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Ezio Mauro
La doppia sfida del Professore
10 Febbraio 2007
Articoli del 2006
Ora è il momento di tornare alla Politica. Per il bene di tutti. Da La Repubblica, 12 aprile 2006 (m.p.g.)

DUNQUE, cos´è successo? Per capirlo, guardiamo prima di tutto alla sostanza delle cose: se si confermeranno i risultati diffusi dal Viminale, Silvio Berlusconi non sarà più Capo del governo, e dovrà scendere le scale di Palazzo Chigi dov´era salito trionfante cinque anni fa. Non andrà nemmeno al Quirinale, dove pensava di trasferirsi per sette lunghi anni in caso di vittoria del Polo, dominando dal Colle tutta la visuale della politica italiana. La stagione del Cavaliere alla guida del Paese sembra dunque finita, mentre comincia la seconda era Prodi, con una prospettiva di governo esile nei numeri, faticosa nell´eterogeneità della coalizione, debole e incerta nella sua cultura politica: e tuttavia pienamente legittima. Perché il centrosinistra – stando ai numeri fino ad oggi ufficiali – alla fine ha vinto, dopo la battaglia elettorale più difficile di tutta la storia repubblicana.

Diciamo subito che se nell´ipotesi notturna di un pareggio (una Camera alla destra, l´altra alla sinistra) si discuteva del diritto della sinistra di provare a governare, nel momento in cui ha conquistato la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento l´Unione ha il dovere di provarci. Un dovere costituzionale, ma anche morale, perché Prodi si è presentato agli elettori chiedendo di mandare a casa Berlusconi e di cambiare governo, per aiutare l´Italia a ripartire voltando pagina. Siamo tutti sotto l´effetto di una doccia scozzese che non ha precedenti: prima il tam tam continuo che nel silenzio elettorale dà un vantaggio molto netto all´Unione, poi i primi exit poll che annunciano una vittoria sicura, quindi la correzione di rotta, le regioni conquistate un anno fa dalla sinistra che se ne vanno a destra, il Cavaliere che recupera, l´annuncio della sua vittoria al Senato per un voto, una vittoria che sembra estendersi anche alla Camera: infine il rovesciamento, prima parziale, poi totale, fino alla festa notturna per la vittoria, già insidiata dall´annuncio berlusconiano del ricorso per la verifica delle schede.

La moderna religione dei sondaggi si è svelata per quel che è, una superstizione a bassa tecnologia che punta a soggiogare la politica, determinandola o sostituendola, mentre compulsa il popolo invece di mobilitare i cittadini.

Squarciato il velo della falsa profezia, emerge la doppia realtà di un Paese spaccato a metà, irriducibile nelle sue divisioni frutto di culture divaricate, interessi legittimi separati e distinti, valori contrapposti e inconciliabili. Non è un risultato da poco per il centrosinistra prevalere nel discorso pubblico di un Paese sordo a turno per metà, dove oggettivamente le parole d´ordine della solidarietà, dell´uguaglianza, dei diritti e della giustizia fanno più fatica a passare, trasversali come sono nella loro natura politica. E invece l´Unione ha infine prevalso, di misura strettissima e tuttavia chiara, come se la saggezza superstite e residua di un Paese stremato vedesse nella sinistra più che nella destra l´unica possibilità di tenere insieme le due Italie.

Perché allora questo sentimento diffuso di vittoria mutilata, con un amaro sapore del successo? A mio parere la risposta è chiara: per la scoperta che anche nella vittoria dell´Ulivo Berlusconi "morde" su metà del Paese. C´è una metà dell´Italia che dopo dodici anni di avventura, dopo cinque di malgoverno, dopo una campagna elettorale esagerata e forsennata (che dovrebbe spaventare i moderati) sceglie ancora Berlusconi, e non importa se il sogno del ´94 è oggi bucato. Vuole Berlusconi non più per ciò che promette, ma per ciò che è, ormai apertamente svelato. Sceglie la sua natura nel momento in cui più diventa radicale, la sua proposta quando coincide con la sua figura e poco più, la sua politica quando è rivoluzionaria e tecnicamente sovversiva ad ogni regola, la sua figura come paradigma ingigantito e obbligatorio di una moderna destra.

È senz´altro possibile, anzi sicuro, che una parte di questi elettori voti Berlusconi per i suoi interessi, seguendo l´invito del Cavaliere a badare al portafoglio. Ma un´altra parte, con ogni evidenza, vota Berlusconi "contro" i suoi interessi, visti i cattivi risultati del suo governo, l´incapacità di fare le riforme, la crescita zero. E infine – ed è ciò che più conta – c´è un pezzo d´Italia che vota Berlusconi comunque e a dispetto di chiunque, per vero e proprio ideologismo. Berlusconi come ultima ideologia, anzi, come ideologia che cammina. Solo così si spiega il recupero impetuoso del Cavaliere: nella sua capacità di trasformare la sua base sociale fatta di piccola borghesia antiliberale, di proprietà minuta, larga e diffusa, di intellettualità radicale e "rivoluzionaria" non solo in un blocco sociale, ma in una specie di vera e propria nuova "classe", pronta a muoversi omogeneamente in politica. Se quella classe oltre al portafoglio ha un´anima, come ha, Berlusconi ne è oggi il signore incontrastato. E non solo. Paradossalmente, nel momento in cui finisce di essere premier, Berlusconi comincia ad essere una politica.

