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Barbefinte fuori legge e libertà di stampa
14 Febbraio 2007
Articoli del 2006
Due articoli (di Enzo Mauro e di Giuseppe D’Avanzo) commentano e informano del nuovo scandalo dei servizi.Da la Repubblica del 6 luglio 2006

Scenario inquietante

di Ezio Mauro

Un atto ufficiale della Procura della Repubblica di Milano contro due alti funzionari del Sismi ipotizza che il giornalista di Repubblica Giuseppe D’Avanzo sia stato sottoposto a intercettazione illegale da parte dei nostri servizi segreti.

Si tratta, com’è evidente, di uno scenario inquietante. Un giornalista impegnato da anni in un lavoro di analisi e di inchiesta – insieme con Carlo Bonini – su tutte le vicende più delicate ed oscure della Repubblica viene fraudolentemente "ascoltato" nel suo lavoro da parte di due pubblici ufficiali, incaricati di operare a tutela della sicurezza del Paese e dei cittadini. Non solo. Gli stessi soggetti, secondo i magistrati che li hanno invitati a comparire, hanno messo in atto «comportamenti di controllo degli spostamenti fisici» di D’Avanzo e Bonini, cioè li hanno seguiti e pedinati, nei loro movimenti e nei loro contatti di lavoro.

È la prima volta, da molti anni, che la libertà di stampa subisce un attentato così clamoroso e patente nel nostro Paese. Qualcosa di inconcepibile in qualsiasi democrazia, anche più malandata della nostra. Un reporter intercettato fuori da ogni inchiesta giudiziaria, da ogni ipotesi di reato, da ogni autorizzazione della magistratura, fuori in una parola dalla legalità e dalla legge. Semplicemente per un sopruso, un abuso di potere diretto contro l’autonomia della libera stampa.

È così grave quanto è avvenuto che ci dobbiamo domandare dov’è cominciato, e quando è finito. Quali altre intercettazioni sono state fatte a giornalisti, senza emergere nel filtro casuale di un’inchiesta? Con quali limiti invisibili, con quanti custodi occulti, abbiamo lavorato negli anni di Berlusconi? E il governo attuale, di fronte a questo attacco ad un diritto fondamentale di una società democratica, non sa far altro che replicare una gregaria "fiducia" nei servizi? Perché non si domanda e soprattutto non domanda se il direttore del Sismi ha autorizzato questo sfregio illegale? Se sapeva, ed è dunque colpevole direttamente, o se non sapeva, ed è colpevole indirettamente?

Repubblica, naturalmente, si difende da sola, con il lavoro dei suoi reporter che è davanti ai suoi lettori. Ma se il Paese non ha nulla da dire quando un giornalista è intercettato dai servizi perché indaga su di loro, perché scrive su un giornale sgradito, o semplicemente perché è un giornalista, allora significa che in quel Paese tutto può davvero succedere.

Se le spie manipolano la realtà

di Giuseppe D’Avanzo

Chi ha saputo che cosa? Dopo l’arresto di Marco Mancini e Gustavo Pignero, l’uno e l’altro – nel corso del tempo – direttori del controspionaggio del Sismi, è questa ora la domanda che deve trovare una risposta accettabile. Le fonti di prova raccolte dalla procura di Milano (testimonianze di agenti segreti, tracciati telefonici, intercettazioni) raccontano che i due alti ufficiali dell’intelligence militare erano a conoscenza della decisione della Cia di sequestrare Abu Omar.

Quanto meno, i due ufficiali del Sismi non hanno fatto nulla per impedire l’extraordinary rendition del cittadino egiziano, come sarebbe stato loro compito istituzionale e di legge. È la conferma di quanto Repubblica va raccontando da tempo. L’Italia sapeva del «gravissimo attacco all’autorità dello Stato italiano e ai trattati internazionali» (come ha scritto il giudice Chiara Nobili), della «grave violazione della sovranità nazionale che, per la prima volta nella storia giudiziaria italiana, ha sottratto un indagato all’autorità giudiziaria per condurlo con la forza in uno Stato terzo» (come ha scritto il giudice Guido Salvini). Oggi, però, dire che "l’Italia sapeva" non significa più nulla.

Chi ha saputo? Le cose, in questi casi, dovrebbero andare così. L’agente segreto che ha notizia dell’organizzazione di un reato, o che presto un delitto sarà commesso, deve informare il suo superiore diretto. Il superiore diretto deve riferire al suo superiore, su su fino alla cima della catena gerarchica. La procura di Milano muovendosi dall’ultimo anello della catena - un maresciallo dei carabinieri che partecipa al sequestro nella speranza di essere trasferito nei ranghi degli 007 - è risalita con la decisiva testimonianza del capocentro Sismi di Milano (nel dicembre del 2002, il colonnello Stefano D’Ambrosio, contrario alla rendition, viene rimosso dall’incarico in un batter di ciglia) alla responsabilità di Marco Mancini, nel 2003, responsabile dei centri del Nord-Italia e reggente del centro di Milano (dopo la liquidazione di D’Ambrosio). Da Mancini a Gustavo Pignero, tre anni fa direttore del controspionaggio.

Agenti in azione durante il sequestro. Mancini. Pignero. L’indagine, per il momento, si ferma qui, alla porta del direttore del Sismi, Nicolò Pollari. Si può prevedere che i due alti ufficiali, nei loro interrogatori, dovranno soprattutto rispondere a questo interrogativo: hanno informato il loro Capo? Se i due agenti segreti dovessero confermare che l’informazione è salita fino al gradino più alto, avrebbero fatto il loro dovere. Le loro spalle sarebbero libere da ogni accusa. I grattacapi sarebbero tutti di Nicolò Pollari.

