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Carla Ravaioli
L'insostenibile crescita
2 Dicembre 2007
Capitalismo oggi
Attraverso letture classiche e recenti, da Adam Smith a Claudio Napoleoni a George Soros, questo capitolo (da Un nuovo mondo è necessario, Editori Riuniti, 2002) svela l’insostenibilità del mito che ottenebra molte intelligenze e dirotta molte volontà verso obiettivi nefasti.

Finché la crescita del prodotto sarà l’obiettivo primo del nostro agire economico, anzi dell’intera nostra esistenza, è inutile sperare uguaglianza, o anche solo meno disuguaglianza: più sfruttamento, più povertà, più esclusione, sono i soli strumenti che ancora (non sappiamo per quanto) possono garantire aumento del Pil. E’ inutile sognare un ambiente risanato o anche solo un po‘ meno inquinato e dissestato, perché l’attività produttiva non può cessare di crescere, e insieme alla produzione cresce la quantità di rifiuti ch’essa rovescia sul mondo mentre diminuiscono le risorse non rinnovabili. E’ inutile illudersi che ogni scoperta scientifica e tecnologica venga debitamente testata e controllata nella sua possibile nocività prima di trovare applicazione industriale e diffusione commerciale, perché questo andrebbe a lederne la capacità competitiva e l’immediato aumento della profittabilità. E’ inutile attendere una reale parità tra uomini e donne perché l’organizzazione industriale planetaria non può rinunciare all’attività di “produzione e manutenzione della forza lavoro” dovunque erogata a costo zero dalle donne e integrata nei meccanismi di accumulazione. E’inutile auspicare pace: nell’attuale situazione di crisi dell’accumulazione come categoria portante del sistema, le guerre, grandi e piccole, sono necessarie per far quadrare i conti del mondo.

Questo, semplificato e concentrato con schematicità volutamente apodittica, è ciò che in queste pagine ho cercato di sostenere, e di cui d’altronde non pochi altri si dicono convinti. E non mi riferisco soltanto a un certo numero di ambientalisti, ai rari economisti fuori dal coro, agli intellettuali di varia estrazione già più volte citati. Penso ad esempio al folto gruppo di studiosi dell’Undp (United Nations Development Programme), che valendosi anche di collaborazioni altamente qualificate, ha dato vita a partire dal 1990 alla preziosa serie dei Rapporti annuali sullo Sviluppo Umano, in cui si analizzano e si affrontano i problemi delle società del mondo con una chiarezza di giudizio, un’ampiezza di sguardo, e soprattutto un coraggio che non ha confronti con altri istituti e raramente anche con singoli osservatori indipendenti; non a caso trovando pochissimo ascolto negli ambienti che “contano”, accademici e politici.

Esemplare in questo senso è il Rapporto del 1996, specificamente dedicato alla crescita, che - si afferma - si è imposta nei rapporti economici e sociali come fine a se stessa, e che come tale, nella sua mera dimensione quantitativa, politici e responsabili di governo perseguono ciecamente, senza preoccuparsi della sua qualità né delle sue conseguenze, anche quando ne sia già accertata la negatività, senza “sforzarsi di evitare una crescita senza lavoro, senza equità, senza libertà, senza radici e senza futuro.” Quando invece sarebbe dovere di chi detta la linea politica ed economica di un paese “domandarsi via via dove la crescita lo sta conducendo, e chi ne trarrà beneficio. La crescita sta creando lavoro? Sta aprendo opportunità per le future generazioni? Risponde alla cultura locale? La gente è partecipe di questo processo?” Insomma - si insiste - che senso ha auspicare crescita senza indicarne fini, contenuti, conseguenze? Senza in sostanza porsi le domande che gli stessi fatti dell’economia dovrebbero suggerire: “Crescita di che cosa, e per chi? Crescita di inquinamento che richieda altri dispositivi antinquinamento? Crescita di criminalità che impieghi schiere di poliziotti? Crescita di incidenti d’auto che comporti tante riparazioni? Crescita di reddito solo per i più ricchi? Crescita di armamenti militari? Non è proprio questo che la gente vuole, e però tutto questo è parte della crescita del Pil.” (1)

