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Luigi Scano
2005. Risse istituzionali (e incostituzionali) contro il paesaggio
20 Giugno 2007
Scritti di Gigi Scano
Una volta tanto che il governo ne fa una buona, regioni ed enti locali, in trasversale alleanza, s’oppongono. Una nota per eddyburg a proposito di Codice del paesaggio. In calce, il nuovo decreto e un'analisi

Il Consiglio dei Ministri avrebbe approvato, il 18 novembre 2005, uno “schema di decreto legislativo recante disposizioni correttive e integrative del Codice dei beni culturali e del paesaggio […], in relazione al paesaggio” (d’ora in poi chiamato semplicemente “nuovo schema di decreto”), come comunicato e precisato nella lettera di trasmissione di tale provvedimento al fine di acquisire il prescritto parere della cosiddetta “Conferenza unificata” Stato, Regioni, enti locali. Ciò sulla base dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n.137, con cui si è emanato il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42 (“Codice dei beni culturali e del paesaggio”, d’ora in poi denominato semplicemente come il Codice). Infatti Il medesimo articolo 10 conferisce al Governo la delega ad adottare disposizioni correttive e integrative dei decreti emanati, dovendosi tale delega esercitare entro due anni dall’entrata in vigore dei predetti atti legislativi, e quindi, per quanto riguarda il “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, entro il 1° maggio 2006

Le modifiche e le integrazioni che il “nuovo schema di decreto” prevede di introdurre nel Codice sono, a mio parere, nel complesso e singolarmente considerate, migliorative del provvedimento legislativo sul quale intervengono: talvolta rilevantemente migliorative, talaltra volta più apparentemente che sostanzialmente tali, più spesso appena correttive, quasi mai peggiorative, e in tali casi in termini marginali e agevolmente correggibili.

Ho recentemente avuto l’occasione di esporre e motivare dettagliatamente la mia opinione in una comunicazione intitolata “Contenuti, efficacia e possibili conseguenze della pianificazione paesaggistica”, tenuta a un seminario organizzato dall’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali e dalla Regione Emilia-Romagna, e conseguentemente di confrontarmi sul merito della medesima opinione con gli autorevoli partecipanti allo stesso seminario. In ogni caso, qualsiasi frequentatore di eddyburg.it potrà formarsi i propri specifici e complessivi pareri esaminando partitamente, e valutando, le innovazioni proposte, ed evidenziate in quanto tali, nel “confronto sinottico tra Codice originario e modificato”.

In questo intervento mi limiterò pertanto a fare presenti, a grandi linee e con qualche ineluttabile apoditticità valutativa, le più consistenti modifiche e integrazioni che il “nuovo schema di decreto” prevede di introdurre nel Codice.

Correzione di errori materiali

Si propone, innanzitutto, di correggere alcuni veri e propri errori materiali, presenti nel Codice, e derivanti da sciatteria, imprecisione, difetti di coordinamento finale tra i diversi passaggi del testo. Errori largamente e abbastanza facilmente ovviabili in sede interpretativa, ma che ciononostante avevano suscitato gravi equivoci, e corrispondentemente accese polemiche.

Vale la pena di citare, quale esempio particolarmente significativo, l’infelicissima espressione del comma 1 dell’articolo 142 del Codice per cui i beni enumerati nel medesimo comma sarebbero stati sottoposti ope legis alle disposizioni del Titolo del Codice recante “Tutela e valorizzazione” dei “beni paesaggistici” soltanto “fino all'approvazione del piano paesaggistico ai sensi dell'articolo 156”. Anche esponenti di organizzazioni e movimenti aventi quale ragione sociale la tutela del patrimonio culturale hanno, autolesionisticamente, sospettato, o dato addirittura per scontato, che l’espressione appena sopra riportata implicasse la possibilità, per il piano paesaggistico, di abrogare tout court la qualità di “beni paesaggistici” di taluni degli elementi territoriali enumerati, o di loro parti. Con ciò privilegiando l’interpretazione maggiormente capace di stimolare lo sdegno verso gli atti e le intenzioni vandaliche e criminogene del Governo in carica (come se per ciò mancassero ben più solidi argomenti!), anziché quella, argomentabile senza soverchie cavillosità, più suscettibile di garantire la tutela dei beni per cui si faceva mostra di battersi. A ogni buon conto, il “nuovo schema di decreto” propone, puramente e semplicemente, la soppressione dell’espressione dianzi riportata, con ciò risolvendo drasticamente equivoci e polemiche. Ometto di citare altri esempi, pur aventi con quello fatto consistenti analogie, per rispettare i caratteri dichiarati di questo intervento.

Ritocchi integrativi

Si prevedono, in secondo luogo, un certo numero di “ritocchi” integrativi al Codice.

