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Enrico Tantucci
Dogana, da Gregotti a Ando vincoli sempre più flessibili
28 Novembre 2007
Terra, acqua, società
Un confronto interessante tra due interpretazioni della tutela dell’edilizia storica, e una tetsimonianza del degrado culturale. Da la Nuova Venezia, 27 novembre 2007

Punta della Dogana: quello che era possibile con il progetto di Vittorio Gregotti per il museo Guggenheim - poi rimasto solo sulla carta, una decina d’anni fa - sembra ora impossibile per il progetto di Tadao Ando per il nuovo museo Pinault. La Commissione di Salvaguardia, dopo il sopralluogo compiuto lunedì e l’illustrazione del sovrintendente ai Beni Ambientali e Architettonici di Venezia Renata Codello, dovrà votare entro pochi giorni il via libera al progetto, per il quale, però - nonostante le obiezioni dei commissari - non si prevedono modifiche sostanziali.

La «scatola». Resta, in particolare, la collocazione degli impianti tecnologici in una «scatola» sul tetto della Punta della Dogana - sia pure parzialmente nascosta - perché per la Soprintendenza non è possibile fare altrimenti. Ma esaminando il progetto di Gregotti e ascoltando lo stesso architetto, si scopre - guardando al passato - una realtà diversa.

Impianti. «Non riesco a credere - commenta l’architetto Gregotti - che la Soprintendenza consenta ora l’installazione degli impianti di condizionamento sul tetto della Punta della Dogana. Nel nostro caso sarebbe stato impossibile, trattandosi di un edificio monumentale. Per questo, per gli impianti tecnologici, avevamo studiato una soluzione diversa, collocando quelli verticali vicino alle pareti, ma staccati da esse, protetti da un’intercapedine lignea; e quelli orizzontali sotto il pavimento con un parziale scavo. Una soluzione che era stata approvata dalla Soprintendenza, come del resto l’intero progetto definitivo, visto che il nostro era, in pratica, un intervento di restauro. Del resto io stesso ho passato ad Ando le nostre tavole progettuali, proprio perché potessero servirgli come eventuale riferimento».

Simili? Il progetto di Gregotti prevedeva la conservazione della tipologia originale a saloni paralleli dei sei magazzini e del contemporaneo mantenimento delle fronti ottocentesche del Pigozzi. Ricostituiva anche i muri paralleli in mattoni a vista, mentre prevedeva anche la scopertura delle capriate e la chiusura dei lucernai aperti sulle coperture. Per dotare il nuovo museo d’arte contemporanea degli impianti tecnologici e di climatizzazione indispensabili, senza alterare la struttura dell’edificio, il progetto di Gregotti prevedeva appunto di costruire una scatola interna in legno di 4 metri aperta verso l’alto che permettesse la costituzione di un’intercapedine staccata da pavimento e pareti di circa 40 centimetri. Una scatola molto diversa da quella di cemento armato prevista dall’intervento dell’architetto giapponese. In questa veniva garantito sia il passaggio degli impianti tecnici, sia la disponibilità di una superficie continua di esposizione, a un’altezza delle pareti largamente inferiore a quella prevista da Ando - permettendo così di «leggere» le coperture originali - e che, secondo la Soprintendenza, non è modificabile se non in minima parte per il progetto Pinault.

Più piccole. C’è da presumere che le opere della collezione Pinault siano gigantesche, rispetto a quelle - più piccole - della collezione americana. C’è poi da capire perché - al di là della diversità dei progetti - alcune modifiche, previste in passato, oggi non siano più possibili.

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