Critiche alla crescita come fine primo e irrinunciabile dell’ economia sono state d’altronde formulate in tempi non sospetti - sia pure in termini più moderati, anche perché rapportate a situazioni molto lontane dalla nostra - addirittura dai padri fondatori della disciplina economica. A partire da Adam Smith il quale, pur usando il reddito individuale come indicatore sintetico dello sviluppo economico, non considerava affatto il dato economico strettamente determinante della realtà di un paese sotto tutti gli aspetti. Lo ha notato nel suo lavoro più recente Paolo Sylos Labini: “In tutta ‘La ricchezza delle nazioni’ - scrive - scorre l’idea che lo sviluppo economico è un obiettivo desiderabile solo se serve a promuovere lo sviluppo civile, che è un concetto ben più importante e più ampio, giacché include non solo la ricchezza, la salute e l’istruzione, ma anche la libertà culturale e politica.”(2) E, a conferma di questa posizione che oggi tutti giudicherebbero economicamente eretica, cita un brano tratto dalla “Teoria dei sentimenti morali”: “Che cosa si può aggiungere alla felicità di un uomo in salute, privo di debiti e con la coscienza a posto? In tale situazione ogni ulteriore fortuna può appropriatamente essere detta superflua, e se egli si esalta per tale superflua aggiunta, ciò deve essere l’effetto della più frivola leggerezza”. (3)

Ma a riprendere il discorso di Smith, e a spingerlo su una linea ben più radicale, è John Stuart Mill. Non solo elaborando la nota teoria dello “stato stazionario”, che necessariamente dovrebbe succedere allo “stato così detto progressivo”, in quanto - come, a suo avviso, tutti gli economisti dovrebbero “più o meno distintamente” vedere - “l’incremento della ricchezza non può essere illimitato”, ma con coraggio intelligenza e ironia illustrandone i pregi rispetto al mondo in cui si ritrova. Non gli piace, dichiara, “l’ideale di vita di coloro che pensano che la condizione normale degli uomini sia quella di una lotta per andare avanti; che l’urtarsi e lo spingersi gli uni con gli altri, che rappresenta il modello esistente della vita sociale, sia la sorte maggiormente desiderabile per il genere umano, e non piuttosto uno dei più tristi sintomi di una fase del processo produttivo”; teme il rischio che la bellezza della Terra “venga distrutta dall’aumento illimitato della ricchezza e della popolazione” e che più “nulla sia lasciato all’attività spontanea della natura”; si scusa pertanto per essere tra quelli che “rimangono relativamente indifferenti al tipo di progresso economico che suscita di solito le congratulazioni dei politici: il semplice incremento della produzione e della accumulazione”. (4)

Non accetta tuttavia che il “modo di pogresso umano” del suo tempo debba essere definitivo. E insiste: “spero sinceramente che i nostri discendenti si accontenteranno di essere in uno stato stazionario molto prima di trovarsi costretti ad esso dalla necessità”. Precisando però che “condizione stazionaria del capitale e della poplazione non implica affatto uno stato stazionario del progresso umano”, ma al contrario signfica più spazio per il progresso umano e sociale, e per “perfezionare l’arte della vita”, ciò che sarebbe molto più facile se le menti umane “non fossero più assillate dalla gara per la ricchezza”. Nel frattempo concedendosi di sognare qualcosa di simile a quello che i “No glob” invocano come “un mondo diverso”: freno della crescita demografica, niente enormi fortune, lavoratori ben pagati, orari di lavoro più brevi, tempo libero sufficiente per dedicarsi alle cose amene, e soprattutto migliore distribuzione, leggi che favoriscano l’uguaglianza. Auspicando che per lo meno “finché la ricchezza continuerà a rappresentare il potere, e il diventare più ricchi possibile continuerà ad essere oggetto della ambizione universale, la via per giungere alla ricchezza sia aperta a tutti.”(5)

Come si vede, i primi teorici del capitalismo non sembrano concepirlo come un sistema economico così necessariamente fondato sulla propria ininterrotta esponenziale valorizzazione, alla maniera in cui oggi viene rappresentato; al contrario mostrano di ritenere possibile, e desiderabile, una società in cui l’accumulazione di richezza non si ponga più, né per i singoli nè per la collettività, come l’obiettivo supremo, e in cui vengano privilegiati altri valori e altri piaceri; in cui soprattutto la ricchezza non sia più appannaggio di pochi. Con accenti che parrebbero pensati come la più calzante e puntuale critica del nostro mondo.

