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Carla Ravaioli
Il patto è scaduto
2 Dicembre 2007
Capitalismo oggi
Il problema cruciale dei nostri anni: questa economia porta il mondo alla distruzione, ma un'altra economia ancor non c'è. Fermare la crescita: e poi? Da il manifesto del 7 ottobre 2005

"La miopia delle élite", è il titolo di un fondo di recente firmato sul Corriere della Sera da Tommaso Padoa Schioppa. In cui si legge tra l'altro: «Le risorse della Terra (dalle foreste ai giacimenti energetici) non potranno non rincarare drammaticamente e infine mancare, se il consumo che ne facciamo continua a espandersi come se fossero illimitate. L'equilibrio della vita non potrà non alterarsi, se quasi due secoli dopo averlo scoperto continuiamo a ignorare l'effetto serra». Intanto un importante convegno milanese - protagonista il Nobel Daniel Kahneman - sollevava seri dubbi sulla ricchezza quale garanzia di felicità, e interrogativi sulla bontà della crescita venivano posti e discussi a Radio 24 Ore. Perfino Legambiente, sempre aliena da ogni riserva sulla crescita, apre un dibattito su Nuova ecologia affermando: «Meno è meglio». La più qualificata informazione straniera è sulle stesse corde. Prima o poi doveva accadere. Dopo anni di libri che chiedono «Sobrietà» (F. Gesualdi), accusano «Il vicolo cieco dell'economia» (J-C. Michéa), interrogano «Sviluppo a tutti i costi?» (C. Hamilton), propongono «Obiettivo decrescita» (M.Bonaiuti), si presentano come «Antimanuale di economia» (B. Maris), incitano «Disfare lo sviluppo» (Arundaty Roy), augurano «Sopravvivere allo sviluppo» (S.Latouche), ecc. Di fronte al lavoro di innumerevoli associazioni che si chiamano «Altreconomia», «Per un'economia diversa», «Finanza etica», «Commercio equo e solidale», ecc. Quando «Decrescita» s'impone come contro-parola d'ordine tra movimenti e gruppi giovanili e dà nome a una nuova rivista. Infatti è accaduto. O quanto meno incomincia ad accadere.

E poi? La domanda me la sono posta infinite volte in qualche decennio di lavoro sulla materia. Criticare la crescita del prodotto significa rimettere in causa l'accumulazione, dunque il capitalismo, dunque l'assetto economico e sociale del mondo, il modo di produrre distribuire consumare di sei miliardi e mezzo di persone. Pur con la più meditata convinzione dell'impossibilità fisica, oltre che logica, di una produzione forzata alla infinita moltiplicazione di se stessa, e con la più motivata certezza non solo dell'assoluta incapacità della crescita a risolvere i problemi sociali d'oggi, ma della sua nocività a tali fini, non ho mai potuto ignorare la terrificante magnitudine della domanda: e poi? Più volte ho anche pensato che la domanda non sia estranea al comportamento di quanti, politici economisti imprenditori opinionisti, continuano a invocare produttività competitività crescita Pil, ignorando ciò che scienziati di tutto il mondo dicono, e loro stessi vedono, non possono non vedere; che sia proprio quella domanda (e poi?) ad atterrirli, a costringerli a guardare altrove, e a recuperare le posizioni consuete. In fondo, così fan tutti...

Temo che questo stia accadendo anche a non pochi tra le fila della sinistra, non solo italiana. In particolare in quella sinistra che, mentre continua ad esprimere la propria condanna dell'attuale «modello di sviluppo», dichiara la necessità di un forte rilancio della produzione e del superamento della crisi, di fatto impegnandosi a rafforzare proprio il modello in essere, e ad esso adeguandosi. Salvo poi impantanarsi tra proposte di operazioni correttive - più salari, più occupazione, meno precarizzazione, contenimento dei prezzi - del tutto incompatibili con un impianto economico che nel massimo sfruttamento del lavoro trova uno dei suoi punti-forza. Illudendosi di tenere ancora in vita una politica a lungo, e non senza successo, praticata dalle sinistre storiche. Un'illusione appunto. Perché quella sorta di patto non scritto che al capitalismo affidava la produzione della ricchezza e alle sinistre consentiva l'impegno di distribuirla il meno iniquamente possibile, è da tempo scaduto. Questo oggi non è più vero. Inutile tentare di giocare le vecchie carte. Oggi una politica di redistribuzione del reddito non ha più corso.

