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Andrea Manzella
Il Parlamento perduto
10 Febbraio 2007
Articoli del 2006
Un’analisi del funzionamento del Parlamento ora disciolto, e una speranza per il futuro; con una postilla. Da la Repubblica del 13 marzo 2006

Qual è il consuntivo del Parlamento che si è chiuso, quale la speranza per quello che si apre? Il consuntivo è purtroppo quello di una legislatura violenta. Tale da augurare agli italiani che una legislatura così non si veda mai più. Il parlamento è, infatti, una istituzione di pace civile. "Parlamentare" come "negoziare". "Parlamentarizzazione" come continua acquisizione al sistema democratico di movimenti politici e pulsioni che nascono con caratteristiche antisistema. La nostra lingua, come le altre lingue, riconduce alle radici della parola "Parlamento" significati di dialogo, di apertura, di inclusione.

Gli anni appena trascorsi dal 2001 ad oggi saranno segnati, invece, come una stagione in cui si è perduto, con il senso dell’autonomia del parlamento, anche il senso del suo nome.

Certo, ovunque, nel mondo delle democrazie, il parlamento ha ceduto peso a favore del governo per le decisioni legislative che attuano il programma elettorale della coalizione che ha vinto. E l’Italia ha partecipato sia pure con squilibri e incertezze agli inevitabili fenomeni di delocalizzazione della legge: dalle Camere al governo, alla pubblica amministrazione. Ma il fatto è che mentre la legislazione se ne esce sostanzialmente dal Parlamento, questo è stato occupato da bandi governativi emanati per privati scopi, personali o proprietari, che non meritano neppure lo stesso nome di legge. La parola legge, nel suo significato originario di «legame» tra chi decide e la comunità politica, appare per essi impropria e quasi impudica. Quegli atti, infatti, con il popolo sovrano non hanno avuto nulla a che fare. Con quel popolo che ha eletto un Parlamento e investito un governo su un programma che di quegli affari non parlava affatto.

Come non parlava di stravolgimento delle regole fondamentali della politica. C’è stato, invece, il prolungato attacco all’intero impianto della Costituzione utilizzando una procedura (l’art. 138) che la prassi repubblicana aveva sempre scartato, tutte le volte che con intenti condivisi si era tentata la riscrittura della intera organizzazione costituzionale. La prassi aveva infatti registrato un punto fermo con la legge costituzionale 24 gennaio 1997 n. 1 per la istituzione della «Bicamerale»: incaricata, appunto, di «elaborare progetti di revisione della parte II della Costituzione» da approvare poi con speciali procedure delle Assemblee.

Neppure era nel contratto di programma il cambio unilaterale delle regole elettorali dell’ultima ora, contro il codice di buona condotta elettorale europeo. E con questa lacerazione si è accompagnata anche la rottura del rapporto di prossimità territoriale tra elettori ed eletti. Un esempio di «democrazia negata al popolo» che i cittadini stanno in questi giorni mettendo a fuoco a poco a poco, sbalorditi per l’enormità della cosa. Mentre è già diffuso il timore che incostituzionali aggiunte di seggi nei risultati regionali possano addirittura «falsificare», per norma di legge, il risultato elettorale...

Ma la legislatura non è stata violenta solo per i suoi contenuti. Lo è stata anche per le sue procedure di schiacciamento dell’opposizione. Una maggioranza numerica senza precedenti nel nostro Paese non è bastata infatti al governo per far passare le sue leggi. Ha avuto bisogno di ricorrere a tutte le forzature del parlamentarismo di emergenza ora non più giustificate dalle ristrettezza dei numeri: salti di istruttoria, questioni di fiducia, maxi-emendamenti, contingentamento dei tempi, decreti-legge zeppi di cose eterogenee. Cinque anni di stress che si è ripercosso anche sulle istituzioni di garanzia. Così abbiamo avuto le finte-correzioni delle leggi rinviate dal Presidente della Repubblica perché palesemente viziate di incostituzionalità. Abbiamo avuto le leggi contro la magistratura (e quelle che hanno mutato la sorte dei "processi della casa", sono state più offensive per la funzione giurisdizionale di quella stessa che ha varato la controriforma finale dell’ordinamento giudiziario).

C’era possibilità per i presidenti delle Camere, il senatore Pera e l’onorevole Casini, di porre un qualche freno a queste truculenti manifestazioni di tirannia della maggioranza? Noi pensiamo di sì. E pensiamo anche che con la legislatura che muore i presidenti abbiano mancato una straordinaria occasione per temperare la ferocia del muro contro muro parlamentare. Il modello dello speaker d’Assemblea sopra le parti, come a Westminster, il modello dell’uomo della Costituzione che cancellava il suo nome dalla "chiama" delle votazioni perché votando non parteggiasse: modelli vanificati, come "mestieri che scompaiono".