Queste idee sono poi destinate a trovare il loro più completo e ricco dispiegamento nel pensiero di Keynes, autore celeberrimo della cui opera però – e davvero non senza motivo – sono note e ampiamente seguite solo quelle parti che, prese a sé stanti, potevano risultare omogenee all’economia dominante e quindi utilizzabili al sostegno delle sue politiche; come ci fa notare Giorgio Lunghini nel poporre e commentare la pubblicazione italiana di un prezioso gruppo di suoi saggi “minori”, apparsi tra le due guerre. In realtà tutta la sua opera è pervasa non solo da una netta severità di giudizio, ma perfino da una sorta di aristocratica insofferenza nei confronti del capitalismo. “Non è intelligente, né bello, né giusto, né virtuoso, né si comporta come dovrebbe. In breve non ci piace e anzi stiamo cominciando a detestarlo”(6), scriveva nell’ immediato dopoguerra; e se lo sopportava, e anzi si impegnava ad aggiustarlo in qualche modo, era solo perché non vedeva come sostituirlo, almeno per qualche tempo ancora, fermamente rifiutando però di credere alla ineluttabilità delle sue “leggi”. E di questo ampiamente ci parla in “Prospettive economiche per i nostri nipoti”. Dove, riflettendo sul “processo di accumulazione secondo l’interesse composto” verificatosi a partire dal XVI secolo - una quantità “da far vacillare la fantasia” - si dice convinto che “l’umanità sta procedendo alla soluzione del suo problema economico”.

Quando ciò avverrà, quando cioè “l’accumulazione della ricchezza non sarà più un importante problema sociale”, e potremo considerarci “fuori dal tunnel della necessità economica”, la vita umana potrà trasformarsi. Allora “dovremo avere il coraggio di assegnare alla ‘motivazione’ danaro il suo vero valore. L’amore per il danaro come possesso, e distinto dall’amore per il danaro come mezzo per godere i piaceri della vita, sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche, che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali.” Fino allora dovremo accettare usura, avarizia, amore del danaro fine a se stesso, e conservare tutte quelle pratiche economiche che, per quanto turpi e ingiuste in sé, sono però “utilissime nel produrre e accumulare capitale” e nel “determinare la distribuzione della ricchezza”. “Ma il momento non è ancora giunto,” diceva. “Per almeno altri cent’anni dovremo fingere con noi stessi e con tutti gli altri che il giusto è sbagliato e che lo sbagliato è giusto, perché quel che è sbagliato è utile e quel che è giusto no.” (7)

Correva l’anno 1930. Cento anni non sono ancora trascorsi. Keynes, morto nel 1946, non ha assistito a quella rivoluzione tecnologica che ha scardinato l’organizzazione del lavoro, spalancato voragini nelle statistiche dell’impiego, buttato all’aria regole da sempre date per indiscutibili; non è stato testimone di quello sconvolgimento planetario che l’informatica ha consentito e che abbiamo chiamato globalizzazione; non si è trovato di fronte al tremendo guasto dell’ambiente, lui che prima della guerra si preoccupava di proteggere i monumenti e la bella campagna inglese, ma già allora aveva capito che “le bellezze naturali non hanno valore economico”; non ha visto lo sfrenarsi del consumismo, il moltiplicarsi di vite divorate tra produzione e consumo, cui solo le merci (da fabbricare vendere acquistare possedere usare gettare) sembrano dare ragione e senso, lui che invitava il suo prossimo a dedicarsi a impegni “non economici” una volta soddisfatti i bisogni essenziali, e a “coltivare l’arte della vita”. Soprattutto non ha saputo come clamorosamente e beffardamente la storia avrebbe smentito la sua convinta previsione secondo cui “l’umanità stava procedendo alla soluzione del suo problema economico”; come la soluzione si sia in realtà avverata ma solo per una minoranza, e come l’enorme quantità di ricchezza prodotta non sia riuscita a sconfiggere l’iniquità del mondo. Forse, se avesse avuto vita, molto prima che trascorressero i cent’anni previsti Keynes avrebbe deciso che “l’accumulazione della ricchezza non riveste più un significato sociale importante”. (8)

