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La mobilità degli immobili
7 Luglio 2007
Milano
Negli articoli e nell’intervista a Roberto Camagni l’analisi dell’urbanistica a Milano: il più grande cantiere d’Europa senza una visione di città. Da il manifesto, 6 luglio 2007 (m.p.g.)

Milano, la città immobile

Claudio Mezzanzanica

Milano è il più grande cantiere edile europeo. E lo rimarrà per molti anni, almeno per sei o sette se agli investimenti attuali non si aggiungeranno anche quelli per l'Expo 2015 cui punta la giunta Moratti. Ma anche senza considerare l'Expò, i cantieri che sono già in progetto, sono destinati a mutare profondamente la struttura della città. Tutto parte dalla ristrutturazione delle gigantesche aree industriali che hanno caratterizzato il paesaggio urbano. Nonostante Palazzo Marino propagandi i cantieri come grandi novità avveniristiche, in realtà Milano è solo l'ultima grande città europea ad affrontare la riqualificazione delle aree dismesse. Basta pensare all'area Garibaldi, oppure alla ex Richard Ginori lungo i Navigli, oggi quasi completamente ristrutturata. Londra, per fare un esempio, ha ristrutturato i docks, i vecchi magazzini sulle rive del Tamigi, almeno vent'anni prima e così ha fatto Parigi con le aree Renault.

Tre i progetti chiave dentro i confini della città: ex-Fiera dove Citylife vuole costruire tre enormi grattacieli, Garibaldi-Repubblica, dove l'americana Hines sta costruendo la cosidetta «Città della moda», e Santa Giulia a Rogoredo, dove il gruppo Zunino nell'ex area Montedison prevede un investimento di quasi tre miliardi di euro: seicento abitazioni di lusso, un albergo, un centro congressi con ottomila posti, una via del lusso, un insediamento della Rinascente. Di contorno, circa 1500 appartamenti per un mercato immobiliare più alla portata dei comuni cittadini. Senza considerare la ristrutturazione della ex area Falck a Sesto San Giovanni, alla porte di Milano, altro mega-progetto Zunino. E non bisogna dimenticare altre decine di interventi meno grandiosi ma altrettanto significativi che stanno aggiungendo migliaia di metri cubi allo spazio urbano.

Quasi tutti i progetti sono figli di una ambigua commistione di pubblico e privato. In totale mancanza di un piano e di una visione globale della città e dei bisogni dei cittadini, il pubblico si limita e rendere i terreni disponibili e economicamente appetibili per operazioni immobiliari finanziarie senza nessun processo democratico. I cittadini si vedono sommersi da tonnellate di cemento senza possibilità di farsi sentire. A volte l'operazione, almeno dal punto di vista economico immobiliare riesce piuttosto bene, come a santa Giulia, a volte non sembra funzionare come all'Ex Fiera, o incontra la resistenza della cittadinanza come nel quartiere Isola.

Ex-Fiera, tre caravelle senza vento in poppa

Giorgio Salvetti

La città sta crescendo, ma i progetti non sono sempre all'altezza. Prendiamo i grattacieli. Tre, giganteschi, sono stati progettati per svettare sulla ex area della Fiera di Milano (siamo in pieno centro città), dove opera Citylife, cordata composta dal gruppo Ligresti, Generali, Ras, Lamaro e Lar. Dopo il trasferimento nei nuovi padiglioni di Rho-Pero, la Fondazione Fiera ha venduto a Citylife i vecchi terreni (circa 255.000 mq) per 523 milioni di euro. Un ottimo affare. Un investimento da due miliardi di euro finanziato da un gruppo di banche coordinate dalla tedesca Eurohypo che comprende Mediobanca, Popolare Milano, Bipop Carire (Capitalia), Banco di Sicilia (Capitalia), Calyon, Banca Intesa, Banca di Roma e Mcc. Le banche hanno finanziato l'80% dell'acquisto dei terreni (circa 420 milioni di euro), la costruzione degli immobili (1,67 miliardi), oltre a 200 milioni di Iva. Fiore all'occhiello del progetto, le cosiddette «Tre caravelle», tre grattacieli giganti alti rispettivamente 215, 185 e 170 metri progettati dagli architetti Daniel Libeskind (quello di ground zero) Arata Isozaki, Zaha Hadid e Pier Paolo Maggiora. Un progetto gigantesco e avveniristico che ora invece rischia di essere già vecchio e forse non più redditizio come sembrava.

L'intera area è destinata ad ospitare uffici e oltre mille appartamenti (in zona mediamente una casa costa 5-6 mila euro al metro quadro). Una vera e propria cittadella nella cinta della vecchia Fiera, per un totale di circa 15 mila utenti. I lavori dovrebbero terminare entro il 2014 ma non sono ancora cominciati. Il rispetto dei tempi è determinante per rientrare dalle spese e mantenere gli impegni con le banche. Palazzi tanto alti costano molto e i costruttori ora temono di rimetterci.

