione e del suo contenimento.

E si rinnova e si ripete in questa stessa tensione, viene da dire di fronte ai dibattiti di oggi sull'apocalisse naturale asiatica, o dell'altro ieri sull'apocalisse politica dell'11 settembre (che non a caso suscitò anch'essa più di un riferimento all'«evento filosofico» del terremoto di Lisbona). Con la differenza che mentre nella nascente opinione pubblica europea dio lasciava il posto alla responsabilità umana, oggi il movimento è piuttosto l'inverso, e sotto varie maschere dio viene invocato a copertura delle responsabilità umane. Un altro segno del processo di decostruzione all'indietro della modernità a cui la post-modernità ci fa assistere. O forse il segno che né le maschere di dio né il totem della responsabilità bastano a fare i conti con la dimensione imperscrutabile della storia che è fatta di caso, accidente, incidente.

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