Oggi politici, economisti, e quanti con l’economia hanno rapporti attivi e decisionali, non debbono affatto “fingere con sè stessi e con tutti gli altri che il giusto è sbagliato e che lo sbagliato è giusto, perché quel che è sbagliato è utile e quel che è giusto no”, come Keynes riteneva - per qualche tempo ancora - inevitabile. Semplicemente sono convinti che solo l’utile sia giusto, e identificano l’utile con l’accumulazione, incredibilmente ancora fiduciosi del suo “significato sociale”. O quanto meno si comportano e si esprimono come se così fosse. Con qualche eccezione. Che non riguarda solo i non molti economisti ecologisti, già sopra citati, e i rari economisti su posizioni di radicale condanna dell’ordine oggi imperante, essi pure più volte menzionati, ma anche alcuni altri del tutto privi di propensioni estremizzanti e però con uno spiccato interesse verso i problemi sociali, i quali nei loro ultimi lavori hanno assunto posizioni decisamente critiche nei confronti della valutazione della crescita come un fatto in sé innegabilmente positivo.

E’ il caso di Giorgio Fuà il quale, nel suo libro intitolato appunto “Crescita Economica”, dopo un’ampia analisi della scarsa validità del Pil come indicatore di benessere e la proposta di usare in sua vece “una nozione di prodotto sociale”, giunge a “domandarsi se l’oggetto studiato – la crescita della produzione di merci – meriti davvero tutta l’attenzione che economisti, politici e pubblico in generale continuano a dedicargli”. Perché, sostiene, ciò che aveva ragion d’essere in una situazione storica in cui la produzione era certo “uno dei fattori principali (anche se non l’unico) da cui dipendeva il benessere”, non vale più oggi, soprattutto nella “parte ricca del mondo”, dove la vastità dei mercati e la quantità di merce prodotta “hanno raggiunto dimensioni tali che ulteriori aumenti non presentano più connotati così nettamente positivi dal punto di vista del benessere della popolazione”: oggi, dice, “dobbiamo smettere di privilegiare questo tema e dedicare maggiore attenzione ad altri temi”. E non accetta il riferimento alla povertà dei paesi terzi come alibi all’inseguimento della crescita, affermando che occorre “contrastare la concezione imperante per cui un singolo modello di sviluppo e di vita (oggi quello centrato sulla crescita delle merci) viene proposto ed accettato come l’unico valido; e apprezzare che ogni popolazione cerchi la via meglio corrispondente alla sua storia, ai suoi caratteri, alle sue circostanze, e non si senta inferiore ad un’altra per il solo fatto che quella produce più merci.” (9)

E’ il caso anche di Paolo Sylos Labini. Fedele a quello che chiama “l’approccio smithiano”, cioè alla necessità per la scienza economica (necessità oggi ampiamente disattesa) di aprirsi alle altre discipline sociali e utilizzarne le analisi, più volte nella sua vasta opera si è trovato a considerare la gravità delle ricadute negative del sistema industriale e della crescita produttiva, in particolare per quanto attiene il dissesto dell’ambiente (10). Ma di recente ha assunto posizioni di dichiarata condanna nei confronti dello sviluppo economico “visto come un bene assoluto”, anche in rapporto ai paesi più poveri. Certo “Lo sviluppo rappresenta un obiettivo socialmente fondamentale fino a quando il reddito individuale della maggioranza della popolazione non raggiunge un certo livello critico. Dopo che la gente in generale è in grado di soddisfare i bisogni essenziali, e di ottenere un certo ammontare di comodità, lo sviluppo economico diviene sempre meno importante e il consumismo tende a diffondersi e ad assumere connotati patologici (…) e cresce in modo tumultuoso il fiume di beni frivoli e perfino dannosi.” Insomma “per i paesi progrediti – circa un quinto dell’umanità – lo sviluppo non è più un obiettivo importante sotto l’aspetto della disponibilità dei beni.” Non si deve inoltre dimenticare che lo sviluppo “Nel suo corso distrugge molti valori tradizionali e determina mutamenti profondi nei modi di vita e nei sistemi di idee: l’ininterrotto processo di adattamento non può svolgersi senza gravi pene”. (11)