Tale è, a mio parere, quello che il “nuovo schema di decreto” propone di operare all’articolo 136 del Codice, nel quale vengono delineate (in termini pressoché letteralmente riproducenti quelle di cui all’articolo 1 della legge 29 giugno 1939, n.1497) le categorie di beni che possono essere qualificati “beni paesaggistici” attraverso specifici provvedimenti e atti amministrativi singolarmente afferenti a ognuno di essi. Il “nuovo schema di decreto” prevede di inserire espressamente tra “gli immobili e le aree” definibili “beni paesaggistici” i “centri storici” e le “zone di interesse archeologico”.

Quest’ultima categoria è stata indicata, essenzialmente, per sovvenire a (veri o supposti) problemi individuativi, e non rileva granché darne conto. Mentre può dare la sensazione di una forte innovazione l’esplicita citazione del “centri storici”: la quale invece, a un’appena più attenta riflessione, finisce con il doversi considerare assai modesta (la stessa relazione illustrativa del “nuovo schema di decreto” riconosce trattarsi nulla più che del chiarimento di una possibilità già suggerita, nientepopodimeno, dall’articolo 9 del Regio Decreto 3 giugno 1940. n.1357, recante il regolamento di attuazione della legge 1497/1939, e comunque “già ampiamente praticata dalla prassi amministrativa degli ultimi decenni”) e forse addirittura foriera di rischi. Mi riferisco al fatto che la sottolineatura della prospettiva di definizione dei “centri storici” quali “beni paesaggistici” può stimolare una concezione della tutela dei medesimi “centri storici”, e delle unità di spazio (unità edilizie e unità di spazio scoperto) che li compongono, limitata alla preservazione dell’”aspetto esteriore”, ignorando le elaborazioni, e le centinaia (almeno) di discipline pianificatorie e regolamentari definite in Italia negli ultimi quattro o cinque decenni, volte a garantire la conservazione delle caratteristiche tipologiche strutturali delle unità di spazio, con particolare riferimento, tra l’altro, agli assetti distributivi interni delle unità edilizie.

Miglioramenti sui contenuti della pianificazione paesaggistica

Più rilevanti e positive ritengo siano le correzioni che il “nuovo schema di decreto” prevede di apportare agli articoli 135 e 143 del Codice, i quali, nel loro insieme, definiscono innanzitutto i contenuti della pianificazione paesaggistica. Tali correzioni possono infatti sortire l’effetto di attutire, e di rendere evitabili (pur senza escluderli del tutto) i rischi di dare luogo a una pianificazione paesaggistica del tutto priva di reale pregnanza e incisività precettiva, insiti nelle norme dell’originaria, e vigente, stesura del Codice.

Queste ultime norme, infatti, pretendono la costruzione di astratte categorie di “trasformabilità”, relazionate a presumibilmente assai soggettivi “gradi di valore”, attribuiti a “ambiti omogenei”: la qual cosa porterebbe quasi inevitabilmente, se non attraverso scappatoie sostanzialmente elusive del dettato legislativo, a dettare disposizioni assai poco, o per nulla, relazionate alle specifiche e peculiari caratteristiche conformative, meritevoli di tutela conservativa, delle concrete componenti territoriali considerate. Altrimenti detto, laddove, in sede di redazione di uno strumento di pianificazione paesaggistica si sia individuato un “ambito” di “elevatissimo pregio paesaggistico” racchiudente (ipotizzando a casaccio) un’area boscata, una prateria montana sommitale, qualche corso d’acqua torrentizio, un’area di interesse archeologico, si potrebbe sfidare chiunque a dettare precetti pregnanti circa le trasformazioni, le attività, le utilizzazioni ammissibili, anziché vaghi e vacui auspici, con riferimento all’”ambito” in quanto tale. Mentre, per converso, da un lato sarebbe estremamente agevole stabilire prescrizioni conformative precise per ognuno degli elementi territoriali presenti, dall’altro sarebbe certamente auspicabile, e da perseguire, quand’anche più complesso, modulare tali prescrizioni conformative sia in relazione agli intrinseci gradi di valore di ognuno di tali elementi territoriali, sia in relazione alle reciproche interrelazioni degli specifici elementi territoriali presenti.

Mi permetto di soggiungere che quanto ora asserito risulta confermato dall’unico, formidabile, provvedimento pianificatorio di efficace tutela dell’identità culturale di un intero (tendenzialmente) territorio regionale, varato negli ultimi tre lustri: il piano paesaggistico regionale della Sardegna recentissimamente adottato dalla Giunta regionale presieduta da Renato Soru. Non essendo, a mio parere, dubitabile che se gli straordinari valori connotanti tuttora la grandissima parte dell’isola in cui affondano metà delle mie radici (mi si passi l’allusione personalistica e la debolezza sentimentaloide) saranno preservati per il godimento delle generazioni presenti e future dell’umanità tutta, lo si dovrà a quelle parti del piano che disciplinano partitamente e puntigliosamente concrete componenti territoriali, e specifiche categorie di elementi.

