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Carla Ravaioli
Forse l’Europa
4 Dicembre 2007
Capitalismo oggi
“Sembrano sogni e forse lo sono. Ma resto convinta che, come diceva Napoleoni, ‘Posti a livello minore, i problemi non hanno risposta’”. Così Carla Ravaioli conclude il suo libro Un nuovo mondo è necessario, Editori Riuniti, 2002 (introvabile in libreria)

Forse l’Europa

“Sembrano sogni e forse lo sono. Ma resto convinta che, come diceva Napoleoni, ‘Posti a livello minore, i problemi non hanno risposta’”. Così Carla Ravaioli conclude il suo libro Un nuovo mondo è necessario, Editori Riuniti, 2002 (introvabile in libreria)

Sono pienamente consapevole che tutto ciò possa essere recepito come la vanità dell’ultima favola imbastita in funzione autoconsolatoria. Oppure non essere recepito affatto, venire ignorato non tanto per sprezzante disinteresse, ma per totale mancanza di quel minimo di sintonia, di affinità mentale, che l’atto del conoscere, o anche la semplice disponibilità a conoscere, richiede.

Sono pienamente consapevole degli immani ostacoli che si frappongono tra un mutamento come quello qui sommariamente tracciato e anche solo l’ipotesi della sua attuazione. Ostacoli che non sono soltanto quelli cui immediatamente si pensa: i grandi poteri economici attivi a livello transnazionale; un’America che risponde interamente della loro prosperità, e di questo fine ha fatto corpo e anima della sua politica mondiale, ad esso inchinandosi come a una fede; le alte sfere del management politico, moderni capitani di ventura che si muovono tra i massimi istituti-guida dell’economia mondiale, alla loro continuità prestando saperi e spregiudicatezza; la grande maggioranza degli economisti, ascoltati “consiglieri del principe”, che alle teorie neoliberiste forniscono il loro sofisticato supporto; i milioni di imprenditori di ogni sorta, grandezza, nazionalità, che anche loro caparbiamente si dedicano a mercato, crescita, competitività, Pil, e ne vivono, non solo materialmente, ma con l’appassionato fervore di una religione.

Accanto a tutti costoro ci sono anche le popolazioni della Terra intera che a questa religione sono state iniziate, convinte dal potere seduttivo delle cose e dalla loro capacità di sopperire a identità sempre più precarie; sono gli ex-poveri che non solo sacrosantamente difendono il raggiunto benessere, ma strenuamente rifiutano di distinguerlo dai vizi dell’iperconsumo; sono i poveri che il sistema-mondo con i suoi onnipresenti poteri massmediatici ha nutrito di sogni sbagliati, e di quelli soltanto. Quanti, di tutti costoro, sono disponibili a un’operazione che non può più ignorare i limiti fisici del pianeta, e di conseguenza non può prescindere da un drastico contenimento del dispendio di natura, vale a dire dalla riduzione della produzione materiale complessiva, che non può non tradursi in un forte taglio dei consumi dell’Occidente? Quanti sono disposti a credere che la lotta contro la povertà passa necessariamente attraverso la lotta contro gli sprechi dell’Occidente, che sono anzi le due facce di un’unica battaglia, perché la quantità di natura di cui disponiamo non consente l’allargamento del livello di consumo occidentale a tutta l’umanità? Quanti sono disposti a convincersi che insistere su questa strada significa correre verso un futuro di catastrofi, di cui i poveri come sempre saranno i primi a soffrire? Quanti sono disposti a rinunciare ai loro sogni sbagliati?

Messi a confronto con questo sconfinato panorama di umanità più o meno conquistata dal credo neoliberista, quanto pesano i soggetti del dissenso e della protesta? Il movimento “No glob” costituitosi in World Social Forum, e via via in Forum continentali nazionali locali, va crescendo, è presente e attivo con le sue molteplici voci, provenienti da tutto il globo; e sempre più numerosi sono i sindacati che vi aderiscono, i movimenti pacifisti, le associazioni femministe, le unioni ambientaliste, le Organizzazioni non governative, le formazioni del “Terzo settore”, i gruppi di volontariato, nei modi più vari impegnati a porre qualche riparo alle nequizie del mondo. E accanto a loro vanno annoverati i non pochi mondi del Sud che hanno sperimentato crescita e sviluppo e oggi li rifiutano più nettamente di quanti non sono mai emersi dall’ indigenza. Nè mi pare improprio mettere in conto anche dubbi e interrogativi circa i miracoli del neoliberismo che da qualche tempo (lo accennavo sopra, portando al proposito diverse testimonianze) vanno affacciandosi in numero non trascurabile anche da tribune in piena sintonia con l’establishment, o addirittura appartenenti ad esso: da un lato l’impressionante susseguirsi di catastrofi ecologiche, dall’altro l’intensificarsi delle rivendicazioni “antisistema”, oltre all’incombere del rischio terrorismo, hanno creato un clima per cui tra le fila dell’alta imprenditività del mondo si parla più o meno abitualmente ormai di impatto ambientale e perfino di impatto sociale, mentre non lievi perplessità vanno emergendo circa l’operato degli istituti internazionali preposti allo “sviluppo”. Secondo orientamenti e umori fino a qualche tempo fa del tutto desueti, che l’impressionante catena di scandali e fallimenti contribuisce ad alimentare, e che anche la stampa più “conforme” non manca di registrare. E però – insisto – quanto può valere tutto ciò quando sull’altro piatto della bilancia pesano i massimi poteri economici, militari, culturali, mediatici, con gli Stati Uniti in testa, e al seguito il Canada, l’Australia, buona parte dell’Asia, l’Europa?