Già parecchio prima anche Claudio Napoleoni si era posto domande su questo tema cruciale, e nell’86 - a un paio d’anni dalla sua morte, avvenuta nell’88 - senza esitazioni affermava: “La crescita produttiva materiale, da un certo punto in poi, è sempre creatrice di malessere, anziché di benessere”; e aggiungeva che la crescita non è difendibile nemmeno a favore dei paesi poveri, che vengono costretti ad adeguarsi a “modelli improponibili”, e “condannati a una rincorsa nella quale essi sono sempre e necessariamente perdenti.” (12) E nell’87 ribadiva: “E’ dimostrato che la crescita indefinita di beni materiali da un lato incontrerebbe limiti invalicabili nella esauribilità delle risorse, dall’altro comporterebbe crescenti costi ambientali.” (13).

Un’altra bocciatura drastica e senza attenuanti della crescita viene formulata da uno di coloro che ho indicato come i “critici-complici” del sistema economico attuale, cioè Edward N. Luttwak. Con il pragmatismo al limite della brutalità che gli è proprio, dopo avere ripetuto che l’iniquità è intrinseca alla struttura stessa del “turbocapitalismo”, attacca quanti si dicono convinti che il sistema abbia la soluzione anche per questo problema, e la proponga anzi come “panacea di ogni male”: essa dovrebbe consistere “in una crescita economica perenne e sempre più sostenuta, grazie a nuova teconologia, nuova liberalizzazione e nuova globalizzazione” . Ma non si vede a che serva “il precetto di una crescita più rapida”: in realtà “nessuno spiega né come mantenere elevata nel tempo tale crescita, né perché dovrebbe ridurre le disuguaglianze anziché farle aumentare ancor più (…) E’ illogico ritenere che un processo che si è tradotto in un determinato risultato, in questo caso l’aumentare delle disuguaglianze, solo perché ulteriormente accelerato possa improvvisamente iniziare a generare il risultato contrario”. E conclude affermando “il ricorso ai poteri dello Stato” per “una politica di ridistribuzione del reddito” come “l’unico rimedio possibile all’incessante gonfiarsi delle disparità”, e in sostanza “la necessità di superare questo modello economico”. (14)

Le citazioni potrebbero continuare. Ma, al di là delle non poche posizioni critiche nei confronti della crescita come precetto di un’economia dimentica della propria funzione di servizio e sempre più lontana dalla sua stessa identità di disciplina sociale, si avverte ormai insistente l’insofferenza della realtà quotidiana che per tutti ne consegue. E’ una sorta di insostenibilità culturale, ma anche pratica, sperimentata nella ferialità quotidiana, di un’accumulazione che da astratta categoria economica si fa cumulo concreto di oggetti, sopraffattorio totalitarismo delle cose, inevitabilità della merce; e che trova qua e là voce, anche se spesso incerta, inadeguata, espressione di generico malessere magari affidata alle parole di un cantautore o alle gag di un comico, segnale comunque da non ignorare. Non mancano d’altronde, e si fanno frequenti, anche voci consapevoli e perspicue, a dirne il disagio e la irrimediabile insensatezza.

