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Domenico Andriello
Il paesaggio urbanistico (1957)
12 Giugno 2006
Paesaggio (e territorio, e ambiente)
“È stato detto che da una buona pianificazione, condotta secondo sani criteri, scaturirà automaticamente il paesaggio del futuro”. Dal convegno INU di Lucca, novembre 1957, con una interessante bibliografia d'epoca, anche internazionale (f.b.)

Ci sia consentito, per sola comodità di ragionamento, di iniziare dalla constatazione, così ovvia da sembrare ormai assolutamente superflua, che il “problema del paesaggio” occupa un posto preminente tra quelli di estrema attualità.

Da qualche tempo la sua urgenza preme e si impone da ogni parte, sia dal punto di vista spirituale che da quello pratico, poiché è accaduto, come di solito accade per tutti i fenomeni che giungono a maturità nel campo sociale, che le esigenze culturali e la conseguente evoluzione del gusto sono state, per così dire, concretizzate e portate alla ribalta dell’attenzione pubblica non pure dal verificarsi bensì dall’esasperarsi di una situazione di fatto già denunciata e deprecata fin dagli inizi del nostro secolo: il decadimento delle sedi umane per l’irrazionale espansione degli antichi nuclei urbani all’esterno, la caotica congestione all’interno ed il derivante affollarsi del traffico nell’insufficiente schema stradale. Non è il caso di enumerare qui, ancora una volta, le cause; ampiamente investigate ed ormai generalmente note, di questa catastrofica situazione che trova la sua ragione d’essere nell’evoluzione del pensiero scientifico e nell’enorme sviluppo di mezzi tecnici, e, quindi, nelle mutate condizioni di vita della società umana.

L’accerchiamento eccessivo ed incomposto dei vecchi centri è passato dal depauperamento ad una vera e propria soffocazione delle loro funzioni vitali; anzi, l’esuberanza del tessuto neoplastico ha fatalmente fatto degenerare la natura di quest’ultimo, mutandolo in una formazione cancerosa, metastasi nociva ad ognuna ed a tutte le parti dell’organismo su cui era venuto ad inserirsi, si trattasse dei tessuti urbani, creati e perfezionati attraverso il tempo, o extra urbani, o meglio rurali, preservati e potenziati con una non meno assidua cura ed abilità. L’uomo, in altre parole, ha visto minacciato di inevitabile distruzione ciò che aveva costituito la sua fatica ed il suo orgoglio secolare: il frutto della sua lunga opera tesa a soddisfare i suoi bisogni materiali di esistere e di stare, nonché le concretizzazioni di tale opera che, nella loro riuscita armonia di esecuzione, lo riattaccavano al passato in un processo storico di unitarietà, esaudendo il suo bisogno spirituale di realizzarsi nel tempo. E si trattava, per di più, di una distruzione che non lasciava nemmeno intravedere una creazione completamente nuova, dettata da esigenze mutate, che potesse sostituire in pieno, con nuovi valori spirituali, quelli inestimabili su cui sembravano poggiare le strutture della sua civiltà. È in questo momento, nel nostro momento, che il problema del paesaggio si è espresso attraverso varie voci; ne è sintomo, tra i più evidenti e vivaci, un vasto movimento di rinascita di gusto archeologico che, pur ricordandolo, va assumendo proporzioni più ampie e radicali di quello, anch’esso imponente, che, apparentemente culturale intimamente politico-sociale, iniziatosi nella seconda metà del secolo XVIII come un nuovo culto del classicismo, traeva origine, insieme all’incipiente nostalgia romantica dell’atmosfera medievale, da un medesimo spirito di ribellione contro le forme care al dispotismo monarchico del Seicento e si esprimeva in un bisogno di riattingere alle fonti antiche. Ma il nostro problema, ce ne siamo tutti resi ben conto, non consiste nella sola ricerca di nuovi valori spirituali; esso si presenta prima di tutto, e materialmente, con l’urgenza di rinnovare le forme naturali e costruite, di vivificare il tessuto dei nostri stessi insediamenti e di equilibrare, mediante una oculata pianificazione, strutture nuove e preesistenze antiche, in un’opera organica di inserimento. E questa è solo la causa scatenante della crescente ondata di interesse che va dilagando fuori dall’ambiente dei tecnici e investendo tutti gli stati della pubblica opinione. Le altre cause determinanti, se pure meno catastroficamente evidenti, non sono tuttavia di minor peso nella formulazione del problema e nella necessità di un’urgente soluzione di esso. L’analogia della presente situazione urbanistica con quella che caratterizzò l’inizio dell’Età meccanica ci è d’aiuto nella comprensione, pur con le dovute varianti, di un certo numero di esse, particolarmente di quelle attinenti alla necessità del rinnovamento delle sedi per ragioni igieniche, economiche e sociali. Se ci fosse concesso di valerci della qualifica di pianificatori, necessariamente portati, quindi, a considerare l’effetto economico di ogni manifestazione della vita sociale, chiedendo venia della nostra concezione razionalistica che non vuole, tuttavia, essere rudemente meccanicista, ci piacerebbe presentare il complesso di tali determinanti sotto la forma di una equazione economica in cui il volume della domanda e la qualità della offerta hanno il loro inevitabile peso nella determinazione del valore di esso fenomeno. Che l’offerta della merce “paesaggio”, sia come bellezza naturale che come persistenza archeologica, si presenti, nel nostro paese, eccezionale particolarmente dal punto di vista qualitativo oltre che da quello quantitativo, non v’è alcuno che possa dubitarne, e, con buona pace dell’amico Detti, non crediamo che in questa considerazione ci aberrino miraggi di “esoso sfruttamento”. La bellezza, sotto i vari aspetti in cui si presenta, è una materia prima di cui l’Italia abbonda, è una delle merci principali che essa è tra le nazioni più qualificate ad apportare al fondo comune, ora che i previsti intensificati scambi, non solo di prodotti, ma anche di idee, porteranno ad un aumento di correnti turistiche. E pertanto la riabilitazione di buona parte delle nostre zone depresse del Mezzogiorno, così ricche invece di patrimonio naturale ed archeologico, potrà, in mancanza di un difficile sviluppo industriale, basarsi proprio sulla valorizzazione di quelle.