Ancora un’altra circostanza è oggi evidente. Escluso il direttore della "Ditta" da ogni provvedimento giudiziario (nessun avviso di garanzia, nessun invito a comparire, nessuna convocazione come testimone), si deve concludere che, al momento, i pubblici ministeri di Milano, Ferdinando Pomarici e Armando Spataro, non ritengono di avere in mano alcuna fonte di prova che possa far pensare che Pollari sapesse.

Pollari non ha saputo, dunque. Non è una novità. Nel corso di questi anni, è capitato spesso al direttore del Sismi di non accorgersi di quel che accadeva nel cortile di casa sua. Qualche esempio. Un gruppo di lestofanti, guidati da un facchino del mercato ortofrutticolo di Brescia, con l’aiutino di un ex collaboratore del Sismi, e documenti falsi e confessioni farlocche, combina la trappola "Telekom Serbjia". Per due mesi tiene sulla griglia, dicendoli «ladri», Prodi e Fassino e il direttore del Sismi non si accorge di nulla. Non vede e non sente. Un manipolo agguerrito di ex ufficiali dell’Arma dei carabinieri occupa un nodo nevralgico di Telecom Italia. È il luogo dove si effettuano tutte le intercettazioni telefoniche del Paese, utilizzandole (sospetta la Procura di Milano) secondo necessità assolutamente estranee alle ragioni istituzionali. Pollari, che pure per esigenze d’ufficio, ha strettissimi rapporti con Telecom, non si avvede di nulla. Nulla dice e nessuno avverte. Tre pitocchi - un ex collaboratore del Sismi, una "fonte" del Sismi, un colonnello del Sismi - pasticciano, ai tavolini di un bar, documenti contraffatti sull’uranio nigerino per sostenere che Saddam si sta preparando una bomba atomica e il direttore nulla sa, nulla vede. I siriani vogliono salvarsi dalla risoluzione dell’Onu che li obbliga a lasciare il Libano. Hanno una trovata per salire, da bravi ragazzi, sul carro della lotta al terrorismo. Inventano un attentato al tritolo alla nostra ambasciata di Beirut. Con la collaborazione del Sismi, afferrano un paio di poveri cristi. Li torturano per farli confessare. Troppo. Uno degli afferrati muore in carcere. La Grande Spia non se ne cura. Corre, trafelato e soddisfatto, in Parlamento. Annuncia di aver protetto l’Italia da un catastrofico «11 settembre». Una manina scaltra trafuga nell’estate del 2005 intercettazioni telefoniche che non vengono neanche trascritte all’autorità giudiziaria. E’ vero - come dicono i soliti maldicenti - che le sale di intercettazioni della Guardia di Finanza a Milano sono «affollate di agenti segreti». Ma la Grande Spia di nulla s’avvede, né prima né dopo.

Come di nulla si deve essere accorto, Pollari, dell’»agenzia di disinformazione e dossieraggio» che un funzionario del Sismi, sotto la supervisione di Marco Mancini (intanto diventato direttore del controspionaggio) ha organizzato in un "ufficio riservato" al 230 di via Nazionale a Roma. L’appartamento è all’attico. Da quell’attico, il funzionario controlla un giornalista, «fonte Betulla», che offre "appunti riservati" sulle indagini di Milano. È illegale, per il servizio segreto, ingaggiare giornalisti. Se è stato concluso un ingaggio, è del tutto evidente che Pollari non ne ha saputo niente. E nulla deve aver saputo dell’accorta e diffusa manovra di disinformazione che quel funzionario, pur avendo un rapporto diretto con il Capo, pilota nelle redazioni di giornali di destra e di sinistra. Sono soprattutto "bufale", utili a frullare nella paura il Paese, o aggressioni diffamatorie contro chi alle "bufale" non crede. Meno che mai, Pollari deve aver compreso che il direttore del controspionaggio, con il funzionario dell’ufficio riservato ai "depistaggi redazionali", si sia lasciato prendere la mano e abbia organizzato pedinamenti di due reporter di Repubblica, l’"osservazione" dei loro incontri di lavoro. Addirittura, l’intercettazione illegale delle loro telefonate.

Siamo al punto. Nell’ipotesi che la procura di Milano resti con le mani vuote di prove a carico di Pollari - la migliore delle ipotesi - si può dire che il direttore non è stato e non è in grado di sapere che cosa accade nell’istituzione strategica che gli è stata affidata nell’interesse della sicurezza nazionale. La palese incompetenza e la dimostrata impreparazione del generale Nicolò Pollari rende assai stravagante la nota diffusa dal Palazzo Chigi. Si legge: «Il governo ha assunto le dovute informazioni sul cosiddetto caso Abu Omar da parte delle strutture di intelligence nazionale che hanno ribadito la propria totale estraneità alla vicenda».

Poche righe. La sintesi di uno sketch comico. Le cose dovrebbero essere andate così. Il governo, che non sa nulla, chiede a Pollari, che non sa nulla, che cosa è successo. Pollari, come sempre, risponde che non è successo nulla perché, per quanto lo riguarda, non ha saputo nulla o per lo meno i suoi uomini non gli hanno, come al solito, detto nulla. Allora il governo, rinfrancato dall’inettitudine di Pollari, si affaccia al balcone di Palazzo Chigi e grida all’Italia: tutto va bene, non è successo nulla, siamo in buone mani, nelle mani di chi non sa nulla e, se non sa nulla, non è successo niente. Non è così, mister Prodi?

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