Ecco, l’Europa. Sempre per l’Unione europea sono gli Stati uniti il termine di paragone, il modello da invidiare e impegnarsi ad eguagliare, il referente cui rapportare e valutare il proprio operato. Ed è sempre il confronto con gli Usa il pretesto dei continui rimbrotti che da ogni parte le vengono rivolti, per inadeguatezza economica scientifica e tecnologica, scarsa competitività, incapacità di protagonismo, e delle conseguenti sollecitazioni a darsi maggiore efficienza e coraggio, ad imporsi nella gara a chi arriva primo sui mercati della globalizzazione, e così via. Valga ad esempio un brano scelto nel modo più casuale tra mille altri equivalenti e intercambiabili, apparso sul “Corriere della sera” in occasione del Summit Nato svoltosi in Italia lo scorso maggio: “Gli europei piangono lacrime di coccodrillo sulla loro emarginazione. La loro tecnologia diventa ogni giorno meno compatibile con quella americana, i loro bilanci della difesa stentano a raggiungere il 2 per cento del Pil, mentre quello Usa viaggia verso il 3,7. Raccogliere la sfida o diventare comparse, questo è il dilemma atlantico degli europei che investe anche l’Unione.” (1)

Eccezioni a queste posizioni esistono. Ho citato sopra René Passet, il quale affermando la necessità di sottrarre al mercato la gestione di tutti i settori di interesse collettivo, e a tal fine riaprire una prospettiva di intervento statale nell’economia, indica l’Unione europea come un blocco di paesi in grado di avviare una politica di questo tipo e proporla al resto del mondo. Considerazione più che plausibile non solo per la forza economica che complessivamente l’Unione rappresenta, e dunque per il potere nel senso più comunemente inteso e di solito concretamente attivo (l’Euro ad esempio già dimostra di poter sostenere il confronto con il dollaro), ma per la tradizione culturale e sociale che può vantare. Dopotutto in Europa è nata la cultura che ha conquistato e costruito l’intero Occidente, e che oggi paradossalmente il vecchio continente reimporta e fa propria, per lo più in forma depauperata, scaduta e involgarita, accettando la cosa (le eccezioni sono rarissime e deboli) come un fatto del tutto ovvio, legittimato dalla supremazia del paese di provenienza. E sempre in Europa, patria del capitalismo ma anche del socialismo, ha avuto origine e sviluppo una reazione sociale che in qualche misura ha saputo tener testa all’arroganza padronale, dando spazio e diritti anche alle ragioni del lavoro, fino alla conquista del welfare state. Tutto ciò parrebbe fare dell’Europa un soggetto capace di contrapporsi a un sistema come il neoliberismo, indiscusso impero delle merci che tutto, lavoro sapere persone, riduce a merce, e di contrastarne almeno gli aspetti più perversi.

In maniera del tutto inattesa un contributo a questa ipotesi ci giunge, sia pure in termini diversi, da un personaggio famoso quanto discusso come Francis Fukuyama, filosofo e politologo che ha lavorato a lungo e in vario modo per l’amministrazione americana. Aveva asserito e con la massima convinzione comunicato al mondo che la conclusione della guerra fredda, con la vittoria dell’Occidente e dei suoi valori di libertà e democrazia, segnava “La fine della storia”(2). Ma a quanto si rileva da una sua conferenza recentemente tenuta a Melbourne, oggi ritiene la situazione decisamente mutata: dopo la guerra in Afganistan che ha suscitato, soprattutto tra i ceti intellettuali ma non solo, non poche prese di posizione antiamericane, “si è smarrita la nozione di una percezione unificata del mondo”: al punto che è lecito domandarsi se “ha ancora un senso parlare di ‘Occidente’ nel secolo XXI”, e se “la linea di rottura” che divideva “l’Occidente dal Resto del mondo”, non divida oggi “gli Stati Uniti dal Resto del mondo”.(3)

