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Emanuele Macaluso
Le parole per l’ Addio
12 Agosto 2007
Enrico Berlinguer
Ricordando Enrico Berlinguer e un momento alto della politica, quando i partiti rappresentavano la società. Da l’Unità dell’11 agosto 2007

L’Unità

mi ha chiesto ciò che ricordo del giorno in cui il giornale, che allora dirigevo, diede, con tanti italiani, L’«Addio» a Enrico Berlinguer. Era mercoledì 13 giugno del 1984. Ma la giornata lunga era iniziata la notte tra il 7 e l’8 giugno, nel momento in cui Ugo Baduel mi telefonava da Padova per dirmi che Enrico era in condizioni disperate.

Ero a casa e tornai a Via dei Taurini, sede storica dell’Unità, che avevo lasciato da qualche ora, dopo aver informato e convocato i compagni che con me lavoravano al giornale, Romano Ledda, Carlo Ricchini, Giancarlo Bosetti, Renzo Foa e altri: avevo deciso di fare un’edizione straordinaria che fu distribuita la mattina di venerdì 8 giugno. Lucio Tonelli, Presciutti e i compagni dell’amministrazione erano al giornale. Il titolo diceva: «Sgomento, ansia, speranza per la vita di Berlinguer». Nel sommario: «Il presidente Pertini è accorso a Padova accanto ai familiari».

Le condizioni di Berlinguer erano tali da non dare molte speranze a chi non crede nei miracoli. E con i compagni della redazione capimmo subito, cosa era Berlinguer nell’animo di milioni di militanti e di elettori e cosa rappresentava nella coscienza nazionale. Dovevamo metterci su quella lunghezza d’onda, capire che il dramma di Berlinguer, che si svolgeva in un ospedale di Padova, non coinvolgeva solo il Pci. E avemmo subito un riscontro nel gesto di Pertini. Ma via via, le dichiarazioni di Cossiga, Saragat, Craxi, De Mita, di uomini del mondo della cultura e dell’economia, dei leader della sinistra europea e le parole del Papa, ci diedero la conferma di ciò che si sarebbe verificato. Infatti, ora dopo ora, la commozione e la partecipazione del popolo fu tale da configurarsi come uno dei momenti in cui la scomparsa di un leader mette in evidenza valori che sono nel profondo della coscienza nazionale. Il fatto che quella commozione e partecipazione si manifestassero nel momento in cui era in corso un’aspra lotta politica, in parlamento e nel paese - si discuteva il decreto di Craxi sulla scala mobile, si era svolta la grande manifestazione a Piazza S.Giovanni, e quel leader era il segretario del Pci - ci dice come quei valori a cui facevo riferimento - rapporto tra politica ed etica e la politica vissuta come grande passione civile sino all’ultimo respiro - hanno una valenza che va oltre ogni schieramento. Ma, in quelle manifestazioni di partecipazione e di cordoglio, c’era anche l’omaggio a un leader comunista che in una libera competizione elettorale, in una grande nazione europea, sede del Vaticano, aveva fatto guadagnare al suo partito il 34,4 dei suffragi collocandolo nell’area di governo.

