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Mauro Baioni
Consumo di suolo: le sfide per la pianificazione.
22 Luglio 2006
Scuola estiva 2005
"Considerazioni conclusive sulla scuola estiva di pianificazione 2005": una sintesi di quattro giorni di lavoro

Il consumo di suolo è la misura dell’espansione delle aree urbanizzate a scapito dei terreni agricoli e naturali. Il suo monitoraggio è un tema di estremo interesse per l’urbanistica, poiché investe appieno alcune tra le principali questioni che la pianificazione è chiamata ad affrontare: la forma della città, la distribuzione sul territorio delle funzioni, il conflitto tra usi alternativi del suolo.

Nel sito Eddyburg.it e nella prima edizione della scuola estiva di pianificazione è stata avviata una riflessione che non si è limitata ai soli aspetti di tecnica urbanistica. Grande attenzione è stata dedicata a temi apparentemente distanti tra loro, come l’economia, la storia del territorio, la pianificazione dei trasporti, la valutazione ambientale, che solo nel loro complesso intreccio consentono di comprendere le ragioni dell’inarrestabile crescita delle aree urbanizzate, delle conseguenze – economiche e sociali – procurate dalla mancata regolazione dello sviluppo urbano e, solo a questo punto, dei rimedi che possono essere apportati attraverso la pianificazione territoriale e urbanistica.

Ragioni e fattori di crescita del consumo di suolo

E’ spettato a Edoardo Salzano, fondatore di Eddyburg.it e promotore della scuola, il compito di inquadrare il tema, focalizzando l’attenzione sul rapporto tra consumo di suolo, economia e stili di vita, sottolineandone la patologia e indicandolo come uno degli effetti di un modello socio-economico che tende a disgregare progressivamente polis e urbs.[1]

Nel nostro paese assume un particolare rilievo la rottura dello stretto legame tra modi di produzione e territorio che aveva caratterizzato tutta la storia italiana fino al 1900, come ha spiegato Piero Bevilacqua. Per secoli la necessità di governare le acque, di adattare le terre per le coltivazioni, di rendere affidabili le reti di comunicazione e di difesa ha innervato il rapporto di mutua interazione tra uomo e natura. In poche generazioni questa necessità è venuta meno e con essa l’attenzione al territorio: il paesaggio, da costruzione collettiva del presente, è diventato memoria ingombrante del passato e l’urbanizzazione ha progressivamente e indistintamente invaso consistenti porzioni del suolo nazionale, nelle pianure, nelle coste, nei fondovalle.[2] Una trasformazione, ci ha ricordato Antonio di Gennaro, che ha investito non solo le aree urbane, ma - con altrettanta intensità - il territorio rurale, troppo spesso negletto dalla cultura urbanistica. Anche la campagna si è trasformata perché persino la produzione agricola, alla pari del commercio e della produzione industriale, ha perso il proprio legame con il territorio. Un cambiamento radicale, orientato da politiche commerciali definite a scala europea e mondiale, che si è rivelato comunque del tutto insufficiente a sostenere, economicamente oltre che culturalmente, la competizione con l’utilizzo urbano del suolo, come testimonia la drammatica dissipazione dei suoli fertili e ricchi di storia dell’entroterra napoletano.

L’espansione delle aree urbane è ben lontana da essersi arrestata. Al contrario, essa viene sostenuta dall’impennata delle rendite immobiliari con rinnovato vigore da una decina d’anni a questa parte. Spiega Giovanni Caudo che persino la produzione di abitazioni, edifici industriali e uffici sembra aver subito una mutazione genetica, all’apparenza smaterializzandosi[3]. Gli edifici diventano poste nei bilanci, sono oggetto di continui passaggi di mano tra società, acquistano un valore del tutto slegato dalla loro effettiva funzione. Gli effetti prodigiosi nelle casse delle società immobiliari sono ormai noti ai più, così come l’impennata dei costi di acquisto e affitto delle abitazioni. Dovrebbe essere evidente il nesso, causale e temporale, tra i due fenomeni, ma così non è. La pianificazione non ha finora risposto con la necessaria prontezza, anzi in taluni casi sembra voler agevolare questo perverso meccanismo. Molti sono gli esempi illustrati durante i cinque giorni della scuola.

La pianificazione:

strumento di controllo o di sostegno?