Il centro più sensibile di questa svolta è l’Europa. In effetti, sostiene Fukuyama come sempre con gli accenti di chi non conosce dubbi, “si è aperto un abisso tra Europei e Statunitensi”. A suo avviso gli Europei tendono a un mondo “privo di scontri ideologici forti e di rivalità militari su vasta scala”, e “aborriscono l’idea di una dottrina della guerra aperta ai terroristi e agli stati che sponsorizzano il terrorismo, in cui soltanto gli Stati Uniti decidono quando e dove adoperare la forza”. Ed ecco ciò che a suo avviso prova questa tesi: “L’Unione Europea ha una popolazione di 375 milioni di persone e un Pil di circa 10 milioni di miliardi di dollari. Gli Stati Uniti hanno 280 milioni di abitanti e un Pil che ammonta a 7 milioni di miliardi di dollari. L’Europa potrebbe avere un bilancio della difesa simile a quello degli Stati Uniti, ma ha deciso di non averlo…” Esisterebbe insomma tra Europa e Usa una divergenza di base nell’approccio alla politica estera, derivante da due diverse risposte alla “domanda su quale sia la sede della legittimità democratica”(4), che gli Usa riconoscono nello Stato nazionale costituzionale, l’Europa in una comunità internazionale più vasta di qualsiasi singola nazione.

Purtroppo la storia non sembra dar ragione a Fukuyama. Perché a connotare nel modo più negativo l’Unione europea, e a proporne un’immagine di sostanziale debolezza, è stata in particolare proprio la completa subalternità agli Stati Uniti nelle scelte di politica estera, strategica e militare. Cosa che ne ha determinato la diretta partecipazione, o il supporto in varie forme erogato, a guerre (dal Golfo al Kosovo all’Afganistan) volute solo dall’America, e ciò in base a decisioni per lo più assunte al di fuori della norma democratica, aggirando le competenze dei vari parlamenti, con procedure addirittura incostituzionali per alcuni paesi (è il caso dell’Italia). Mentre ha impedito interventi diplomatici e prese di posizione che avrebbero potuto risultare grandemente utili in situazioni di alta conflittualità, come il Medio oriente e i Balcani, con iniziative che d’altronde avrebbero trovato ragione e legittimità in non poche vicende pregresse della storia europea. In pratica finora l’Unione non si è discostata da una funzione di piatta sussidiarietà atlantica.

E’ vero che la presa di distanza da parte di diversi leader europei nei confronti dei programmi americani di intervento militare in Iraq, sembrano indicare il delinearsi di una valutazione critica dell’attuale linea Usa in politica estera. Ed è vero che questo in qualche modo si salda con il giudizio negativo, diffuso nei nostri paesi su una serie di arroganti gesti di unilateralismo dell’amministrazione americana sempre in materia militare: il ritiro dal Trattato sui missili, il rifiuto a bandire le mine antiuomo e a firmare la convenzione sugli armamenti biologici, la posizione ostile assunta nei Confronti della Corte Penale Internazionale; gesti che denotano sprezzante distacco verso importanti atti del sistema giuridico internazionale, cui l’Unione europea ha viceversa aderito. E’ vero anche che la pace di cui da oltre mezzo secolo godono i grandi Paesi d’Europa, frutto di una scelta di collaborazione e integrazione, e di abbassamento degli antagonismi, parrebbe dar ragione in qualche modo a Fukuyama, come pure ad alcuni altri esponenti dei ceti intellettuali americani (come Robert Kagan, Stanley Hoffman, Stiglitz) che sembrano guardare alla tradizione europea come a una positiva premessa per una “governance” sovranazionale, quale con tutta evidenza l’evoluzione del mondo sembra esigere. Sono segnali indubbiamente interessanti. Tanto più che indubbiamente il rifiuto della guerra dovrà darsi come la base prima e imprescindibile per un futuro accettabile. Ma in una società globalizzata, dove sempre più “tutto si tiene”, per dire “no alla guerra” è indispensabile dire anche altri “no”, che riguardano la macchina economica e sociale nella sua interezza. E in questa prospettiva purtroppo l’idea del vecchio continente come soggetto capace di contrapporsi in qualche misura all’egemonia neoliberista, non trova nella sua storia troppi motivi di speranza.

Nata come unione economica, comunità pattuita in funzione del mercato, inizialmente addirittura limitata alla gestione di carbone e acciaio, la nuova Europa non ha certo perduto nel crescere l’anima economicistica del suo concepimento, che anzi è stata via via rafforzata e a Maastricht racchiusa entro i rigori di ferree regole monetarie; in ciò del resto allineandosi su quella deriva che sempre più dovunque andava imponendo la dimensione economica come indiscussa centralità politica e sociale: non è un caso se la moneta unica si è presto imposta quale obiettivo prioritario, poi tenacemente perseguito. In un processo che ha goduto il pieno avvallo delle sinistre, anch’esse - come ho ripetutamente notato - più o meno dichiaratamente conquistate da mercato, produttività, competitività, crescita, e impegnate a prodursi in affannate gare di rincorsa verso il centro.