Il controllo e la gestione dei beni tutelati

Ma le modifiche e integrazioni più consistentemente innovative riguardano, per il vero, il controllo e la gestione dei beni (paesaggistici) soggetti a tutela.

Si prevede, infatti, di stabilire la vincolatività del parere del competente soprintendente in merito al rilascio, o meno, delle speciali autorizzazioni alle quali è subordinata l’effettuabilità di trasformazioni dei beni soggetti a tutela (modifiche e integrazioni proposte dal “nuovo schema di decreto” all’articolo 146 e passim).

Si badi bene che non è minimamente intaccata la previsione del Codice (articolo 143) per cui la pianificazione paesaggistica, qualora sia formata congiuntamente e concordemente dalle regioni e dalle amministrazioni statali specialisticamente competenti, può sottrarre taluni elementi territoriali riconosciuti quali “beni paesaggistici”, o parti di essi, all’ordinario regime di necessaria sottoposizione delle trasformazioni in esse operabili all’ottenimento di speciali autorizzazioni, venendo queste ultime, per così dire, “assorbite” negli ordinari provvedimenti abilitativi delle trasformazioni, finalizzati ad accertare la conformità delle trasformazioni medesime alle regole dettate dalla pianificazione paesaggistica e da quella, sottordinata, a essa adeguata.

Ciò, peraltro, viene considerato ammissibile solamente con riferimento ai “beni paesaggistici” così qualificati ope legis (e, a mio parere, con riferimento ai “beni paesaggistici” qualificati come tali dalla stessa pianificazione paesaggistica). Essendo esplicitamente esclusi da tale possibilità i “beni paesaggistici” definiti come tali con specifici provvedimenti amministrativi, evidentemente ritenendosi (per quanto opinabile e discutibile possa essere tale convinzione) che il pregio intrinseco posseduto da questi ultimi beni esiga un controllo puntuale e discrezionale della coerenza con esso delle trasformazioni via via proposte, non bastando alla bisogna la verifica della conformità di tali trasformazioni alle regole definite dalla pianificazione.

E si badi altresì che la vincolatività del parere del competente soprintendente in merito al rilascio, o meno, delle speciali autorizzazioni, è esclusa (comma 4 dell’articolo 143 come risulterebbe dalle modifiche e integrazioni proposte dal “nuovo schema di decreto”) in tutti i casi in cui la pianificazione paesaggistica sia formata congiuntamente e concordemente dalle regioni e dalle amministrazioni statali specialisticamente competenti. Quantomeno laddove le regioni stabiliscano di esercitare direttamente la funzione autorizzatoria, o di delegarne l’esercizio alle province, essendo stabilito (comma 3 dell’articolo 146 come risulterebbe dalle modifiche e integrazioni proposte dal “nuovo schema di decreto”) che, ove invece intendano delegare tale esercizio ai comuni, da un lato possono farlo soltanto ove sia stata approvata la pianificazione paesaggistica formata congiuntamente e concordemente dalle regioni e dalle amministrazioni statali specialisticamente competenti e i comuni vi abbiano adeguato i propri strumenti urbanistici (il che ritengo assolutamente sensato e condivisibile), da un altro lato permarrebbe comunque la vincolatività del parere della competente soprintendenza relativamente al merito della rilasciabilità delle autorizzazioni (il che, invece, propendo a ritenere scarsamente giustificato).

In buona sostanza, e in estrema sintesi, l’assunto concettuale fondamentale della più rilevante innovazione proposta dal “nuovo schema di decreto”, è quello per cui, ove e fino a quando i beni (paesaggistici) soggetti a tutela non siano disciplinati da regole conformative, immediatamente precettive e direttamente operative, definite d’intesa tra tutti i soggetti istituzionali che costituiscono la Repubblica, ivi compreso lo Stato, e per esso la sua amministrazione specialisticamente competente, non può essere escluso un ruolo decisionale di quest’ultima amministrazione nell’apprezzamento discrezionale, caso per caso, delle trasformazioni ammissibili dei predetti beni soggetti a tutela.

Proteste delle regioni e degli enti locali

Non si vuole minimamente negare che l’ora sunteggiato assunto concettuale sia stato tradotto, dal “nuovo schema di decreto”, in concrete disposizioni, e in combinati disposti precettivi, tutt’altro che privi di sbavature, di particolari discutibili, di eccessi scarsamente giustificati di cautele: criticabili, ovviabili, correggibili.

