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Luciano Gallino
L'Operaio e la Macchina
15 Febbraio 2007
Articoli del 2006
La realtà nascosta dietro i conflitti nelle fabbriche. Una sapiente sintesi storica. La Repubblica 20 gennaio 2006

SE SI guarda alla storia del lavoro, i metalmeccanici – le tute blu – non sono una categoria di operai tra le altre. Sono l´Operaio. L´operaio è anzitutto un corpo umano al quale si chiede, da oltre due secoli, di compiere su dei pezzi di metallo alcune operazioni, semplificate al punto da poter essere eventualmente affidate a una macchina. In seguito a ciò diventa possibile costruire una macchina che provvede a render superfluo l'operaio.

Prima dell´operaio - è il caso che riporta Adam Smith in La natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776) - uno spillo veniva fabbricato da un solo lavoratore, il quale stirava il filo d´acciaio, lo tagliava di misura, forgiava la testa dello spillo, appuntiva l´altra estremità, lucidava il tutto e lo incartava. Poi qualcuno scoprì che facendo svolgere ciascuna operazione da un singolo lavoratore la capacità di fabbricare spilli – quella che si sarebbe chiamata produttività – poteva aumentare di centinaia di volte. Con la divisione del lavoro applicata in modo spinto alla fabbricazione di spilli era nato il moderno metalmeccanico.

La macchina che fabbricava da sola gli spilli fu inventata davvero qualche tempo dopo, per cui gli operai del settore persero il lavoro. Successivamente un processo analogo si è ripetuto in molti altri campi. Non solo nella fabbricazione di parti metalliche, ma anche nel loro montaggio o assemblaggio per giungere a un prodotto finito. All´inizio del Novecento un ingegnere statunitense, Frederich W. Taylor, perfezionò la divisione del lavoro nelle officine introducendo un nuovo principio: pensare nuoce alla produttività. Chi usa le braccia per lavorare non deve pensare a quello che fa. Questo compito spetta soltanto alle direzioni d´officina. I loro uffici "tempi e metodi" sono centri di scienza organizzativa, incaricati di studiare come far muovere il corpo e le membra dell´operaio nel modo scientificamente più appropriato, allo scopo di ricavare da esse una maggior produttività.

Poco dopo la sua concezione teorica, la divisione del lavoro di tipo tayloristico, nel duplice senso di scomposizione d´un mestiere in operazioni elementari e ripetitive, e di drastica separazione tra ideazione ed esecuzione, veniva applicata su larga scala nelle officine Ford di Detroit sotto forma di catena di montaggio (1913). L´oggetto in fabbricazione – in questo caso un´auto, ma lo stesso sistema verrà presto adottato in ogni settore produttivo – scorre su un nastro meccanico davanti al lavoratore. Questo non deve far altro che compiere alcuni gesti elementari, purché si muova con la rapidità necessaria a non farsi scappare il pezzo che avanza sulla catena. Per vari aspetti i robot di oggi sono stati prefigurati allora. Le attuali braccia meccatroniche non compirebbero i movimenti sapienti che avvitano e verniciano, posizionano e montano pezzi complicati, se non fossero stati prima concepiti come movimenti delle braccia di operai addetti alle catene di montaggio.

Operai che però hanno anche una mente, la quale non ha mai gradito di venire consultata sul lavoro il meno possibile, perché così le manifatture prosperano di più, né di vedere il corpo che la ospita trasformato, insieme con quello dei compagni, in una parte di una grande macchina. Un´osservazione risalente ad un autore che influenzò non poco Marx, Adam Ferguson, il quale nel Saggio sulla società civile del 1767 denunciava pure la «disparità di condizioni e ineguale coltivazione della mente» che derivava da una avanzata divisione tecnica del lavoro.

Ci hanno provato spesso, i metalmeccanici, a ridurre la disparità di condizioni che deriva dal lavoro suddiviso in fasi insignificanti, e a introdurre in fabbrica una maggior possibilità di coltivare la mente. Lo hanno fatto con gli scioperi contro l´organizzazione parcellare del lavoro, dalla Renault di Billancourt del 1912 sino alla Fiat di Melfi del 2004, uno stabilimento in cui il tradizionale ufficio tempi e metodi che stabiliva imperativamente con quale angolo, e a quale velocità, bisogna muovere il braccio sinistro o la gamba destra, è stato sostituito da un computer; non è chiaro se con un tocco di umanità in più o in meno. Si sono opposti al lavoro insignificante, i metalmeccanici, anche specializzandosi in nuove professioni, come quelle che consistevano nel fabbricare parti dal raffinato e complesso disegno guidando a mano, con l´occhio al centesimo di millimetro, macchine utensili come torni e frese, rettifiche e piallatrici. Oppure, ancor sempre a mano, costruendo al banco, a forza di passaggi con lime e altri attrezzi via via più fini, prodigi di precisione come gli stampi destinati alle presse che ricavano dalla lamiera ogni sorta di sagome.

Sono professioni meccaniche durate una generazione o più, ma via via rese ridondanti, e gli operai specializzati con esse, dall´avvento di macchine sempre più indipendenti dall´operatore. Tornitori, fresatori e compagni sono stati quasi ovunque sconfitti, sin dagli anni ´50 del Novecento, dall´arrivo delle macchine utensili automatiche, poi dalle batterie di teste operatrici a trasferimento automatico, infine dai sistemi flessibili di produzione. Negli anni ´60 i mestieri di aggiustatori e attrezzisti sono stati eliminati dal controllo numerico - macchine che eseguono lavorazioni complicate sotto la guida di un programma elettronico. E per i mestieri restanti sono arrivati i robot.

C´è tuttavia qualcosa, nel corpo e nella mente dei metalmeccanici che hanno reso possibile con i loro successivi adattamenti l´industria moderna, che sembra proprio non possa essere trasferito alle macchine. E che forse spiega come siano ancora tanti, più di un milione e ottocentomila, e producano ancora, in Italia, immense quantità di manufatti all´anno: 27 milioni di tonnellate d´acciaio, oltre 20 milioni di elettrodomestici, 1 milione di auto, decine di migliaia di macchine che sanno fare di tutto, da produrre altre macchine a inscatolare biscotti. Tempo fa vi furono tecnici di produzione che puntavano a realizzare stabilimenti dove non c´era nemmeno bisogno di accendere la luce, perché erano interamente automatizzati. Ma quei pochi che riuscirono a costruire si rivelarono un mezzo disastro, e la maggior parte di simili progetti è stato abbandonato. Perché non c´è robot o automatismo che possa sostituire l´occhio e l´ascolto d´un operaio, allenati a distinguere ciò che a un dato momento funziona bene o male in un impianto in marcia; né la sua manualità che sa individuare e riparare difetti di qualità del prodotto. E meno che mai la sua conoscenza implicita dei mille snodi in cui le parti in produzione, i sistemi automatici, i tempi e i cicli e gli arrivi di materiali giusto in tempo dai fornitori si intersecano e si completano, ma non di rado si complicano e si disturbano a vicenda, sino a che l´intero processo s´inceppa. A meno che non intervenga la capacità del metalmeccanico di turno di capire e rimediare in tempo. Ad onta di chi vorrebbe che la sua mente fosse consultata il meno possibile, o di chi pensa che i metalmeccanici siano figure del passato.

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