Esemplare in questo senso è il discorso pronunciato l’aprile scorso, in non so quale occasione celebrativa svoltasi a Roma nella sede del Senato, da Vaclav Havel, presidente della Repubblica Ceca. Ne riporto alcuni brani tra i più significativi: “Quanto è liberatorio, bello e salutare saper dire che non si capisce il mondo, che ci si tormenta per questo, che ci si stupisce di fronte ad esso e non lo si comprende! (…) Perché non stupirci osservando i giovani che non sanno più trascorrere neanche un minuto della loro vita senza i telefoni cellulari? Perché non stupirci vedendoli stare ore e ore a contatto quotidiano con una macchina piuttosto che con un essere umano? Perché non stupirci di fronte al fatto che produciamo energia atomica e poi non sappiamo come smaltire le scorie nucleari? Perché non stupirci vedendo scomparire i boschi, riflettendo sull’aria sempre più inquinata, sul fatto che la gente vive in enormi agglomerati senza il senso della comunità e senza alcuna regola morale? Perché non stupirci della crescita continua della produzione di automobili che ormai paralizzano il traffico in ogni capitale europea? Perché non stupirci del nostro proprio stupore di fronte alla constatazione di quanto e con quale facilità l’arma biologica riesca a distruggere continenti interi, quando siamo noi stessi a costruire queste armi nei nostri laboratori? Perché non stupirci che sempre meno persone – in Europa, in America, in Asia – producano valori concreti e sempre più persone nel contempo si occupino solo di speculazione, diventando ancora più ricchi di chi è in grado di produrli?”( 15) Non riesco a immaginare le reazioni dei presenti. Scandalo, sdegno contenuto, freddi sorrisi di circostanza, pochi doverosi applausi, la cinica indifferenza di sempre? Forse soltanto disattenzione, carte sfogliate, qualche pettegolezzo sussurrato al vicino, ostentata noia. Bisogna pur difendersi da discorsi insoliti e disturbanti.

Non con la sensibilità scoperta e un poco ingenua di un prezioso intellettuale prestato alla politica, ma con solidi argomenti scientifici, dice cose molto simili il fisico teorico Luigi Sertorio nella sua recente “Storia dell’abbondanza”. In essa percorre la vicenda del rapporto tra specie umana e natura, nei millenni svoltosi in condizioni di equilibrio obbediente alle leggi biologiche, fino alla rottura segnata dall’avvento dei motori termici azionati dai combustibili fossili, che ha dato il via all’era tecnologica con “la creazione di strumenti tanto potenti da modificare l’ecosistema proprio nella direzione dannosa per l’uomo”, aprendo all’economia prospettive senza precedenti e consentendo al capitale di accrescere a dismisura se stesso; moltiplicando la produzione di oggetti destinati rapidamente a trasformarsi in rifiuti, e riducendo ogni essere umano a mero consumatore, cioè un canale che collega “un contenitore di risorse, sempre più vuoto, a un contenitore di scorie, sempre più pieno”; incidendo sulla collettività fino a modificarne senso comune e principi etici: “Il benessere è divenuto crescita dei consumi (secondo gli economisti), il consumo è divenuto sinonimo di benessere, e quindi il consumo è divenuto etica”.(16)

In questa critica all’insensatezza della generale ubriacatura efficientistica produttivistica consumistica, a stupirci ancora una volta è Luttwak, da una vita fedele servitore dello Stato americano. “Il libero commercio come ideologia”, “Il danaro come religione”, “Lo shopping come terapia”: così si intitolano tre capitoli del suo libro qui più volte citato, e bastano pochi brani a illustrarne i contenuti. “Molti economisti contemporanei ignorano semplicemente l’eventualità che alcuni preferiscano vivere in un paese dall’economia un po’ meno efficiente (….) danno implicitamente per scontato che le società esistano allo scopo di servire le esigenze della propria economia, anziché l’esatto contrario, e non attribuiscono quindi alcuna importanza alla stabilità dell’occupazione (contano i livelli di profitto), alla preservazione delle tradizioni o alla necessità di evitare che le disparità in termini di reddito e di benessere divengano enormi” (17). “L’essenza politica (del turbocapitalismo) consiste nel trasferimento del potere dalle pubbliche autorità agli interessi economici privati e istituzionali. Ciò riduce inevitabilmente lo spazio di manovra del controllo democratico (…) L’ambiente sociale è sempre più lasciato alla terra di nessuno degli affari privati. Ciò rispecchia la caratteristica più sorpredente di questa nostra epoca turbocapitalistica: il progressivo deteriorarsi del primato della democrazia sull’economia.” (18) “Gli americani si rendono schiavi dei debiti per accumulare ogni sorta di articoli inutili, da potenti autocarri utilizzati come autovetture a statuine di porcellana acquistate in qualche televendita notturna (…) Per pagarsi la loro propensione all’acquisto lavorano ogni anno per un numero di ore superiore a quello di qualunque altro popolo (…) E’ vero che alcuni traggono dal proprio lavoro una soddisfazione tale da vivere per lavorare, ma fra coloro che invece lavorano solo per vivere, molti sono a caccia di straordinari, o perfino di un secondo lavoro, sacrificando la libertà personale e la vita privata pur di poter consumare di più.” (p.19)