L´adesione ideologica al berlusconismo, il dirsi e il diventare di destra attraverso Berlusconi, consente al Cavaliere l´uso politico più libero e spregiudicato della sua base di manovra. Così ieri con una mano ha delegittimato e post-datato la vittoria della sinistra, alludendo a piccoli brogli, pasticci nei seggi da verificare, con una manovra d´interdizione. E con l´altra mano ha lanciato a sorpresa la proposta di una grande coalizione capace di governare la divisione italiana, anche con la sua personale fuoruscita dall´orizzonte del governo. Per l´alterità dei due schieramenti nella scena italiana, e per i toni dell´ultima campagna, è una sorta di compromesso storico berlusconiano, inedito, suggestivo nell´impianto europeo, ma poco credibile nel tradimento definitivo di ogni spirito maggioritario, ma soprattutto del vero spirito del Cavaliere. La destra ha vinto nel 2001 e ha governato. Se la sinistra ha vinto, è giusto che governi, o almeno che ci provi. Così dicono le regole, che hanno però anche un corollario: se Berlusconi ha perso, è giusto che vada all´opposizione, dismetta il ruolo di deus ex machina, passi la mano. Ieri, la sua proposta sembrava il tentativo ansioso e troppo precipitoso di tenere comunque in mano il mazzo delle carte e fare il gioco, almeno dentro la destra: dove già si smarca la Lega.

Per governare davvero, e non provarci soltanto, che cosa serve alla sinistra italiana? Verrebbe da rispondere: ciò che non ha (e dunque ciò che gli elettori non hanno potuto trovare nei seggi): un´identità chiara e risolta, quindi una coscienza di sé. La controprova è nel buon risultato dei partiti con una ragione sociale netta, come Rifondazione, ma anche come i Verdi e i Comunisti italiani, persino Di Pietro. I guai cominciano con la Margherita, che non vede l´onda lunga, e soprattutto con i Ds, rimpiccioliti nelle ambizioni al 17,5 per cento, dopo essere stati l´asse centrale della coalizione per cinque anni. Verrebbe da dire: se per troppo tempo non sai chi sei, prima o poi gli elettori se ne accorgono. Dove si va con quel 17, dove si va col 10,7 della Margherita? Da nessuna parte, com´è evidente.

Se prima il partito democratico era un´opportunità per Rutelli e Fassino, oggi è una necessità. Guai però se lo concepiscono come un assemblaggio di apparati, un piccolo meccano di classe dirigenti e un dòmino organizzativo. Deve avere e trasmettere un´impronta di modernità europea, di apertura e di inclusione (a partire dai socialisti, dai radicali, dalla società), di identità nuova, di necessità riformista, di cultura di governo, forte e radicale. Deve essere l´occasione per rinnovare le classi dirigenti, a partire dal vertice, senza paure e senza riserve. Insomma, deve essere una cosa nuova, da fare subito, credendoci, senza furbizie. Solo così, cambiando la natura della sinistra, può cambiare il suo destino. E solo così può funzionare da perno e baricentro per il governo Prodi in questa stagione complicata.

Tutto ciò dà a Prodi un compito in più, un compito doppio. Deve provare a governare, in una situazione difficilissima, non solo per i numeri, ma per l´eterogeneità di una coalizione da trasformare in forza di governo, e per la debolezza di una cultura riformista ancora incapace di dispiegarsi. Ma nello stesso tempo, deve essere alla testa di questo processo di fondazione di un nuovo Ulivo, che si chiamerà partito democratico. Il Professore sa che la sua è una vittoria debole, fragile. Se parte per galleggiare, va a fondo. Ha bisogno di strappare, di pensare in grande. Cominci dal suo governo, indicando subito i ministri, fuori dai giochi e dai condizionamenti, sentendo i partiti, ma senza farsi ingabbiare. La sua debolezza è la sua forza: la usi, come se il partito democratico ci fosse già.

La vera risposta alla mossa berlusconiana della grande coalizione sta nella capacità di Prodi di parlare al Paese, a tutto il Paese. Ci provi, cominciando da quel Nord che per la prima volta nella storia italiana si contrappone politicamente al Centro, diventando il nuovo scrigno ideologico del Cavaliere, le regioni berlusconiane contro le regioni rosse, con la destra che acquista un territorio, espropriando la Lega. L´altra risposta a Berlusconi, sta nella capacità del centrosinistra di indicare una soluzione limpida ma condivisibile per il Quirinale. Oggi il nome possibile è uno solo, quello di Carlo Azeglio Ciampi, che vuole lasciare il Colle ma che rappresenta un punto d´incontro forte e sicuro. Da qui bisogna partire.

Come si vede, e per fortuna, dopo il voto la parola torna alla politica. La sinistra mostri di averne una, dopo l´antiberlusconismo. La politica è l´unico modo per far vivere un governo Prodi, se nascerà dopo la vittoria. Ed è anche l´unico modo per battere davvero Berlusconi, dopo averlo disarcionato.

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