Ben più difficili ed imponderabili sono gli elementi determinanti della domanda, la quale, come è facile osservare, è veramente notevolissima. Oltre alla natura, ai precedenti culturali e allo spirito di curiosità ancora inesperta ed insoddisfatta in questo campo, che costituiscono le principali caratteristiche del grosso dei visitatori che affluiscono nel nostro paese, ansiosi di evadere dalle tumultuose metropoli industriali e di rituffarsi in un bagno di più sana interpretazione dei valori essenziali dello spirito, v’è da parte di noi tutti, figli di questa tormentosa età, una nuova, strana nostalgia dell’armonia naturale o artistica che è sola capace di restituirci a quella serenità di vita che va ormai scomparendo nel ritmo rapido della civiltà moderna. È, il nostro, uno di quei fatali ciclici ritorni, non rari nella storia dell’umanità, in cui, raggiunto uno stato estremo di tensione tra spirito e materia, tra bellezza ed espressione, si cerca un rimedio alla profonda crisi di incertezza e di abbattimento, riattaccandosi alle antiche forme, riassorbendole e rielaborandole, sia pure come esperienza culturale riflessa se non come diretta esperienza di vita. E la nostra crisi, nella tremenda instabilità prodotta dall’enorme mutevolezza dei credi filosofici e della dinamicità paurosa delle conoscenze scientifiche attuali, è una di quelle che ha più disperato bisogno di appiglio e di aiuto.