George Soros dal canto suo accusa “il malessere e l’instabilità costitutivi di un orientamento di mercato che tutto compenetra”, e spiega: “Incerte sul loro stesso essere, le persone si appoggiano sempre più sul danaro come criterio di valore. E’ considerato migliore ciò che costa di più. Il valore di un’opera d’arte è stabilito in base al prezzo. Le persone meritano rispetto e ammirazione perché sono ricche. Quello che è sempre stato un mezzo di scambio ha usurpato il posto dei valori fondamentali, rovesciando il postulato della teoria economica. Quelle che sono sempre state delle professioni si sono trasformate in affari. Il culto del successo ha preso il posto della fiducia nei principi. La società ha perso il suo punto di riferimento.” (20)

Ma a scrutare in profondità l’”apocalisse culturale” verificatasi sul pianeta Terra nel secolo scorso, in sintonia con la ragione economica e in sua funzione, è Marco Revelli con “Oltre il Novecento”. Cercandone le cause più lontane e all’interno di un’analisi complessa, tra violenze, contraddizioni, catastrofi politiche, cogliendole nel “senso dell’illimitato”, nella “totale assenza di limiti posti alla produzione” fino all’”idea di una totale fabbricabilità” della natura, che qualificano il paradigma socio-economico dell’ultimo capitalismo. Accusandone la costante incongruenza tra mezzi e fini, per cui i fini vengono sopraffatti dall’ ingovernabile potenza dei mezzi, lo strumento tecnologico prevale su ogni scopo e idea, distruttività e produzione obbediscono alla stessa razionalità, e trovando nell’archetipo dell’ “Homo faber” il protagonista e il simbolo della volontà prometeica che lo muove. “Il peccato capitale del XX secolo – il luogo genetico del ‘mostruoso’ che in esso si è rivelato e, insieme, dell’irresponsabilità nei confronti di esso, dell’ incontrollato e dell’eticamente inerte – non sta tanto (o comunque non sta solo) nel delirio dell’ ‘homo ideologicus’, nelle dinamiche visionarie di una volontà malata di irrealismo, di mito e di utopia, ma piuttosto nella pratica smodata e incapace di limiti dell’ ‘homo faber’. Nel ‘realismo’ della sua razionalità irragionevole, trabordante, onnivora. Nella totalizzazione di quella ‘creatività distruttrice’ che connota appunto lo statuto del lavoro senz’opera, del lavoro resosi autonomo da ogni determinazione di contenuto e di senso del suo uso che non sia la mera efficienza, la pura e semplice assolutizzazione del ‘fare’.” (21)