Non è da stupire pertanto se quella felice congiuntura storica che sul finire dello scorso secolo ha visto le sinistre al governo nella quasi la totalità degli stati europei, non ha prodotto molto più che modesti tentativi di riforme all’interno di un impianto economico che tali politiche non prevede né tollera più: per cui era fatale che esperimenti di qualche maggiore impegno, come quelli messi in campo da Lafontaine e Jospin, non andassero lontano. E di nuovo non è da stupire se il panorama politico europeo si è pochi anni dopo capovolto, portando al potere quasi dovunque le destre (è dubbio se l’eccezione Blair sia davvero un’eccezione) e garantendo crescente fortuna ai populismi parafascisti dei vari Le Pen, Haider, Fortuyn, Bossi; e se da un vertice all’altro, da Laeken a Lisbona a Barcellona, passando per decine di incontri sussidiari, i documenti prodotti testimoniano un generale spostameno verso destra, tra aziendalismo imperante, netta prevalenza delle autorità monetarie in politica economica, insistite privatizzazioni di servizi e beni di interesse collettivo, provvedimenti sull’ immigrazione improntati a non celata xenofobia, senza mai un cenno di critica nei confronti del dettato neoliberistico.

La peculiarità del vecchio continente, il suo passato che in qualche modo ne fa una realtà antropologica del tutto particolare, la sua non ancora totale assimilazione alle regole predatorie della competitività, sembrano insomma vissuti dai suoi stessi popoli, e soprattutto dai governanti dei medesimi, come un freno, un dato negativo, più che come un bagaglio di civiltà da usare positivamente e attivamente. E anche in questo si può misurare il rischio di un’assimilazione planetaria e senza riserve a quello che è stato definito “pensiero unico”, il cui indiscusso predominio e la cui celebrata validità hanno gioco facile nel vuoto di un pensiero alternativo.

E tuttavia forse è ancora possibile da parte dell’Europa uno scatto d’orgoglio per il recupero della propria storia migliore e il rilancio di un’identità autonoma, per l’avvio di una seria critica al modello economico sociale e culturale oggi trionfante, magari nel tentativo di immaginare “un altro mondo possibile”. Qualcosa di simile sembra pensare il presidente della Repubblica ceca, Vaclav Havel, e lo ha ampiamente illustrato nel discorso che ho già citato in altro contesto. Deplorando appunto l’eterna tensione dell’ Unione europea ad accrescere la propria forza economica fino a raggiungere e possibilmente superare gli Stati Uniti, ponendosi accorati interrogativi sulla qualità e il senso stesso della vita quando viene scambiata per una gara su chi produce più automobili o elettrodomestici, ricordando l’esistenza di altri valori oltre al profitto e all’aumento del Pil, che pure hanno avuto una funzione determinante nella nostra storia; e su questa base invita l’Europa ad abbandonare la rincorsa dell’America e a “sostituire questa idea con un proposito più modesto, ma più difficile da perseguire: iniziare a cambiare il mondo partendo da se stessa.” (5)

D’altronde su un’ Europa capace di farsi protagonista di un salutare mutamento del mondo, da qualche tempo si trovano a scommettere persone molto diverse per formazione, ruolo attivo, collocazione politica. Cosa che a prima vista può sconcertare e perfino apparire di pessimo auspicio, configurandosi come una sorta di confuso “pio desiderio”, privo di solide fondamenta da cui muovere e su cui lavorare. Ma forse non è così, forse il fatto che anche da posizioni notevolmente lontane si avverta il bisogno di un cambiamento profondo, e se ne indichi nello stesso soggetto l’agente più accreditabile, prospetta un’ipotesi di “fattibilità” ben più ampia di quella, quanto mai esigua, di cui dicevo sopra: quando sulla bilancia, a fronte di tutti i massimi poteri del mondo, vedevo i “No glob” e poco altro. E ci dice che forse le contraddizioni, le iniquità, i pericoli, hanno raggiunto nella società attuale un livello che molti ormai ritengono non più tollerabile. Faccio l’esempio di due personaggi per mille versi lontanissimi l’uno dall’altro: Fausto Bertinotti, segretario del Partito della Rifondazione Comunista, e Tommaso Padoa-Schioppa, membro del comitato esecutivo della Banca centrale auropea.

“L’Europa, per la storia delle sue culture, e per ciò che resta di un modello sociale non totalmente liberistico, è il naturale luogo di interlocuzione col nuovo movimento di critica alla globalizzazione”, scrive Bertinotti. Ne consegue la sua convinzione che “non possa esserci Europa senza rifondazione della sinistra, e non c’è rifondazione della sinistra – e futuro – se non in una dimensione europea.” L’Europa, per il leader della “sinistra antagonista” italiana, si pone dunque come terreno fertile quanto necessario per la nascita di una nuova sinistra “unitaria e plurale”, che aggredisca e sconfessi tutte le ambiguità dei vari centro-sinistra, che anche a questo modo cancelli le cause profonde della continua frantumazione delle sinistre in mille schegge minimali e perdenti, e si faccia portatrice di “un nuovo progetto politico”. Il rifiuto della guerra e del neoliberismo, la sconfitta della globalizzazione, la combattività del conflitto di classe recentemente rinato in vari paesi europei, che per Prc sono parte imprescindibile di questo progetto, non sono pensabili senza l’Europa: “Tra Europa e costruzione di una soggettività politica della sinistra alternativa c’è una precisa relazione di reciprocità.”(6)