So bene che i titoli che facemmo in quei giorni vennero anche criticati per una personalizzazione che varcava la soglia della politica. Per esempio il titolo dell’11 giugno in cui nell’occhiello c’è la notizia: «La situazione precipita, il compagno Berlinguer ormai si spegne» e il titolo a tutta pagina dice: «Ti vogliamo bene Enrico». Questi, però, erano a mio avviso i sentimenti più elementari e angoscianti del momento che attraversavano tante persone. E, questi, erano i miei sentimenti dato che con Enrico ebbi, come dirò, un serio e forte contrasto politico nel 1980-81, ma anche un rapporto forte dovuto non solo al fatto che lavorammo insieme per quattro anni, nella sezione di organizzazione (nel 1962-63), nell’ufficio di segreteria tra il 1963 e 1966, sino al famoso XI congresso. Quattro anni in cui ci vedevamo tutti i giorni e quando qualche mattina lui non poteva venire a Botteghe Oscure, perchè Letizia non c’era, e accudiva i figli, andavo a casa sua per vedere insieme le cose da fare. E non c’è dubbio che nei giorni dell'agonia e in quello in cui dovetti dargli l’«Addio», come in un film rivissi tanti momenti del nostro rapporto politico e della nostra amicizia. Rapporto politico e amicizia nel Pci avevano un significato particolare e relativo. Il «Partito sopratutto» si diceva. Ma l’amicizia se era fondata sulla fiducia, la disponibilità e la verità resisteva al contrasto politico. Dal punto di vista politico ho conosciuto Enrico solo dopo il 1956 quando lasciai la Cgil per la segreteria regionale del Pci e fui eletto nel comitato centrale. Negli anni in cui maturava la politica di centrosinisra e nel partito si sviluppò una lotta politica, Enrico, come Amendola, Bufalini, Alicata, Napolitano contrastò le posizioni di Ingrao, Natoli, Rossanda, Reichlin, i quali ritenevano che il rapporto Dc-Psi si collocasse in un disegno del neocapitalismo che bisognava combattere frontalmente e non, come sosteneva Togliatti, raccogliendo la sfida sul terreno del confronto e della lotta per le riforme. Una disputa politica che, dopo la morte di Togliatti, si concluse, con Longo segretario, all’XI congresso del Pci. Enrico - che aveva condotto una lotta politica come responsabile dell’ufficio di segreteria (nei fatti era un vice-segretario) fu criticato da Amendola e altri autorevoli compagni per aver «mediato» e fu destinato alla segreteria regionale del Lazio. Una storia di cui ho parlato nel mio libro 50 anni nel PCI. Le cose poi andarono come era giusto che andassero: Berlinguer fu eletto vice-segretario (1969) e poi segretario (1972). La scelta fu fatta con il convinto concorso dei compagni che all’XI congresso si erano trovati su sponde opposte, da Amendola a Ingrao. E in seguito Berlinguer seppe tenere insieme il gruppo dirigente, anche quando espresse politiche diverse. Nella prima fase, che sommariamente viene indicata come quella del «compromesso storico» fu molto innovativo sul piano internazionale, dall’Eurocomunismo sino all’adesione al Patto Atlantico. E sul piano interno: la lotta al terrorismo, la politica di risanamento economico e il superamento in positivo del centrosinistra sino al governo di solidarietà nazionale. In quella fase i suoi più stretti collaboratori furono Bufalini, Chiaromonte, Napolitano, Natta, Di Giulio e nella gestione interna Cossutta e Pecchioli. Ma coinvolse la «sinistra»: Ingrao fu presidente della Camera. Quando Berlinguer fece la «svolta di Salerno» proponendo «l’alternativa democratica» senza un riferimento ai partiti (il governo degli onesti), la sua fu considerata una sterzata a sinistra e i coordinatori furono Tortorella, Reichlin, con loro Minucci e Occhetto in punti chiave. Per la gestione interna Pecchioli. Cossutta era ormai fuori e in polemica con Enrico. Natta volle andare a presiedere la Commissione di Controllo, ma restò un suo riferimento essenziale. La «destra» però non fu emarginata: Napolitano era presidente del gruppo parlamentare alla Camera e Chiaromonte al Senato. Con Pajetta e altri autorevoli compagni, Berlinguer guerreggiava, ma li coinvolgeva. Con Longo invece i rapporti si raffreddarono. Tonino Tatò non fu suo consigliere, ma una persona di cui si fidava. Dei suoi giudizi, anche quelli scritti e ora raccolti in un libro, Enrico prendeva quelli che coincidevano con i suoi. Pensare che Berlinguer seguisse la politica suggerita da Rodano o Tatò è un abbaglio: seguì la sua e solo la sua, spesso con testardaggine sarda. Semmai un consiglio lo accettava da Giglia Tedesco, moglie di Tatò e da Marisa Rodano, moglie di Franco. Con Nilde Jotti i rapporti sempre buoni divennero burrascosi quando alla Camera si discusse il decreto sulla scala mobile. Enrico, sbagliando, contestava le decisioni di Nilde su interpretazioni controverse del regolamento che considerava favorevole al governo Craxi. La Jotti rifiutò sempre di discutere le sue decisioni in sedi diverse da quelle istituzionali. Quel conflitto però aveva anche un fondo politico: la Nilde considerava sbagliata la svolta berlingueriana, ma non ammetteva che si pensasse che le sue decisioni fossero influenzate da quel giudizio.