Cose molto simili pensava Claudio Napoleoni. E’ soprattutto in un’ampia e complessa intervista apparsa nell’87 su “Palomar”, che a lungo si sofferma sul tema dei rapporti tra economia e società, con il tono discorsivo e frantumato di chi pensa a voce alta: “La centralità dell’economico…. non si può che prenderne atto, non possiamo chiudere gli occhi di fronte a questa realtà. Però … questa centralità va negata. Con questa avvertenza tuttavia… che sembra solo terminologica, ma le questioni teminologiche non sono mai in realtà solo nominali… Cioè ‘economico’ è una parola molto equivoca.. ‘economico’, ‘economia’, ‘economicità’, sono parole tutte equivoche per una ragione sostanziale. Il complesso di categorie, di discorsi, di ragionamenti, di leggi, di modelli, che appartengono a questo linguaggio sono stati pensati ed elaborati con riferimento ad una realtà sociale determinata, che è quella capitalistico-borghese. Il discorso economico prende consistenza e autonomia proprio in corrispondenza del prender consistenza e dell’autonomizzarsi della vita produttiva, del momento produttivo come dimensione predominante e prevaricante sulle altre.” E allora interrogarsi sulla centralità dell’economico diventa una domanda tautologica, dato che l’economia è questa. “Resta il problema se l’economia possa essere concepita in altro modo,” dice, e continua a riflettere: “Bisognerebbe probabilmente pensare ad un’economia in cui il momento dell’abbondanza – perciò della quiete in qualche modo, della tranquilla fruizione di ciò che si è conseguito – non si configura solo come necessaria base per andare avanti, ma come pacificazione, almeno relativa, rispetto ad una certa condizione storica”. E cita Keynes e Stuart Mill, l’ipotesi di uscita dallo stadio della crescita per entrare nello stato stazionario. Ma occorre tener presente che “uscire dal mondo della produzione significa in fondo uscire dal mondo dell’aggressione”, secondo “una linea in cui l’affermazione della soggettività non solo non coincide con l’affermazione del dominio, ma se ne distingue radicalmente”, e “diventa un’operazione che non si svolge più sotto il segno del soggettivismo”. E ciò significa in definitiva “recepire, confermare, accettare, tenere conto fino in fondo che l’uomo è un finito. Quindi accettare la finitezza non come negatività. Che però, diciamo, è il contrario dell’intera cultura occidentale”. (22)

Note

1)Undp. Human Developpment Report 1996, p. 5

2)Paolo Sylos Labini, Sottosviluppo. Una strategia di riforme, Laterza, Roma-Bari 2001, p.27;

3) Adam Smith, Teoria dei sentimenti morali, Roma, Istituto della enciclopedia italiana, 1991 p. 58, citato da P. Sylos Labini, Adamo Smith, Relazione, op. cit.

4)John Stuart Mill, Principi di Economia Politica, UTET, Torino 1980, cap.VI, pp. 997-1003, passim.

5) Idem. pp. 1001-1002.

6) John Maynard Keynes, Esortazioni e profezie, Il Saggiatore, Milano 1983, p.12.

7) John Maynard Keynes, Prospettive economiche per i nostri nipoti, in John Maynard Keynes, La Fine del Laissez-faire e Altri Scritti, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp.57-68, Passim.

8) Ibidem.

9) Giorgio Fuà, Crescita economica – Le insidie delle cifre, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 106-108, passim.

10) Cfr. Paolo Sylos Labini intervistato in: Carla Ravaioli, Il pianeta degli economisti, op. cit. pp.106-107, 119-122, 156, 185; Paolo Sylos Labini, I limiti della crescita, in Carla Ravaioli (a cura di) Lettera aperta agli economisti, op. cit. pp. 135-139.

11) Paolo Sylos Labini, Sottosviluppo, op. cit. p.142

12) Claudio Napoleoni, Come vorrei il 1987, in “Atti del Forum economico di Saint Vincent”, Supplemento a “I libri del Mondo”, n.1-2, gennaio 1987, pp. 91-93.

13) Cfr. Carla Ravaioli, Tempo da vendere, tempo da usare, op. cit. in appendice alla 2° e 3° edizione, La politica degli orari di lavoro, dialogo con Claudio Napoleoni.p.161

14) Edward N. Lutwak, La dittatura del capitalismo, op. cit. pp. 269-270.

15) Vaclav Havel, L’occidente e l’ossessione del nulla, in “La Repubblica” 5 – 4- 2002, p. 1-14.

16) Luigi Sertorio, Storia dell’abbondanza, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p. 140.

17) Edward N. Lutwak, La dittatura del capitalismo, op. cit., p.214

18) Idem, p.219.

19) Idem, p.240

20) George Soros, La società aperta rivisitata, in “Reset”, n.34, Febbraio 1997, p.33.

21) Marco Revelli, Oltre il Novecento – La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino 2001, p.57

22) La libertà del finito nel “Discorso sull’economia” di Claudio Napoleoni, Conversazione con Claudio Napoleoni, op. cit. pp.15-17

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