Padoa-Schioppa, pur affermando che “mercato ed economia non bastano”, non mette in discussione il modello economico vigente; non ama i “no glob”, anzi critica in termini assai duri il loro rifiutare interamente, “ottusamente” dice, l’eredità occidentale, anche con tutto il positivo che contiene. Ma ciò non gli impedisce di parlare lui stesso di un Occidente che “ignora e nega le proprie contraddizioni, responsabilità, incoerenze… crede che la forza delle armi e quella della moneta siano sufficienti a produrre sicurezza… nello stesso tempo pensa che se la guerra ci dev’essere essa deve fare morti da una parte sola”; che “sembra non avvertire il risentimento, l’invidia, il disprezzo che circondano l’homo occidentalis, quando esce dal circuito dei grandi alberghi e dell’aria condizionata”; quasi che “né due guerre mondiali, né la terribile parabola dell’imperialismo coloniale, né la sofferta esperienza del comunismo, né gli atroci genocidi - tutti mali nati dall’Occidente e da esso trasmessi ad altri sulla terra - ” non abbiano insegnato nulla. Gli Usa, argomenta Padoa-Schioppa, sono certamente una democrazia (7) dotata di una solida e collaudata struttura, ma non se ne può ignorare “il pericoloso senso di innocenza…la tentazione imperiale, il rifiuto di riconoscere un potere mondiale a sé superiore.” E conclude: “Solo l’Europa può condizionare gli Stati Uniti”. L’Europa non è temuta o odiata nel mondo come gli Usa, ha la saggezza di antichi scambi e contatti con culture religioni civiltà altre, ha una consuetudine secolare di rapporti con focolai di crisi, e sia pur faticosamente e in modo parziale è riuscita nella “edificazione di un ordine sovranazionale”: “La relazione speciale con l’America, con cui la Gran Bretagna si illude di condizionare la sua ex-colonia, l’Europa può instaurarla davvero, in modo da cambiare il corso della storia”. (8)

Due persone diversissime, da diverse posizioni e con progetti diversi, sono dunque concordi nel guardare all’Unione europea come al potenziale agente di un nuovo e migliore ordine mondiale. E’ un fatto molto importante che (a prescindere dallo specifico delle persone) in qualche modo rimanda e allude a quella molteplicità di voci che da qualche tempo risuonano nelle città del continente: che non sono soltanto quelle dei “No glob” contestatori di potenti riuniti in “summit” blindati, ma che si levano da enormi scioperi in difesa dei diritti del lavoro, da gigantesche marce per la pace, da vasti composti e decisi cortei di extracomunitari, da consistenti pezzi di società “civile” che manifesta contro il susseguirsi di impudenti attacchi alla democrazia. Un panorama variegato e complesso, di sensibilità offese, reazioni indignate, rifiuti rabbiosi, a volte magari solo di inquietudini e angoscie imprecisate; ma al quale appartiene anche la chiarezza mentale di chi vede necessario rompere i vincoli dell’ atlantismo europeo, di chi cerca ancoraggio democratico nelle costituzioni ancora attive in varie nazioni del continente, di chi non può assistere in silenzio alla cancellazione della Palestina, di chi si ribella contro il numero crescente di poveri in paesi ricchi e spreconi, di chi in un primo tempo non contrario alla guerra in Afganistan in seguito ne ha preso decisamente le distanze (e sono molti, in questo ha ragione Fukuyama).

Messi insieme rappresentano un buon numero di persone scontente del mondo così com’è. Per ragioni anche molto lontane, alcune radicate entro un preciso orientamento politico, magari a dimensione sovranazionale, altre legate soltanto a situazioni contingenti e circoscritte: ragioni che certo non è possibile immaginare coincidenti, ma sì insieme confluenti entro una formazione politica complessa, cospicua massa critica capace di affiancare e integrare il “movimento dei movimenti”, e insieme ad esso sostenere l’Europa nella ricerca e nell’impegno per un mutamento non più rinviabile. Dopotutto che altro è la “sinistra plurale” da tante parti invocata, se non una unione di forze diverse, forse incapaci di una “unità” organica come tale operante, ma accumunate da una critica più o meno radicale e variamente motivata dell’esistente?