Il caso del Prg di Roma, indagato da Paolo Berdini, è esemplare di quanto possano incidere le scelte della pianificazione urbanistica nell’assecondare l’espansione delle aree urbane. Ma non si tratta di un comportamento isolato, tutt’altro. Anche in Emilia Romagna, nonostante il territorio sia pianificato con completezza e costanza da oltre trent’anni, l’espansione urbana e la dispersione degli insediamenti nel territorio hanno assunto proporzioni consistenti. Piero Cavalcoli ha mostrato la disseminazione di insediamenti produttivi nella piana bolognese, un centinaio di aree grandi 20 ettari o più, disposte a raggiera attorno al capoluogo. Lo stesso avviene in Toscana, dove sono state censite 130 aggregazioni con più di 50 ettari disseminate nei fondovalle e nelle poche aree pianeggianti. Oppure, con forza ancora maggiore, nel Veneto: 556 aggregazioni produttive censite nella sola provincia di Treviso. La razionalità delle singole decisioni assunte dai piani produce, dunque, una complessiva irrazionalità.

I difetti di questo modello, basato sulla sommatoria di decisioni particolari, sono amplificati dalle distorsioni nella rete dei trasporti. Come ha chiarito Alfredo Drufuca, la logica di costruzione e gestione di autostrade, strade e ferrovie è orientata a soddisfare prioritariamente se non esclusivamente le esigenze di bilancio e di funzionamento degli enti gestori, (monopolisti pubblici o privati, poco importa), ignorando la realtà territoriale in cui si collocano le infrastrutture, così come gli effetti territoriali delle scelte compiute. Paradossalmente, la congestione di alcune tratte e la dispersione degli insediamenti si alimentano a vicenda e le soluzioni usualmente proposte non fanno che amplificare i problemi.

Sembrerebbe necessario, dunque, spingere in direzione di una maggiore coerenza complessiva delle scelte, rafforzando il ruolo degli enti pubblici, in particolare di province e regioni. Tutto il contrario di quanto si va affermando con la proposta di legge urbanistica in discussione al Senato. Vezio de Lucia ha evidenziato come la proposta redatta dall’onorevole Lupi porti alle estreme conseguenze il modello “individualista” e frammentario delle decisioni che sta alla base della disarticolazione della crescita degli insediamenti: l’iniziativa sulle trasformazioni della città viene completamente delegata ai privati (rectius, agli investitori immobiliari) e l’autorità pubblica si limita a introdurre qualche correzione, con armi che la stessa legge provvede a spuntare. La debolezza del sistema della pianificazione viene ulteriormente esasperata da altri passaggi del testo legislativo, laddove si depotenziano i piani territoriali e si rinuncia ad una visione dell’urbanistica coincidente con il “governo del territorio”, a favore di una più angusta visione rivolta alle sole trasformazioni edilizie, al cemento e all’asfalto come avrebbe detto Antonio Cederna.

La separazione tra urbanistica, ambiente e paesaggio non è senza conseguenze. Nel ricordarci le difficoltà che hanno incontrato l’applicazione della VIA e la redazione dei piani specialistici, Dario Franchini e Maria Pia Guermandi hanno ben argomentato come questo scorporo finisca col rafforzare quella frattura tra società e ambiente di cui si è parlato all’inizio del paragrafo precedente. In una società sempre più avulsa dal territorio in cui abita, la protezione del paesaggio, dei beni culturali e dell’ambiente sono così percepiti come un vincolo, come un costo, persino come un lusso in tempi di crisi, e non – come sarebbe auspicabile – il fondamento delle scelte.

Modelli di crescita ed effetti prodotti

La crescita delle aree urbane non si è dunque arrestata, né in Italia, né nel resto del mondo, tutt’altro. Sprawl, diffusione, dispersione insediativa: attraverso questi termini Maria Cristina Gibelli ha spiegato come il consumo di suolo si accompagni ad un uso sempre più estensivo dello spazio, alla perdita dei confini della città, alla progressiva formazione di un magma di costruzioni, infrastrutture e aree agricole relitte. Fabrizio Bottini ha percorso una consistenze sezione della principale delle conurbazioni italiane, quella padana, e le sue fotografie – scattate lungo la strada che congiunge Torino a Venezia – illustrano nella loro sequenza quanto sia profonda la dilatazione e destrutturazione dello spazio urbano, a dispetto delle intenzioni dei piani territoriali. Nel panorama della conurbazione convivono tuttora forme tradizionali di espansione, come ricordato da Berdini e De Lucia a proposito di Roma: la crescita della città non costituisce affatto un rimedio alla congestione delle aree centrali. Al contrario, la deregulation dello sviluppo urbano comporta l’esasperazione congiunta di due fenomeni solo apparentemente opposti: l’uso sempre più intensivo di alcune parti del territorio e la dissipazione di superfici agricole sempre più ampie. Lo testimoniano le grandi trasformazioni urbane (Caudo), le dinamiche della mobilità (Drufuca, Cavalcoli) e persino il turismo (Ravaioli), i cui effetti negativi sono legati sia ad un eccesso di pressione nelle città d’arte o lungo le coste, sia ad una sua progressiva diffusione in aree poco vocate e accessibili.[4]