Considerazioni come queste, lo so bene, non sono una risposta alla tremenda domanda «e poi?». E però avere il coraggio di rompere con le vecchie certezze di «sviluppo» salvifico, smetterla di sperare addirittura in un «nuovo modello di crescita» come qualcuno propone, riuscire a recidere quella sorta di schizoide complicità col «sistema» che ha sempre sotteso l'attività delle sinistre (anche quando «morte al capitale!» era il grido di battaglia, «viva la fabbrica!» era, inevitabilmente, l'asse dell'agire politico); insomma rileggere con chiarezza la propria storia , senza scappare dalla domanda «e poi?», può essere un primo passo verso il difficilissimo «che fare», o almeno «che cosa non fare più». E può costituire anche un'attrezzatura mentale per guardare con occhio diverso i problemi attuali. Ad esempio, quando si legge che tra il `94 e il 2003 più di 2,5 miliardi di persone sono state colpite da alluvioni, uragani, desertificazioni, e simili, con un incremento dei fenomeni del 70% in un decennio, rendersi conto che l'ambiente non può essere solo una parola da citare doverosamente nei programmi, ma è una variabile da assumere come decisiva in ogni scelta economica e sociale; non da contrapporre ma da integrare, da sommare addirittura, con i dati su fame, disoccupazione, epidemie nel Sud del mondo. E capire che il neoliberismo non è emendabile; che un'amministrazione di buona volontà può certo correggere o cancellare le più gravi malefatte del malgoverno nostrano, ma non incidere sensibilmente su un mercato sempre più dominato da interessi e vincoli sovranazionali, e men che mai approdare a «un'altra qualità dell'economia», se non si affronta alla radice la doppia débacle ecologica e sociale.

E la radice è il capitalismo neoliberista. «E' tutta una vita che contiamo sulla morte del capitale! Ma le crisi vengono e passano...» Obiettano persone di non sospetta sinistra. Vero. Ma è anche vero che oggi nel mondo stanno accadendo cose insolite. Ne ho elencate un buon numero in apertura. Altre ne aggiungo disordinatamente. Di calamità analoghe a Katrina se ne sono viste molte, ma quando sono gli Usa a rivelasi impotenti di fronte a una devastazione causata dal sistema di cui sono simbolo e guida, è un'altra cosa; e tutti infatti hanno accusato il colpo. Una campagna sindacale mondiale è in atto contro il colosso dei supermercati Wal-Mart : è la prima volta che accade, fino a quando resterà la sola? Fino a quando l'abissale disparità di condizioni di vita e di lavoro tra pezzi di un mondo globalizzato non avrà conseguenze dirompenti? L'oroscopo degli Usa non è roseo, dice a sua volta Paul Samuelson ( L'Internazionale) e ricorda il galoppante debito estero, gli insuccessi irakeni, la guerra come unica garanzia di tener alta la produzione. Fino a quando il mondo potrà continuare a vivere di guerra? Insomma, se l'ambiente sta male, se stanno male due terzi della popolazione del pianeta, nemmeno il capitale gode di gran buona salute. Ma le élites mondiali, nota ancora Padoa Schioppa, hanno lo sguardo corto, e non sembrano avvedersi di tutto ciò. Forse anche loro, alla stessa maniera di gran parte delle sinistre, pensano che la crisi attuale passerà, come sono passate tutte le altre.

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