Contro il gigantesco progetto si batte l'associazione «Vivi e progetta un'altra Milano» (www.quartierefiera.org). In questi anni di lotta ha fatto ricorso al Tar, ha raccolto migliaia di firme ma ha ottenuto pochissimo ascolto dalle istituzioni. Per i cittadini dell'associazione si tratta di una pura operazione finanziaria e immobiliare che punta su uffici e appartamenti di lusso in una zona che invece ha bisogno di servizi, edilizia sociale e per i giovani (Citylife ha solo l'impegno di ristrutturare l'ex velodromo Vigorelli e di realizzare un Museo del design e del bambino). L'intero progetto è stato deciso da pochissimi e calato dall'alto. Per i cittadini, ma anche per molti architetti e urbanisti, la costruzione di grattacieli enormi in un'area ristrettissima non rispetta l'equilibrio e il recupero di uno storico quartiere di Milano. Inoltre, la cittadella rischia di attirare un insostenibile flusso di traffico. L'ingresso nord di Milano già ora è il più intasato con 600 mila ingressi al giorno. Il nuovo progetto prevede solo la costruzione di una strada interrata di un paio di chilometri che è destinata ad attirare ulteriore traffico e portarlo direttamente nella città.

Anche in questo caso, per capire che cosa è avvenuto dal 1994 ad oggi, bisogna indagare l'ambiguo rapporto tra pubblico e privato che ha dato il via libera all'operazione. Il vizio di fondo sta nella concessione da parte di Palazzo Marino di una volumetria doppia in un'area ristretta. Ma proprio grazie a questo Fiera Milano ha potuto vendere i suoi terreni a peso d'oro. Con il trasferimento a Rho-Pero, l'Ente Fiera, che pure era stato abbondantemente sostenuto dai finanziamenti pubblici, è stato privatizzato. Si è trasformato in fondazione di diritto privata che controlla Fiera Spa, società scorporata che affitta e gestisce i padiglioni della nuova fiera. La Fondazione dunque si è trasformata in una sorta di agente immobiliare privato che gestisce palazzi e terreni. La concessione di volumetria è solo l'ultimo favore ai privati. Per rispettare gli standard abitativi il Comune ha anche «venduto» ai costruttori privati i metri quadri mancanti (circa 106 mila) al bassissimo prezzo di 242 euro al metro quadro (l'associazione «Vivi e progetta un'altra Milano» denuncia un ammanco per l'erario di circa 140 mila euro). E per finire è in progetto la costruzione di un'apposita fermata della metropolitana proprio in mezzo alle «tre caravelle», in buona parte a carico dei cittadini. Si verrebbe a trovare in un'area già servita e comunque non sarebbe pronta prima di 10-15 anni.

Nonostante le promesse dei progettisti e dell'ex sindaco Albertini che sognava un «Central park milanese» al posto della Fiera, solo un terzo dell'area sarà destinato al verde, incastrato tra un palazzo e l'altro. A metà giugno proprio intorno alla questione del verde, l'affare ex Fiera ha mostrato le prime grosse crepe. Grazie ad una permuta tra un parcheggio di proprietà del Comune e un'area di Fondazione Fiera (è sempre lei a gestire i giochi) destinata a rimanere inutilizzata, Palazzo Marino ha potuto disporre di altri 75 mila mq da destinare ad area verde e ha colto l'occasione per recitare la parte. Dopo anni di totale mancanza di indirizzi, ha riconvocato i progettisti per ritoccare il progetto. I cittadini ora chiedono di rivedere tutto: «Spalmare le volumetrie», ricollocare le aree verdi e soprattutto discutere finalmente del progetto in consiglio comunale. Ma dietro la «questione area verde» si nasconde una crisi ben più profonda. I lavori di costruzione sarebbero dovuti partire nel 2006 e invece è tutto fermo. «Il progetto è stato criticato dagli analisti economici - sostiene Rolando Mastrodonato, presidente di «Vivi e progetta un'altra Milano» - sconsigliano di investire nell'ex Fiera. Insomma c'è il rischio che quei grattacieli, qualora fossero costruiti, restino vuoti e che gli spazi rimangano invenduti».

In Citylife sembra essersi determinata una spaccatura tra finanziarie (Generali e Ras) e costruttori (Ligresti), i quali sanno che costruire palazzi tanto alti costa molto e temono di non riuscire a rispettare i tempi e far quadrare i conti. L'attuale presidente di Citylife Ugo Debernardi (Generali) è dimissionario e con ogni probabilità verrà sostituito da un rappresentate dei costruttori. «Sono nei guai - è convinto Rolando Mastrodonato - il progetto ex fiera è l'esempio della politica del caso per caso che è il segno di questi anni a Milano. Ovvero nessuna visione d'insieme della città da parte della politica, nessun intervento globale da parte del Comune. Ogni speculazione è stata trattata come caso singolo guardando esclusivamente agli interessi dei privati e con totale mancanza di democrazia. Ora che il bluff ex Fiera è piuttosto evidente anche per i privati c'è da sperare che la linea intransigente voluta dalle finanziarie venga rivista e che si possa aprire lo spazio per una vera trattativa».