Ma appunto - qui ha ragione Bertinotti - tutto dipenderà dalle sinistre. Che dovranno innanzitutto saper superare le angustie degli interessi di gruppo e di partito, o peggio i particolarismi e le miserabili rivalità tra correnti e leader, liberandosi da antichi vizi da cui nessuna formazione si dimostra esente e che - ciò che è davvero triste - non sembrano risparmiare interamente nemmeno i rapporti interni al movimento “No glob”. Forse d’altronde anche errori e debolezze di questo tipo sono in gran parte conseguenza inevitabile della povertà di idee, della mancanza non solo di un chiaro progetto “di sinistra”, ma di una approfondita lettura della realtà da condurre poi a sintesi politica: a partire dall’abbandono di scelte economiche e sociali ossequienti alle “leggi” dell’ impresa e del mercato, per l’avvio di un cammino che (come suggerivo sopra) progressivamente si allontani dall’imperativo di un’espansione ormai non solo insostenibile ma con tutta evidenza autodistruttiva; sapendo che ciò significa muovere verso un traguardo che tocca le intollerabili disparità tra ricchi e poveri come lo squilibrio dell’ambiente naturale saccheggiato dagli umani, l’attacco ai diritti del lavoro come la perdurante asimmetria del rapporto tra i sessi, l’assimilazione al mercato del progresso scientifico e tecnico come le relazioni tra centro e periferia dell’Impero, che ormai sembrano saper comunicare solo con la guerra: contraddizioni nuove e antichissime, oggi tutte riconducibili alla razionalità iperproduttivistica che guida l’ordine vincente.

Questo è un compito che – insisto – non spetta al movimento, il quale assolve la propria funzione “guastatrice” con un’azione provocatoria e traente, capillarmente diffusa e sostenuta dal suo fertilizzante entusiasmo. E’ un compito che invece compete d’obbligo alle sinistre istituzionali di tutto il continente. Innanzitutto proprio un serio impegno in questo senso, per un’idea che vada oltre le angustie dei confini nazionali, potrebbe costituire la premessa al superamento di rivalità e personalismi, che spesso si ammantano di motivi ideologici per mascherare l’irresponsabilità di frazionismi e scissioni; inoltre un obiettivo come quello di spingere l’Europa ad uscire dall’inerzia della sua neghittosa acquiescenza verso l’America e a costituirsi come soggetto autonomo, potrebbe offrire una buona base non diciamo per l’unità delle sinistre (vecchio e mai realizzato sogno, che gli stessi fantasmi della storia rendono impensabile) ma almeno per una loro unione programmatica, tale da esorcizzare almeno il rischio di frantumazioni assurde, come quelle che hanno portato Italia e Francia a sconfitte tanto più dure in quanto evitabili.

Ma un’operazione di questo tipo potrebbe avere anche un’altra ricaduta di grande portata. Penso all’esplosione del populismo di destra, che di recente ha raggiunto in Europa proporzioni allarmanti, come dimostrano le ultime consultazioni elettorali di Danimarca, Portogallo, Olanda, oltre che di Italia e Francia. Esiste già una vasta letteratura sul tema, e varie sono le letture del fenomeno e delle sue origini. I dati dicono comunque chiaramente che una quota tutt’altro che trascurabile di coloro che votano oggi Le Pen, Hayder, Fortuyn, Berlusconi, Bossi, appartengono alla borghesia minima, a ceti operai, addirittura agli strati più poveri, tutti per buona parte in passato elettori di sinistra, che la crescente insicurezza economica e sociale, e lo scontento nei confronti di politiche troppo moderate seguite dai governi di centro-sinistra, hanno polarizzato in parte verso le sinistre estreme, ma soprattutto verso le destre populiste, oltre che per quote non trascurabili verso l’astensione. Non c’è dubbio che l’assunzione da parte delle sinistre europee di una decisa linea critica del neoliberismo imperante e del militarismo Usa che lo impone, con l’avvio di politiche interne conseguenti, potrebbe recuperare una buona parte del consenso perduto: e tanto meglio se saprà imporre, come lucidamente argomenta Giuseppe Chiarante, “una sua idea d’Europa, una sua proposta sulla funzione mondiale del vecchio continente.”(9)

Allora, sperare nell’Europa come possibile “madre” di “un mondo diverso”? L’ipotesi è sconfinatamente azzardata quanto ambiziosa. Tanto più se si guarda con realistico distacco all’Unione qual’è oggi, ancora in fieri per tanti aspetti, priva di istituzioni capaci di scelte chiare e condivise, travagliata da rivalità e dissensi interni, tra euroscetticismi e arroccamenti in difesa delle singole identità nazionali, soprattutto viziata da una linea economica in sostanza adagiata sulla fattispecie neoliberistica. E tuttavia il momento attuale è il primo dopo molti decenni in cui l’ipotesi possa apparire non del tutto impensabile: e ciò per via di un certo numero di circostanze concomitanti, forse casualmente (o forse no?) ma comunque convergenti nel configurare una sorta di insolita freddezza nei confronti degli Stati uniti e, a tratti, una qualche presa di distanza da ciò che gli Stati uniti rappresentano nel mondo. Sono fatti e sintomi in parte già segnalati in queste pagine, in parte legati a eventi recentissimi, in nessun modo riconducibili a un nesso organico, che però considerati insieme, anche semplicemente giustapposti l’uno all’altro, mi sembra rivelino la presenza di un denominatore comune, in base al quale la compatta assoluta solidità dell’asse atlantica potrebbe non apparire più così assoluta e compatta. Provo a enumerarli.