Scrivo da un borgo di montagna e ricostruisco a memoria, forse ho dimenticato qualcosa. Quel che però voglio dire è che Berlinguer fece una lotta politica aperta e anche dura, ma seppe tenere insieme il gruppo dirigente senza mediare. Penso che il suo carisma derivasse soprattutto dall’affidabilità di una persona che non mentiva, non giuocava d’astuzia e non mistificava. Ed era un messaggio che trasmetteva col suo volto, il suo comportamento, il suo parlare non solo al partito ma alla gente.

Gli esperti della politica sapevano e capivano le «svolte» berlingueriane, e quella dell’81 fu drastica e, a mio avviso, sbagliata, ma la grande maggioranza del partito e della pubblica opinione percepiva un messaggio comunque affidabile, condivisibile o meno, ma vero. Solo così si spiega il concorso di personalità e di popolo che si vide al funerale.

Io non sono stato, come altri compagni, fra i «consiglieri» di Berlinguer. Il quale riteneva spesso le mie posizioni e i miei giudizi «azzardati». Nel 1976 gli dissi di non votare al primo scrutinio Andreotti presidente del Consiglio e di aprire un «conflitto guidato» con la Dc per avere Moro presidente. Mi rispose - e lo ripetè in direzione - che era un azzardo perchè era Moro che voleva Andreotti, senza il quale non si faceva il governo. Ma fu a me e ai suoi familiari che nel 1973, rientrando dalla Bulgaria, mi disse che l’incidente d’auto, da cui uscì vivo per miracolo laico, era a suo avviso un attentato. La vicenda è stata ricostruita da Fasanella e Incerti in un libro. Mi chiese di tacere per sempre e lo feci fino al 1991. Quel racconto drammatico non fu solo un atto di fiducia nel mio riserbo, ma anche un giudizio su cosa erano ormai i gruppi dirigenti dei paesi dell'Est. E non fu questo il solo caso.

Enrico sembrava introverso ma il suo era solo un modo di esprimere grande rispetto per se stesso e gli altri. Ma un fatto fu per me decisivo per capire i nostri rapporti. Come ho già ricordato, negli anni ‘80-81 Berlinguer fece una svolta rispetto alla politica di solidarietà nazionale, che io, con Napolitano, Chiaromonte, Bufalini, Perna, Lama e altri compagni, contrastai. E nel 1980 in un’intervista al Mondo dissi che la politica di solidarietà poteva essere ripresa con una direzione politica affidata non più alla Dc, ma alla sinistra, nella situazione di allora al Psi, quindi a Craxi. Apriti cielo. Non ero a Roma, Berlinguer non mi cercò e la segreteria fece un comunicato in cui si diceva che le mie erano posizioni personali e non impegnavano il partito. Un azzardo il mio e una sconfessione la sua.

Eppure - ecco il punto - nel 1982, quando all’Unità si aprì una crisi grave, fu Berlinguer a proporre e a insistere che fossi io a dirigere il quotidiano del Partito. Sapeva che poteva contare sulla mia lealtà. E così fu anche nei momenti difficili.

Lo so, l’ho fatta lunga, ma nella vecchiaia le cose che si ricordano meglio sono quelle lontane. E i giorni dell’agonia e della morte di Berlinguer sono rimasti vivi nella mia mente e nel mio cuore e ripensandoci riprovo un emozione forte. Ricordo i volti dei redattori, dei compagni che in quei giorni sostavano all’Unità. Nel giorno in cui facemmo il numero dell’«Addio», Carlo Ricchini rintracciò presso la zia di Enrico la bellissima foto che collocammo in tutta la prima pagina: un Berlinguer di tutti, così mi sembrò quella foto. Chiesi a Renato Guttuso se voleva fare un disegno e dopo qualche ora arrivò in redazione il Berlinguer comunista col popolo comunista. Chiesi a Romano Ledda di scrivere l’addio del giornale per poi definirlo insieme - ed è quello che oggi tanti giovani possono leggere - pensando di comunicare con le nostre parole i sentimenti di milioni di persone.

Il fatto che dopo ventitré anni Berlinguer è ancora nei pensieri di tanti, anche di chi lo avversò e di chi non era ancora nato, ci dice che non fu un errore o una esagerazione l’edizione che oggi avete tra le mani. È vero, da allora la politica è molto cambiata e si è tanto scolorita. Certe passioni personali e collettive sembrano quelle di un’Italia antica, che non c’è più , di partiti che non ci sono più. Con la morte di Berlinguer e l’assassinio di Moro, in effetti, si chiuse un’epoca politica. Su quella che stiamo vivendo non dico nulla, perchè mi sembra di parlare del nulla.

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