Noi non pretendiamo affatto, in questa sede, di dire una parola nuova circa la trattazione del problema del paesaggio, specie per quanto riguarda il lato pratico della sua difesa, o tutela, o conservazione, che dir si voglia. Non lo potremmo, del resto, e per varie ragioni. Non è possibile, o almeno non ci sembra possibile, enunciare una metodologia generica di carattere tecnico-legale sull’argomento. La solita affermazione della riconosciuta necessità della disamina caso per caso ormai pecca di scarsa originalità e non è che un’inutile ed ovvia ripetizione. Inoltre tutte le considerazioni che si presentavano più o meno evidenti, e le proposte che apparivano necessarie sia dal punto di vista teorico che da quello pratico, sia in campo artistico-architettonico, sia urbanistico, sia legale, sono state egregiamente esposte e discusse dai differenti studiosi specializzati. La nostra dibattuta preparazione del prossimo Congresso di Lucca, i convegni di “Italia Nostra”, tra cui particolarmente notevole l’ultimo di Firenze, i vari articoli più o meno polemici ispirati all’ultima Triennale, lasciano ben poco margine per chi non intenda ripetere cose già dette da altri o non voglia assumersi il compito, che a noi non spetta, di sintetizzarle prima che esse vengano vagliate e commentate in un apposito convegno.

Non ci resta che di contribuire, come ci proponiamo, al chiarimento di alcuni argomenti già trattati ma che ci sembrano suscettibili di una più esauriente puntualizzazione.

La prima difficoltà che si è incontrata nel corso del dibattito è stata quella di definire o, per essere più esatti, di puntualizzare il concetto di paesaggio, quale è e deve essere inteso nel nostro caso particolare. Si tratta, come si è potuto notare, di una questione di una delicatezza estrema, di cui non bisogna sminuire l’importanza, considerandola alla stregua di una dissertazione accademica più o meno brillante. È troppo ovvio che non si possa discutere di un fenomeno qualsiasi se non se ne penetri prima l’essenza e se ne riconosca la natura; e che, pertanto, solo chiarendo la genesi e l’evoluzione del concetto espresso dalla parola in questione, noi potremo rintracciare i requisiti necessari alla sua validità e passare poi a precisare quelle misure che tale validità intendono salvaguardare.

Il concetto di “paesaggio” è dunque risultato, alla prova dei fatti, di definizione non agevole. E non a torto, che questa, come altre parole passate, per un criterio di analogia che inizialmente poteva considerarsi addirittura una identità di significato, dal linguaggio di uso comune a quello specifico di una disciplina che rappresenta sostanzialmente un diverso atteggiamento spirituale, è venuta di mano in mano alterando il significato primitivo, fino ad acquistarne uno nuovo, scarsamente riavvicinabile a quello di origine, con l’estendersi e l’intensificarsi della portata della sua espressione nel campo nuovo.

È così che il termine paesaggio, quale secondo la sua etimologia doveva essere inteso nell’eccezione comune, e cioè quel complesso di elementi naturali ed artificiali che concorrono e contribuiscono a dar forma e carattere ad una porzione di territorio, nonché la veduta panoramica di esso cominciò a rivestire un decoro estetico e ad animarsi di un affiato di intellettualità quando fu adottato in campo artistico per significare la raffigurazione pittorica o letteraria di quel fenomeno naturale. E l’interpretazione e l’importanza che al paesaggio venne data, caratterizzano, come è noto, i vari atteggiamenti che si sono susseguiti in ordine di tempo nell’evoluzione della storia dello spirito umano.

Sia nel primo che nel secondo caso, però, l’elemento naturale veniva considerato, per così dire, dall’esterno, come un insieme spontaneo o una rappresentazione artificiale di cui l’uomo era spettatore, contemplativo o attivo, ma pur sempre spettatore.