Così come l’intero “nuovo schema di decreto” avrebbe potuto dar luogo, in primis proprio nella sede deputata a esprimere il primo parere in merito a esso, cioè nell’ambito della cosiddetta “Conferenza unificata” Stato, Regioni, enti locali, a un approfondito confronto rivolto a perfezionarne i contenuti, e quindi a ottimizzare il modello giuridico e operativo della concorrenza dei soggetti che costituiscono la Repubblica (comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato) in quella tutela del paesaggio che della Repubblica è un compito indeclinabile secondo il relativo “principio fondamentale“ proclamato dall’articolo 9 della Costituzione. Avendo ben chiaro che, in questa come in consimili fattispeci, il termine concorrenza (purtroppo di non univoco significato anche nel nostro dovizioso lessico italiano) significa collaborazione compartecipativa con altri soggetti alla realizzazione di un fine comune, e non, come (sacrosantamente) in altri contesti, confronto competitivo con altri soggetti nell’acquisizione, produzione e vendita di beni.

Risulta invece che, una volta approdato il “nuovo schema di decreto” nella cosiddetta “Conferenza unificata” Stato, Regioni, enti locali, esso sia stato dichiarato, dal “fronte” delle regioni e degli enti locali, con prontezza scarsamente ricorrente, e con raramente tanto piena convergenza trasversale (rispetto alle formazioni e alle coalizioni politiche di appartenenza dei rappresentanti dei soggetti istituzionali partecipanti), assolutamente inaccettabile e inemendabile.

E risulta altresì che, a fronte di tale atteggiamento, il Ministro per i beni e le attività culturali, Rocco Buttiglione, abbia operato, nei confronti del povero “nuovo schema di decreto”, un veloce e disinvoltissimo (quanto scarsamente avvalorabile: ma parimenti pacificamente accettato) “disconoscimento di paternità”.

Per cui si dice (senza nulla precisare) che ci si accingerebbe a riformulare un nuovo testo, muovendo dai (non meglio indicati) desiderata del “fronte” delle regioni e degli enti locali, senza la benché minima garanzia (anzi, nell’assoluta improbabilità) di riuscire a completare l’iter definitorio del provvedimento legislativo delegato entro il termine stabilito dalla legge di delegazione (1° maggio 2006).

Assieme ad altri collaboratori di eddyburg.it, e ad altri ancora, ho veementemente e severamente condannato il tentativo, portato avanti dall’attuale maggioranza parlamentare in sede di formazione della cosiddetta “legge Lupi”, di estromettere il sistema regionale e degli enti locali dalla compartecipazione all’attività sia legislativa che amministrativa (pianificatoria, innanzitutto) in argomento di tutela dei beni culturali e paesaggistici. Così come ho veementemente e severamente condannato i concreti atti con cui l’attuale Governo ha deferito alla Corte costituzionale provvedimenti legislativi regionali che pretendevano (nientepopodimeno) di includere la tutela dell’identità culturale del territorio tra i contenuti necessari della pianificazione d’ogni livello: beccandosi dalla Corte, in risposta, sentenze paragonabili a ceffoni sul grugno, se è lecito usare metafore così popolane per temi tanto aulici.

Altrettanto veementemente e severamente ritengo vada oggi condannato l’atteggiamento del “fronte” delle regioni e degli enti locali, il quale, proprio per il suo rifiuto a entrare dettagliatamente nel merito di ogni singolo punto, si appalesa come uno “sgomitare” rivolto a ridurre entro termini irrisori, se non ad azzerare, il ruolo dello Stato nella tutela dei “beni paesaggistici”.

Con ciò mostrandosi altrettanto (pur se su posizioni simmetriche) estraneo allo spirito e alla lettera di quel, già ricordato, “principio fondamentale” di cui all’articolo 9 della Costituzione del 1948 per cui la tutela del paesaggio (e del patrimonio storico e artistico) compete alla Repubblica, e quindi alla totalità delle sue articolazioni, nessuna potendo esserne esclusa.

Per questo, cioè per la profonda aspirazione a una riscoperta della “forza propulsiva” della Costituzione del 1948 che penso animi, magari quasi inconsciamente, la stragrande parte del “popolo progressista” (o “riformista”, o “democratico”, fate voi) di questo Paese, oltre che per i profili più strettamente di merito, ritengo altresì, e per concludere, che i problemi posti dalle vicende qui sommariamente esposte e raccontate, esigerebbero l’assunzione di chiare prese di posizione da parte del gruppo dirigente dell’Unione (delle calate di calzoni del ministro attualmente in carica, francamente, mi importa assai meno che di un fico secco).

Candidato premier Romano Prodi, batterai un colpo?

Qui allegati i file in formato Adobe .pdf contenenti:

- Il testo dello schema di nuovo decreto

- Un quadro sinottico di confronto tra il decreto vigente e il nuovo proposto

- Il testo della lezione tenuta da Luigi Scano all'IBC Emilia-Romagna

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