Al Senato, la sola riforma regolamentare promossa dal presidente è stata quella di introdurre il principio maggioritario nel consiglio di amministrazione di Palazzo Madama: da sempre concepito come punto di pacifica convivenza, luogo di gestione consensuale della casa Parlamento e dove la contrapposizione maggioritaria era estranea al principio di corretto governo del condominio. Non è più così. Come non c’è più il principio antichissimo che voleva intangibile, salvo che per decisione unanime dell’Assemblea, l’ordine del giorno prefissato per la seduta in corso. Ora una grossolana interpretazione ha consentito che una nuova programmazione, decisa a maggioranza, possa cambiare senza preavviso, il lavoro della giornata parlamentare già iniziata.

Se poi, dall’ordine interno d’Assemblea, si passa al delicatissimo rapporto con il governo, si scopre che un’altra assurda decisione ha consentito che un semplice sottosegretario potesse mutare a suo piacimento, l’oggetto, sinora "sacro e inviolabile", su cui il Consiglio dei ministri aveva chiesto formalmente la fiducia del Parlamento. Inventando così l’istituto della fiducia "scorrevole", per "oggetto da precisare". Un mandato in bianco: in un regime parlamentare che ha smarrito così uno dei suoi "fondamentali".

Al presidente della Camera non si possono imputare devianze di questo tipo, destinate a restare incise nel legno storto del diritto parlamentare. Egli rimane però pur sempre associato al presidente del Senato per certe assai discusse nomine congiunte ad Autorità di garanzia. La joint venture tra i presidenti di Assemblea fu in altri tempi escogitata per garantire la caratura bipartisan di quelle nomine. Leggi concepite quando, per convenzione parlamentare della Prima Repubblica, una delle presidenze spettava alla maggioranza e l’altra all’opposizione. Ma leggi diventate illogiche, e da usare dunque con immensa cautela, quando i due presidenti vengono fuori dalla stessa covata maggioritaria.

I presidenti avrebbero potuto poi contenere, se non accortamente impedire, il fenomeno che ha avuto la sua prima apparizione in questa legislatura, delle "commissioni-canaglia". La commissione d’inchiesta delle Camere, che ancora oggi nelle grandi democrazie, è espressione alta del parlamentarismo dell’Occidente (la grande inchiesta sull’11 settembre è una gloria del Congresso Usa) è degenerata da noi in rozzo strumento di propaganda disegnato e usato contro l’opposizione. Volto a sostenere tesi di accusa più che ad accertare le verità dei fatti.

Ma la responsabilità più pesante delle presidenze delle Camere è stata di ordine costituzionale. Ad essi si imputa infatti l’ostruzionismo all’ingresso in Parlamento di rappresentanti di regioni, province, comuni. Ingresso previsto dalla legge costituzionale del 18 ottobre 2001, n. 3: ad integrazione della commissione bicamerale per le questioni regionali. Si sono così perduti cinque anni. Perché si è impedita una sperimentazione utilissima sia per capire come dovrebbe funzionare una Camera delle regioni, sia per stabilire un serio filtro preliminare e pregiudiziale delle inevitabili liti tra governo centrale e governi territoriali, sia per arricchire il Parlamento di apporti diretti della periferia istituzionale alla funzione legislativa centrale. Le anomalie di "governatori" che si candidano al Senato mentre sono in carica, si sarebbero forse evitate se i presidenti delle Assemblee si fossero preoccupati di fare attuare quella legge costituzionale.

Mancata ogni risorsa di moderazione, la cultura dello scontro è dilagata. Per questo il consuntivo della legislatura è quello di una partita violenta. Difficile fare di peggio. La speranza è che da questa triste esperienza venga fuori la volontà di fare, anche con l’argine di regole diverse, del nuovo Parlamento un Parlamento vero.

Postilla

Se il buongiorno si vede dal mattino, e se il giorno del nuovo Parlamento è annunciato dal mattino delle liste elettorali, allora bisogna temere che le speranze del bravo parlamentarista sono molto esili. Grazie alla indecente legge elettorale fatta approvare al pessimo Parlamento da Berlusconi, le liste sono “bloccate”: ciò significa che i membri del Parlamento sono stati scelti dai partiti, tutti in profonda crisi di legittimità, i quali hanno scelto – in grande maggioranza – persone capaci di garantire fedeltà e obbedienza più che competenza e rigore istituzionale. E gli elettori non hanno nessuna voce in capitolo. Quale miracolo potrà trasformare un così brutto mattino in una luminosa giornata, professor Manzella?

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