Il confronto con altre nazioni europee, compiuto da Georg Frisch, evidenzia l’abissale vuoto di conoscenze in Italia, a testimonianza di quanto sia poco in auge il tema del controllo degli usi del suolo. Mentre in Germania e in Gran Bretagna, accurati catasti degli usi e delle trasformazioni sono posti a fondamento di politiche di correzione delle dinamiche spontanee di crescita delle aree urbane, in Italia sono disponibili poche ricerche, effettuate senza alcun sostegno e coordinamento da parte dello stato e delle regioni. Quanti km di costa sarda sono destinati al turismo? Quante porzioni dei fondovalle appenninici o delle pianure interne sono stati consumati, in nome dello sviluppo industriale delle piccole imprese? Chi abita nelle nostre campagne? Qual’è la mappa reale degli spostamenti che compiamo ogni giorno?

Altre domande scaturiscano dall’osservazione della distribuzione di costi e vantaggi. Il mancato controllo del consumo di suolo e la dispersione degli insediamenti generano una serie di costi collettivi la cui entità è stata stimata, per la prima volta in Italia, in una ricerca condotta da Camagni, Gibelli e Rigamonti, della quale Gibelli ha presentato gli esiti. Il fatto che pochi gruppi sociali si avvantaggino di una consistente esternalizzazione dei costi, ambientali, sociali ed economici non sembra essere ben compreso. Una sottovalutazione che provoca distorsioni evidenti: attualmente è più vantaggioso urbanizzare il terreno agricolo, rispetto alla ristrutturazione di aree dismesse; attualmente i comuni derivano gran parte del proprio sostentamento da oneri di urbanizzazione e ICI (cioé dalla consistenza e dalla crescita delle aree urbane); nella prospettiva indicata da alcune leggi regionali e fatta propria dalla proposta di legge urbanistica nazionale, la realizzazione e persino la gestione dei servizi pubblici (degli asili, delle scuole, del verde pubblico, degli impianti sportivi...) saranno indissolubilmente legati ad operazioni di trasformazione urbana. Al “motore della crescita urbana”, per usare l’espressione del Sustainability institute americano, non si vuole far mancare il carburante.

Il panorama sulle leggi regionali fornito da Luigi Scano dimostra la superficialità con cui la pubblica amministrazione si occupa del controllo della crescita urbana: qualche dichiarazione di principio relativa alla sostenibilità, poca o nessuna attenzione al territorio rurale, letto al più come supporto per la produzione agricola. Non è dunque un caso che anche nelle regioni con la migliore tradizione urbanistica, Toscana ed Emilia, la crescita e dispersione degli insediamenti abbiano interessato significative porzioni di territorio.

I rimedi possibili: quali sfide per la pianificazione

La panoramica fornita durante la scuola, sopra brevemente riassunta, mostra con sufficiente chiarezza la complessità del problema del consumo di suolo, il cui contenimento non può certo basarsi esclusivamente sul modo in cui vengono redatti gli strumenti urbanistici. Del resto il legame tra urbanistica e politica, così come tra politica e cultura è – o dovrebbe essere – assai stretto. Registriamo, dunque, la necessità che si ristabilisca innanzitutto questo legame, che gli urbanisti ritrovino parole capaci di descrivere la realtà, che smettano di interrogarsi esclusivamente sulla nomenclatura dei piani e riprendano ad occuparsi del rapporto tra società e territorio e di quanto l’organizzazione delle città è importante per la vita quotidiana delle persone. Se il territorio non è nell’agenda politica è anche perché gli urbanisti hanno perso le parole.

In secondo luogo, ben prima della definizione di complesse politiche o di raffinati strumenti di piano, sarebbe bene recuperare un po’ della chiarezza e della semplicità dei piani del passato, frettolosamente archiviati come strumenti inadeguati a governare il cambiamento. Al contrario: quanta forza visionaria era contenuta nei piani coordinati dei comuni della Val di Cornia, così come emerso dal racconto di uno dei loro autori, Carlo Melograni. In una tavola di piano caratterizzata da pochi e semplici colori viene tratteggiato un futuro diverso per lo sviluppo di Piombino e del suo entroterra, basato su una rete di parchi e non sullo sfruttamento immobiliare della costa. E che dire del piano regolatore di Napoli, pressoché l’unica grande città italiana ad avere approvato di recente un nuovo piano regolatore? Che reazione avreste, se vi descrivessero Napoli come una città circondata da un grande parco sulle colline, dove la piana industriale di Bagnoli è stata restituita alla città realizzando una spiaggia e un grande giardino pubblico, dove i turisti visitano il centro restaurato muovendosi con la metropolitana o il treno, dove il traffico soffocante e le macchine a Piazza Plebiscito sono un ricordo sbiadito... Eppure non si tratta della fantasia di uno scrittore, ma del contenuto concreto di un piano urbanistico che, quand’anche tradizionale nella forma, si rivela assai innovativo nei suoi contenuti.