1. Di recente una serie di più o meno dichiarati dissensi e risentite incomprensioni si sono prodotti nelle relazioni tra Usa e Ue: dai limiti all’importazione di acciaio, voluti dagli Usa e pochissimo graditi al vecchio continente; alla pretesa americana di imporre sui mercati europei - come su quelli di tutto il mondo - cibi geneticamente modificati; a una vera e propria offensiva diplomatica scatenata dall’amministrazione Bush nel tentativo di ottenere dai singoli paesi membri l’immunità americana nei confronti della Corte penale internazionale, con minaccia di rivedere i rapporti interni alla Nato in caso di mancato assenso. Si aggiungano le divergenze di valutazione e di comportamento in fatto di materie ambientali, che toccano la ratifica europea del protocollo di Kyoto stracciato invece da Bush, l’attenzione e la partecipazione europea al Summit di Johannesburg disertato dal Presidente americano, la sia pur relativa e discontinua cautela europea nei confronti degli Ogm, insistentemente promossi dagli Usa. Ma il fatto di maggior rilievo, sebbene ancora estraneo alla diplomazia ufficiale, è la posizione dell’Europa nei confronti dell’annunciato intervento americano in Iraq: posizione fin dall’inizio (come ho già accennato) molto reticente, e anche di dichiarato dissenso da parte di alcuni leader, poi a tratti rafforzatasi in aperta contrarietà, anche in seguito alla esplicita condanna dell’impresa da parte del mondo arabo e di alcune potenze non occidentali, e alla crescente critica dei ceti intellettuali, anche americani.

2. Sempre più di frequente e spesso da voci del tutto inattese si parla di crisi degli Stati uniti: crisi economica innanzitutto, evidenziata (come ho cercato di dire sopra) sia dalla persistenza di una recessione che non accenna a risolversi, sia da una finanza sempre più instabile e imprevedibile, sia dalla catena di gravissimi scandali che hanno profondamente scosso la credibilità del grande management; ma crisi da molte parti indicata anche nella povertà di leadership e soprattutto di strategia politica mondiale, cui inutilmente si tenta di sopperire con l’insolente ostentazione della forza e con l’uso più spregiudicato e brutale della medesima; mentre il fallimento delle istituzioni economiche internazionali, in particolare Bm, Fmi, Wto, è ormai platealmente riconosciuto all’interno stesso della classe politica americana. Ne fanno fede alcuni libri appena usciti, uno firmato dal qui più volte citato, notissimo e ricchissimo finanziere George Soros (10), un secondo da Joseph S. Nye (11) che fu sottosegretario alla difesa nell’ amministrazione Clinton, un terzo dal Nobel per l’economia Josef E. Stiglitz (12) già Vicepresidente senjor della Banca Mondiale: tutti, con argomenti diversi ma con pari durezza, critici del loro paese.

3. Nell’Agenda 21, il piano d’azione adottato nel ‘92 al Vertice di Rio, si legge: “La principale causa del deterioramento dell’ambiente globale consiste nei modelli insostenibili di produzione e consumo, in particolare delle nazioni industrializzate.” Da allora siamo stati in pochissimi, e inascoltati, a ricordare e coltivare questo tema, e magari a precisarlo con la rimessa in causa del primato economico e culturale della razionalità iperproduttivistica; mentre l’Agenda 21 rimaneva praticamente lettera morta, e anzi i modelli in essa denunciati pervenivano alla loro massima espansione. Oggi a interrogarsi sulla sostenibilità del nostro modo di produrre e consumare, o addirittura a criticarlo senza mezzi termini, sono – sia pure solo per singoli interventi che non incidono sulla linea generale – organi di stampa più meno dichiaratamente conservatori, come il “Times”, il “Washington Post”, il “Corriere della Sera”, “Il Sole-24 Ore”, “L’Economist”. Mentre un famoso giornalista come Eugenio Scalfari (13), certo su posizioni progressiste ma lontano da ogni estremismo, e – ch’io sappia – mai finora particolarmente preoccupato delle condizioni ambientali, parla della “crisi di un modello di sviluppo che si alimenta pompando risorse dalle sue periferie senza riuscire a diffondere equamente la ricchezza prodotta”, e che insieme “mette a rischio la sostenibilità geofisica e l’equilibrio del sistema ecologico”, in quanto “la crescita quantitativa della ricchezza avviene a detrimento delle risorse naturali”; per concludere con l’esortazione a “puntare su un modello di felicità che non si misuri soltanto sull’aumento del prodotto ma sulla qualità della vita individuale e sociale e sul rispetto dell’ecosistema”.

