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Mike Davis
Mercato immobiliare rivoltoso
17 Agosto 2007
Megalopoli
[Riproponiamo dopo due anni e l'esplosione della Bolla] C'erano dei "valori" dietro la rielezione di Bush: quelli immobiliari. Uno studio del sociologo californiano, da Tom Dispatch, 18 aprile 2005 (f.b.)

Titolo originale: Riotous Real Estate – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Lo scorso febbraio urlavano le sirene a Hollywood, mentre le forze del Los Angeles Police Department convergevano verso l’isolato 5600 su La Mirada Avenue. Mentre un capitano di polizia abbaiava ordini da un megafono, una folla inferocita di 3000 persone rispondeva gridando insulti. Chi passava da lì avrebbe potuto scambiare il confronto per una grossa ripresa cinematografica, o anche l’inizio della prossima grande rivolta di L.A..

A dire il vero, come ha raccontato poi il capitano Michael Downing del LAPD ai giornalisti “C’erano persone molto disperate con un atteggiamento di rivolta. Era come se stessero tentando di afferrare l’ultimo pezzo di pane”.

L’allusione alla rivolta del pane è giusta, anche se quella folla stava reclamando le ultime briciole di case a prezzi controllati in una città dove affitti e mutui sono lievitati a livelli stratosferici. In gioco, c’erano 56 appartamenti ancora da terminare, realizzati da un’impresa no-profit. I costruttori si erano aspettati una presenza, al massimo, di qualche centinaio di persone. Quando invece sono arrivati migliaia di aspiranti assegnatari disperati, la cosa è girata al brutto ed è intervenuta la polizia.

Poche settimane dopo questo teso confronto di Hollywood, un’altra folla ansiosa – stavolta composta da persone più agiate, in cerca di casa – si è accodata per ore a fare offerte vergognose per l’acquisto di una casa in rovina, con le fondazioni crepate, in un sobborgo vicino rinomato per le ottime scuole. “Quella folla brulicante – ha scritto l’editorialista del Los Angeles Times Steve Lopez – non è stata una sorpresa, visto che è dimostrato come la scuola pubblica della California sia una fabbrica di emarginati”.

Le scuole di Los Angele, sottofinanziate, sovraffollate, violente, secondo un recente rapporto di un gruppo di ricerca di Harvard, al momento non riescono a far concludere gli studi alla maggioranza degli studenti neri e latini, e a un terzo dei bianchi. Come conseguenza, i genitori sono disposti a straordinari sacrifici per spostare i propri figli verso sobborghi dotati di strutture educative efficienti. Questo dà un nuovo impulso al vecchio detto immobiliarista “la posizione è tutto”: le case nella California meridionale sono universalmente pubblicizzate e qualificate dal prestigio dei distretti scolastici locali.

Naturalmente la crisi delle abitazioni in Sud California ha anche un lato solare. Negli ultimi cinque anni i valori medi dell’edilizia residenziale si sono incrementati del 118% a Los Angeles, e di un eccezionale 137% nella vicina San Diego. Di conseguenza, le case sono diventate una specie di bancomat, offrendo ai proprietari magici flussi di denaro non guadagnato, con cui acquistare nuovi fuoristrada, pagare gli interessi delle case di vacanza, finanziare la sempre più costosa istruzione dei figli nei colleges privati. I mutui per seconde case e i rifinanziamenti per l’edilizia residenziale, secondo uno studio della Wharton Business School, hanno generato a partire dal 2000 l’incredibile somma di 1,6 trilioni in consumi aggiuntivi.

La grande bolla della casa in America, come i sui obesi corrispondenti in Olanda, Spagna, Australia, è un classico gioco a somma zero. Senza generare un solo atomo di nuova ricchezza, l’inflazione dei suoli ridistribuisce senza pietà le risorse dalla domanda all’offerta, approfondendo le divisioni dentro e fra classi sociali. Un giovane insegnante di San Diego che prende in affitto un appartamento, per esempio, ora deve affrontare un costo annuale della casa (24.000 dollari per due stanze in zona centrale) che è l’equivalente di due terzi del suo reddito. Per contro, un più anziano autista di bus scolastici che possiede una modesta casa nello stesso quartiere, può aver “guadagnato” dall’inflazione residenziale l’equivalente della sua paga sindacale.