Se appare auspicabile recuperare un po’ di chiarezza nel descrivere e interpretare la realtà, così come nel fornire proposte per il domani, la terza e probabilmente la più importante sfida per la pianificazione consiste nell’attivare gli strumenti che consentono il passaggio dall’idea di piano alla sua concreta realizzazione. E’ Massimo Zucconi, con il suo intervento, a ricordare quanta tenacia occorra per muoversi controcorrente. Eppure la storia di successo della Società dei Parchi Val di Cornia dimostra che è stato possibile tradurre in una realtà concreta l’intuizione tecnico-politica contenuta nei piani redatti all’inizio degli anni settanta. E’ stato possibile e necessario al contempo: se in Val di Cornia i parchi non fossero oggi un modello di gestione, un soggetto economico e un protagonista attivo sulla scena locale è del tutto probabile che le proposte di piano verrebbero facilmente sopraffatte, con esiti analoghi a quanto è accaduto in molte altre aree costiere. Allo stesso modo, la sorte del Prg di Napoli è indissolubimente legata al funzionamento della rete dei trasporti, alla vitalità del parco delle colline, alla progressiva realizzazione dei servizi nelle periferie e della riconversione di Bagnoli. Ad un’idea semplice, ma chiara, dello sviluppo delle città e del territorio deve perciò corrispondere un ventaglio di iniziative che solo nel loro insieme possono rappresentare un antidoto all’anarchia dello sviluppo urbano: politiche fiscali, rafforzamento del coordinamento intercomunale, incentivi al riutilizzo delle aree già urbanizzate, introduzione di regole più severe o di forme più stringenti di valutazione per l’ammissibilità delle espansioni urbane, introduzione di un legame obbligatorio tra localizzazione delle nuove aree urbane ed esistenza di un servizio di trasporto pubblico su ferro, introduzione di densità minime di occupazione del suolo, sostegno all’agricoltura come presidio ambientale e paesaggistico e così enumerando, come testimoniano i numerosi esempi forniti dai docenti della scuola. Nuovamente, si tratta di proposte che necessariamente esulano dallo specifico dei piani, e riguardano innanzitutto il funzionamento della pubblica amministrazione, e inoltre la sfera legislativa, quella economica, l’insieme delle politiche sul territorio, in un percorso circolare che necessariamente riconduce alla politica e alla cultura.

In conclusione

Ben vasto programma, dunque. E molto ricco di sfaccettature, così come era logico che scaturisse da una scuola estiva di pianificazione promossa da Eddyburg.

Per concludere, in questi giorni circola in televisione una pubblicità che mostra un uomo con sua figlia che giocano felicemente insieme. Per tutto il resto, recita lo slogan, c’è la carta di credito. Rovesciando il punto di vista, il mercato con le sue distorsioni sembra occupare ogni giorno sempre più spazio, nell’agenda politica così come nel piccolo mondo dell’urbanistica. Ebbene, per tutto il resto c’è Eddyburg. Questo credo che basti a spiegare l’affetto e l’impegno con cui hanno contribuito, docenti e partecipanti, al successo di questa settimana.

[1] Edoardo Salzano. Consumo e città. Dispense della scuola estiva di pianificazione 2005. Anche nel sito, qui.

[2] Va ricordato che la grande trasformazione descritta da Bevilacqua ha significato l’affrancamento dalla miseria, l’evoluzione del costume e la diffusione del benessere alla più gran parte della popolazione. Non è dunque uno sguardo nostalgico, ma piuttosto desideroso di comprendere il percorso compiuto per giungere sin qui. Nei giorni successivi alla conclusione della scuola, Vezio de Lucia mi ha segnalato il libro Terra di rapina di Giuliana Saladino, una testimonianza esemplare per ricordare quali drammatici eventi abbiano segnato i profondi cambiamenti dell’Italia del ‘900.

[3] Il significativo titolo della comunicazione di Caudo è “Case di carta”.

[4] E’ di questi giorni la demenziale proposta di costruire nuovi impianti da sci sulla sommità dell’Etna, a 2000 metri di quota, esempio paradossale di quanto il falso mito dello sviluppo turistico venga addotto come giustificazione per operazioni dall’elevatissimo impatto ambientale. Ma, all’opposto, anche la silenziosa e progressiva trasformazione della campagna toscana in chiave turistica meriterebbe qualche considerazione più approfondita, come sottolineato anche dai partecipanti al corso.

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