4. Tutto questo accade a poco più di metà di un’annata che ha visto l’intero emisfero boreale devastato da gigantesche alluvioni con tremila morti e milioni di senza casa, quindi sovrastato da nubi tossiche che promettono molti altri milioni di morti, e così via. E si trova a coincidere anche con il summit di Johannesburg, un evento accompagnato da mesi di attenzione mediatica, dedicata alla sua lunga preparazione, poi alle molte linee del suo svolgimento, infine agli echi e ai commenti d’obbligo, ma anche da analisi della questione ambientale, spesso approfondite, seriamente documentate e corredate dai terrificanti dati del guasto finora prodotto, che le distratte orecchie della pubblica opinione in qualche misura non può non aver recepito. Ho accennato sopra ai modestissimi risultati concreti del vertice, e in tanti ne hanno ampiamente e motivatamente parlato. Innegabile. E tuttavia non credo che l’occasione sia andata sprecata, nonostante le sue esplosive contraddizioni, anzi forse proprio grazie ad esse: Kofi Annan che diceva la necessità di riflettere sul nostro “dissoluto modo di vivere” e la Bmw che reclamizzava l’ultimo vistosissimo modello di auto “ecologica”; i movimenti africani che chiedevano acqua per i loro assetati paesi e scienziati che adducevano sofisticati argomenti per asserire che, dopo tutto, non abbiamo certezze sulle cause del global warming; i “sem terra” che gridavano la distruzione delle loro agricolture ad opera dello sviluppo targato Fmi-Wto, e i rappresentanti di governi africani acquisiti al modello vincente che cercavano di assicurarsi commesse e affari; l’Organizzazione mondiale della sanità che sceglieva il palcoscenico del Vertice per pubblicare le spaventose cifre, passate presenti e future, della mortalità da smog, e le più famose associazioni ambientalistiche che si accordavano con le multinazionali del petrolio pur di ottenere qualche promessa; il vecchio Mandela che pubblicamente piangeva i famigliari morti per aids, e la delegazione Usa che si limitava a largire un po’ di dollari per la cooperazione (la metà di quelli offerti dieci anni fa a Rio), sottraendosi ad ogni serio impegno per ridurre le aggressioni all’ambiente, e una volta ancora rifiutando di firmare il trattato di Kyoto, benché ora ratificato anche da Cina, Russia e Giappone. Mai forse è stata sotto gli occhi di tutti una rappresentazione più complessa e completa della intollerabile realtà del mondo, agita dai suoi principali attori, che ne recitavano le principali ragioni. Mentre lo spettro di una seconda guerra del Golfo si aggirava su Johannesburg e sul mondo.

Un mondo con il quale sembra davvero sempre più difficile identificarsi, e di fronte al quale la necessità e anche la possibilità di cambiarlo, secondo il credo “No glob”, parrebbe doversi porre come un progetto affascinante per un paese come l’Europa. Difficile? Difficilissimo. Anche, ripeto, a causa dell’ incompiutezza dell’Unione, delle sue tante debolezze, istituzionali e non solo, della sua perenne tentazione di totale cedimento alla dottrina imperante (però anche via via trasgredita e negata, come gli iperliberisti rimbrottano). A meno che proprio l’idea di bilanciare lo strapotere Usa, e di impegnarsi nel tentativo di un possibile modo diverso di produrre consumare operare pensare vivere, non possa risultare per l’Europa stessa lo stimolo necessario a cercare la sua migliore definizione: che in nessun modo somigli al temuto “super stato”, che non schiacci le singole identità nazionali, ma le riconduca alla complementarità e alla ricchezza di una “identità plurale”, all’interno di una forma autenticamente federalista. E potrebbe essere il punto di partenza per “iniziare a cambiare il mondo partendo da se stessa”.

Sembrano sogni e forse lo sono. Ma resto convinta che, come diceva Napoleoni, “Posti a livello minore, i problemi non hanno risposta.”(14)

Note

1)Franco Venturini, Pratica di storia, in “Il Corriere della Sera”, 28 maggio 2002, pp.1-18.

2) Francis Fukuyama, Disuniti contro il terrore, in “La Stampa”, 10 agosto 2002, p.4.

3) Ibidem

4) Ibidem

5) Vaclav Havel, L’occidente e l’ossessione del nulla, op. cit.

6) Fausto Bertinotti, Per un nuovo soggetto politico, in “la rivista del manifesto” n. 30, luglio-agosto 2002, pp.8-10.

7) Tommaso Padoa-Schioppa, Dodici settembre, Rizzoli, Milano 2002, p.115-119, passim.

8) Idem, p.120-122, passim

9) Giuseppe Chiarante, Francia chiama Italia, in “la rivista del manifesto”, n.29, giugno 2002, pp.7-11.

10) George Soros, Globalizzazione, Le responsabilità morali dopo l’11 settembre, Ponte alle Grazie, Milano 2002

11) Joseph S. Nye, Il paradosso del potere americano, Mondadori, Milano 2002

12) Joseph E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino, 2002

13) Eugenio Scalfari, Il cinismo dei governi e le piaghe del pianeta, La Repubblica, 25 agosto 2002, pp. 1-17

14) Claudio Napoleoni, Lettera ai comunisti italiani, in “Cercate ancora”, a cura di Raniero La Valle, Editori Riuniti, 1990, p.154.

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