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Ida Dominijanni
Quegli aerei che sconvolsero la percezione del mondo
14 Febbraio 2007
Articoli del 2006
L'11settembre ha infranto il muro dei nostri schemi mentali. Ancora da ricomporre. Da il manifesto, 10 settembre 2006 (m.p.g.)

Il numero di Internazionale in edicola commemora il quinto anniversario dell'11 settembre 2001 ripubblicando le prime pagine dei principali quotidiani del giorno dopo di tutto il mondo. Tornare a sfogliarle fa bene: riporta a quel primo shock della ragione e dell'inconscio, della parola e dell'immaginario, che prese tutto il mondo di fronte al collasso delle Torri gemelle in diretta tv. E aiuta a rispondere alla domanda che tutte le prime pagine del mondo si pongono in questi giorni, tornando a loro volta a quel «più niente sarà come prima» che si disse allora: che cosa è cambiato in realtà in questi cinque anni? tutto, poco, niente? Le risposte, come sempre, dipendono dal metro di misura. Ed è uno strano metro di misura, iperrealistico, quello di chi sostiene, cifre e macrotendenze alla mano (l'autorevole Foreign Affairs, ma anche e altrettanto autorevolmente, nella pagina qui a fianco, Immanuel Wallerstein), che in verità è cambiato poco o nulla - nel sistema-mondo, nella politica estera americana, nei flussi del capitalismo mondiale, nel rapporto fra il colosso americano e il colosso cinese emergente o fra il nord e il sud del mondo -, e che il grande evento con cui tutt'ora ci troviamo a fare i conti non è tanto l'11 settembre quanto il crollo dell'Urss e dell'ordine mondiale bipolare. Altre cifre crude e altri crudi fatti - le guerre fatte in risposta all'11 settembre e i cadaveri relativi, la centralità conquistata dal mondo islamico, l'inasprirsi del conflitto in Medioriente, i nuovi muri in Palestina e alle frontiere più calde dell'immigrazione, i diritti sacrificati sull'altare della sicurezza - basterebbero a replicare che in realtà molto è cambiato eccome. Ma non è solo questo il punto, perché quello che l'11 settembre ha cambiato non si può misurare solo con il metro, sempre discutibile, dell'oggettività. Per quanto poco o molto l'11 settembre abbia cambiato nel mondo, di certo ha cambiato la nostra percezione del mondo. E accanto alle guerre combattute sul campo, altre ne ha aperte - «guerre culturali» le chiamano infatti - nella nostra interpretazione del mondo.

Per questo fa bene rivedere le prime pagine di cinque anni fa, e ripensare quel «siamo senza parole» che ricorreva nei titoli come nella vita quotidiana, a significare che lo sfondamento delle Torri era anche uno sfondamento dei nostri schemi mentali e delle nostre categorie interpretative. In quei quattro aerei-cyborg nel cielo americano non c'era solo l'attacco inaudito alla grande potenza, la volontà di potenza del terrorismo internazionale, la fine della favola bella della «fine della storia», di una globalizzazione senza conflitti e di una democrazia senza resistenze che era spuntata dalle macerie del mondo bipolare. C'era, in quei quattro aerei così alieni e insieme così familiari, un'improvvisa epifania del mondo globale che ci piombava in casa via tv come un mondo interconnesso ma drammaticamente fratturato, secolarizzato nell'uso della tecnologia e teologico nella deriva apocalittica, multiculturale nei suoi flussi reali (di 63 etnie erano le vittime delle Torri) e identitario nei suoi proclami di guerra. Non eravamo attrezzati a interpretarlo, tutto andava ripensato, le geometrie mentali dovevano aprirsi e adeguarsi a quella nuova geometria non euclidea del mondo globale.

Il seguito è, in larga parte, storia del conflitto fra chi ha lottato appunto per aprirle e chi per richiuderle. La «grande narrazione» dello «scontro di civiltà» che, allestita prima dell'11 settembre, ne ha interpretato il dopo, altro non rappresenta che questo tentativo di riportare il «disordine» del mondo globale al rassicurante ordine del due del mondo bipolare perduto: l'Occidente contro l'Islam, la democrazia contro il Nemico ritrovato, l'identità contro la minaccia dell'alterità e delle diversità. Una litania speculare a quella di Bin Laden, che maschera e ingabbia le fratture reali che lacerano da dentro i due campi , e invalida i legami altrettanto reali che possono fluidificarli. Tutto il resto ne consegue, ed è appunto la posta in gioco - politica, geopolitica, culturale, antropologica - del cambiamento in corso, che dentro la grande e la piccola cronaca di questi cinque anni ha riscritto l'agenda del presente.

Dalla concezione della vita e della morte ai criteri della convivenza internazionale, dalla concezione dell'Occidente a quella della democrazia, dal multiculturalismo ai rapporti fra i sessi nulla ne è rimasto esente. Se la pratica sacrificale del terrorismo suicida ha attaccato alla radice il dispositivo primario della deterrenza, cioè la difesa della propria vita, la dottrina e il dispiegamento della guerra preventiva ha fatto fuori a sua volta il tabù primario della guerra su cui la convivenza internazionale si era retta - non senza infrazioni- dopo la seconda guerra mondiale. Con l'11 settembre il costituzionalismo novecentesco è finito sia nelle relazioni internazionali, sia all'interno degli stati democratici: lo stato d'eccezione è diventato la norma, Guantanamo incombe sulla coscienza occidentale. La democrazia, esportata con la forza fuori dall'Occidente, si svuota nelle società occidentali; i diritti sono le sue munizioni, da imporre agli altri e soprattutto alle altre con il nostro linguaggio e i nostri tempi.

L'Occidente universalistico torna così a mostrare la sua faccia più parziale ed etnocentrica. Il dopo-11 settembre ha inciso potentemente su questo punto sempre in bilico della nostra storia, piegando la società multiculturale americana, e due decenni di «lotte per il riconoscimento, su una concezione tradizionalista, e irrigidendo a loro volta le società europee. Al centro dei conflitti culturali, la libertà femminile e i rapporti fra i sessi sono diventati la posta in gioco dei backlash patriarcali, fuori dall'Occidente e dentro, e dell'espansionismo democratico: non si vede solo dai tentativi di legittimare in nome delle donne le guerre in Afghanistan e in Iraq, si vede dagli ordinari episodi di cronaca che affliggono la nostra provincia, e dalle ordinarie leggi come quella francese contro l'uso del velo in nome della laicità, a sua volta diventata, nella guerra contro il fondamentalismo, un valore aggressivo.

Le cose potevano prendere un'altra piega? Potevano e possono. La fine dell'invulnerabilità americana sancita dall'11 settembre poteva esser letta ed elaborata come un memento dell'interdipendenza, dell'esposizione all'altro, della fragilità che ovunque unifica la condizione umana. Poteva, può derivarne non un arroccamento identitario ma un'apertura alla differenza; non un affossamento ma un ripensamento della democrazia. La storia ufficiale di questi cinque anni dice che non è stato così. La memoria sotterranea del trauma, quella che non passa nei media mainstream ma traspare nei romanzi di Safran Foer e nei film di Spike Lee, può restituire altre impronte e altre soluzioni, e attende ancora di essere ascoltata e rappresentata. Dopo l'11 settembre tutto è cambiato, ma tutto è ancora in gioco.

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