L’attuale bolla della casa è figlia bastarda della bolla azionaria di metà anni ’90. I prezzi delle case, specialmente sulla costa occidentale e nel corridoio orientale Boston-Washington, hanno iniziato a schizzare verso l’alto nella seconda metà del 1995, quando i profitti delle imprese dot-com si sono riversati sul mercato immobiliare. Questo boom è stato sostenuto da tassi di interesse incredibilmente bassi, grazie soprattutto all’interesse della Cina ad acquisire grandi quantità di titoli del Tesoro USA, nonostante i redditi bassi o addirittura le perdite. Pechino ha volontariamente finanziato i contrattori di mutui americani per tenere aperta la porta all’export cinese.

In modo simile, i mercati interni più caldi – California meridionale, Las Vegas, New York, Miami, e Washington, D.C. – hanno attirato le voraci colonne di termiti degli speculatori puri, a comprare e vendere case azzardando che i prezzi avrebbero continuato a salire. Lo speculatore con più successo è stato, naturalmente, George W. Bush. I valori immobiliari in crescita hanno sollevato un’economia stagnante, e smorzato le critiche a quella che era una politica economica disastrosa.

I Democratici da parte loro non hanno affrontato seriamente la crisi di milioni di famiglie tagliate fuori dalla proprietà della casa. In una città-bolla come San Diego, ad esempio, meno del 15% della popolazione guadagna abbastanza per finanziare la costruzione di una nuova casa di prezzo medio.

Certamente, se alla base della vittoria di Bush lo scorso novembre ci sono stati dei “valori”, si trattava di valori immobiliari, e non di principi morali o pregiudizi religiosi. Di fronte a questa perversa bolla immobiliare la campagna elettorale di Kerry, come sui costi delle assicurazioni sanitarie o la perdita di posti di lavoro, girava semplicemente a vuoto. Non offriva alternative serie allo status quo. Ma i Repubblicani hanno cose più serie di cui preoccuparsi che non i Democratici. Quando la bolla immobiliare raggiungerà il suo vertice, George Bush potrebbe scoprire di aver cavalcato uno tsunami, e che si avvicina un’alta scogliera.

La bolla è già scoppiata a San Francisco, e il titolo apparso sul numero dell’11 aprile di Business Week esprime timore che una generale deflazione – magari di dimensioni internazionali – sia prossima. Come sarà la vita negli Stati Uniti (o in Gran Bretagna, o Irlanda) quando chiuderà il bancomat immobiliare?

La stampa economica, come al solito, tranquillizza i passeggeri: sarà un atterraggio morbido, un rallentamento anziché un disastro, ma anche un sussulto di media importanza può bastare a fermare l’attuale anemica ripresa, e gettare tutte le economie legate al dollaro in depressione. Più minacciosi, alcuni eminenti e rispettati economisti di Wall Street, come Stephen Roach della Morgan Stanley, avvertono sul pericoloso anello di retroazione negativo fra le bolle immobiliari alimentate dall’estero e l’enorme deficit commerciale USA. (quello che sta solo aspettando di succedere, ha scritto è “ The funding of America”).

Alla fin fine, l’egemonia militare americana non è più sostenuta da un’equivalente supremazie economica globale. La bolla del problema casa, come l’esplosione delle imprese dot-com prima, ha mascherato provvisoriamente questo pasticcio di contraddizioni economiche. Di conseguenza, il secondo mandato di George W. Bush può riservarci grandi sorprese, degne di Shakespeare.

Nota: qui il testo originale (con introduzione) al sito Tom Dispatch; il giorno successivo alla pubblicazione di questo testo su Eddyburg sul quotidiano il manifesto ne è apparsa una traduzione - certo meno frettolosa - di Marina Impallomeni col titolo "La bolla californiana" (f.b.)

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