Il concetto espresso dalla parola doveva invece intimamente mutare, nell’essenza e non solo in superficie, allorché essa fu presa in prestito da una scienza, sia pure antica, ma per l’espressione di idee nuova, quando, cioè, offrendosi l’immagine dell’universo in una visione completamente mutata, l’uomo venne ad inserirsi nella natura ed a farne parte integrante, ed il paesaggio cessò conseguentemente di essere considerato oggettivamente come una porzione più o meno estesa e pittoresca di territorio da osservare o rilevare, per diventate la risultante materializzata del rapporto, o meglio delle rete di rapporti, dell’uomo con essa. Ciò avvenne ad opera dei geografi, che, riscoprendo la Terra alla luce delle nuove tendenze scientifiche e filosofiche, distinsero un originario paesaggio naturale, creato da forze naturali endogene e rimodellato da forze naturali esogene, ed un paesaggio secondario geografico od umanizzato, profondamente trasformato dall’azione modificatrice dell’uomo, condizionata, a sua volta, dall’influenza delle forze naturali. E così importante e basilare è diventato questo concetto della moderna geografia, che ormai questa scienza viene considerata e definita come la conoscenza del paesaggio geografico in vista dei rapporti scambievoli tra l’ambiente naturale e l’uomo o il gruppo umano che in esso vive.

Partendo dallo stesso presupposto, pur con le inevitabili modificazioni imposte dal differente punto di vista, possiamo parlare del paesaggio che, per intenderci, chiameremo paesaggio urbanistico e che è rappresentato dal risultato di queste successive modificazioni, preso nella sua espressione concreta ed attuale, e prescindendo dal sopraccennato rapporto di causalità o meglio di interdipendenza.

Infatti, se la geografia si limita allo studio del paesaggio umanizzato a scopo di conoscenza, l’urbanistica o, in senso più lato la pianificazione territoriale, completa il processo nella parte pratica, prendendo in esame le espressioni concrete lasciate dall’uomo nell’estrinsecazione delle sue relazioni con la Terra, le cosiddette “tracce topografiche” ed intervenendo attivamente nella modificazione di esse. Tali tracce, impronte materializzate delle attività connesse alle suddette relazioni, e cioè le case e gli edifici derivati dall’abitazione e dalla costruzione, le strade agevolanti la circolazione, e le valorizzazioni e trasformazioni strutturali riguardanti la coltivazione in genere (ci è già accaduto di osservare che, oltre ad una coltivazione delle risorse del suolo in superficie, e cioè agricola, ed una delle risorse del sottosuolo, e cioè industriale, possiamo annoverare un terzo tipo caratteristico di valorizzazione delle risorse naturali a scopo turistico o di amenità); tali tracce, dicevamo, inquadrate nella loro cornice naturale si presentano come gli elementi costitutivi del paesaggio urbanistico. Esso, pertanto, si deve distinguere in due tipi principali, paesaggio urbano e paesaggio rurale, a seconda che prevalgano in esso elementi artificiali, opera dell’uomo (sovrastrutture ed infrastrutture) o che il processo di modificazione si sia maggiormente estrinsecato nel rimodellamento degli elementi naturali.

Facciamo notare:

1) che nella proposta denominazione l’uso dell’attributo urbano sconfina da quello che gli competerebbe secondo l’etimologia (l’urbs dovrebbe essere piuttosto considerata come agglomerato anziché come città). Sinonimo di paesaggio urbano è, pertanto, paesaggio costruito, espressione molto meno diffusa se pure più significativa;

2) che d’altra parte, con la specificazione rurale (da rus = campagna in senso generico, in contrasto con agglomerato) si intende; oltre al paesaggio trasformato per motivi economici, quello adattato per esigenze estetiche;

3) che, conseguentemente, essendo molto difficile se non impossibile, trovare allo stato attuale, il tipo ideale di entrambi, il nostro concetto di paesaggio urbano e rurale si basa su un criterio di densità, considerata però da un punto di vista urbanistico, e, cioè, densità di costruzione anziché densità di popolazione, quale è espressa dagli attuali coefficienti di urbanizzazione;