«Collusione pubblico-privato a spese della città»

Sara Farolfi

«Un gioco a tre pasticciato e irreversibile, dove i due attori che dovrebbero pensare alla collettività capitolano invece alla logica del migliore offerente». Roberto Camagni è professore di Economia urbana al Politecnico di Milano. Un economista dunque. «Rendita per me non è una parolaccia - chiarisce infatti subito - Ma reddito categorico del fattore produttivo terra». Eppure, c'è un «peccato originale» nel progetto di riqualificazione dei terreni dell'ex Fiera. «La rendita conta a Milano - dice - anche quella di enti che dovrebbero avere come obiettivo la creazione di valore pubblico». Il risultato? «Quell'area diventerà invivibile». E questo è il prodotto di ciò che Camagni definisce il «dramma milanese». «La politica che rinuncia ad avere un piano, procedendo piuttosto per singoli progetti, separati e derivanti dalle proposte del privato».

Partiamo dal «gioco a tre» tra Comune, Fondazione Fiera, e Citylife. Si parla di una «collaborazione pubblico - privato»...

Non vedo collaborazione tra pubblico e privato, ma quasi una collusione a spese della città. Il Comune ha fatto la gara, e tra i tre migliori progetti ha scelto quello del migliore offerente e non quello urbanisticamente migliore, dimenticandosi della sua funzione di custode della qualità urbana, come anche del fatto che la Fondazione Fiera, proprietaria dell'area e oggi istituzione di diritto privato, deriva dalla trasformazione di un ente morale che originariamente ricevette quei terreni a prezzi simbolici per le sue funzioni pubbliche. E' il developer privato a subire la speculazione edilizia del proprietario.

La vera controparte insomma è la Fondazione e non Citylife?

C'è stato un generale accordo tra Comune, Regione e Fiera, e io credo che la collettività dovrebbe chiedere conto di come verranno spesi quei 523 milioni di euro incassati dalla Fondazione come risultato di una valorizzazione tutta privatistica. Senza considerare la questione dei premi volumetrici che il Comune ha attribuito all'area, il doppio rispetto alla media delle trasformazioni recenti, e grazie ai quali la Fondazione ha potuto realizzare il suo sostanzioso gruzzolo. Si carica la città di un peso rilevantissimo per un progetto, tutto uffici e residenze, che nulla ha di vantaggioso per la collettività.

E quanto al rapporto tra Comune e developer?

Pensiamo agli oneri di urbanizzazione, e ai contributi di costruzione, che sono la contropartita pubblica dei vantaggi privati delle trasformazioni: a Milano, ma anche in Italia, si usa imporre oneri ridicoli. Basti pensare che a Milano questi oneri rappresentano soltanto il 10% del valore del costruito sui grandi progetti integrati di intervento, meno della metà di quanto si fa, ad esempio, in una città come Monaco di Baviera.

Anche dal punto di vista della gestione urbanistica, protestano i residenti, il progetto ha molte crepe...

Nei paesi normali, i grandi progetti urbani sono accompagnati da progetti sulla mobilità pubblica. Si cerca cioè di rafforzare il sistema di accessibilità pubblica e lo si fa pagare, almeno parzialmente, sotto forma di oneri negoziati sui progetti stessi, che ne usufruiscono. A Milano, invece, nulla. Lo stesso bando di concorso, per tornare all'ex Fiera, era nato così, e questa è responsabilità dell'urbanistica milanese.

Alternative ce n'erano...

E' sufficiente guardare al modello tedesco, che è il più vicino al nostro. A Monaco è stata la pubblica amministrazione a comprare l'area della Fiera, l'ha edificata e ne ha venduto il 45% al privato, con l'imposizione però di una quota tra il 30 e il 40% delle volumetrie residenziali, di edilizia sovvenzionata. Per il resto, il 22% è stato destinato a verde e il restante 33% a servizi, infrastrutture, scuole, musei e così via.

Non c'è una mistificazione quando si parla di negoziazione pubblico - privato?

Il modello negoziale mi trova d'accordo, a due precise condizioni però. Che il controllo resti in mano pubblica per la valutazione complessiva di coerenza con un progetto urbanistico generale, e che la negoziazione sia vera, trasparente e con risultati visibili. Attualmente c'è un'asimmetria tra pubblico e privato. E responsabili sono anche alcuni provvedimenti legislativi, come la legge regionale lombarda 12/2005 e il progetto di legge Lupi di riforma della legge urbanistica nazionale.

Del resto, il mercato immobiliare non mostra segni di cedimento...

Per un insieme di ragioni, nel decennio dal 1996 al 2006 i prezzi del costruito sono aumentati dell'85% in termini reali e a costi di costruzione costanti, con un margine di profitto che è aumentato in maniera incredibile. C'è una domanda che rivolgo spesso ai miei studenti, «come mai tutte le città all'estero diventano sempre più belle e le nostre sempre più brutte?». In Italia, il pubblico non porta a casa ciò che potrebbe.

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