4) che l’impiego, consacrato dall’uso corrente, delle denominazioni paesaggio naturale e paesaggio artificiale invece che rurale ed urbano, ci sembra alquanto improprio, in quanto non esiste attualmente paesaggio rurale in cui l’opera dell’uomo non sia entrata a creare artificialmente condizioni di vita e ad adattarlo ai suoi bisogni, ed alle sue esigenze, anche quando egli si è, a ragion veduta, astenuto dall’intervenire, conservandogli, come è stato giustamente osservato, “artificialmente i suoi caratteri naturali”. È necessario inoltre ricordare che l’attributo “ naturale” riferito al paesaggio rurale è stato talvolta inteso in un senso del tutto diverso, e cioè come dice lo Sharp “non forzato in schemi formali ma libero di svilupparsi” ovvero “modellato per uso normale anziché per effetto monumentale” ;

5) che fino ad oggi, ed anche fra gli urbanisti, quando si dice paesaggio tout court si intende indicare generalmente quello che noi abbiamo chiamato paesaggio rurale e, più spesso, quel particolare paesaggio rurale che è sviluppato a scopo estetico o, come suol dirsi, di amenità. (Ciò accade in tutte le lingue, tant’è vero che fra gli inglesi si comincia a notare un “Townscape” in opposizione a “Landscape” a scopo di precisazione). Lo stesso Mumford, uno dei più noti teorici del regionalismo, quando parla del movimento di valorizzazione del paesaggio o di cultura dell’ambiente, in tema di pianificazione regionale, indugia unicamente sulle misure adottate o da adottare per la conservazione del paesaggio rurale o naturale. Solo di recente, a proposito di tutela o difesa di esso, e particolarmente noi italiani, per ragioni molto evidenti ma che ci proponiamo di riesaminare fra poco, vi andiamo includendo quello di tipo storico-archeologico. Noi affermiamo, invece, che è giusto comprendere nella parola “paesaggio”, usata in senso assoluto e senza qualificazioni di sorta, tutto il complesso di elementi naturali ed artificiali che formano e caratterizzano un determinato ambiente. Sotto tal luce deve considerarsi la proposta del Vittoria di riconoscere nel paesaggio urbanistico “tutte le opere naturali ed artificiali che l’uomo costruisce” in quanto queste costituiscono la forma attuale di esso e particolarmente quella che ricade nel dominio del pianificatore;

6) che, infine, non sarà superfluo far rilevare la differenza che passa tra le parole “ambiente” e “paesaggio”, talvolta usate impropriamente l’una al posto dell’altra, ma sempre in riferimento all’uomo che vi è insediato. L’ambiente è l’insieme degli elementi naturali e climatici che caratterizzano una porzione di terra in cui l’uomo vive; dal verbo ambire, esso è costituito da tutto ciò che lo circonda. Ma quando in tale ambiente l’uomo si è inserito, si è espresso e realizzato, da solo od in gruppo, egli ha dato origine al paesaggio che proviene dalla sintesi delle azioni congiunte sue e dell’ambiente stesso. Un biologo ed un ecologo (l’ecologia, per quanto di nascita posteriore come scienza separata, può intendersi riassumere in sé anche il concetto biologico) possono, sia pure da un punto di vista differente, parlare di ambiente; un geografo ed un urbanista si esprimeranno in termini di paesaggio. Ed a proposito di parole che, in campo diverso, mutano di significato, vogliamo far notare l’uso della parola “ambiente” nel linguaggio artistico-architettonico. In ,esso il concetto di zona singolarizzata e conclusa è completato da quel senso di naturale armonica unità e di atmosfera caratteristica che ci richiama alla mente i più noti esempi di ambienti, quali sono offerti dalle nostre belle città italiane.

Posto così il concetto di paesaggio urbanistico nei suoi due tipi rurale ed urbano, e considerando che ogni spazializzazione, di natura geografico-urbanistica, realizzando l’uomo e concretizzando la sua esistenza, come individuo e come gruppo, comporta anche una temporalizzazione ed ha quindi insita una sua storicità, ci è facile individuare un aspetto o, se si vuole, una fase del primo in quel “paesaggio con cospicuo carattere di bellezza naturale e di singolarità geologica” che, reso valido dal tempo, ha assunto un carattere di interesse pubblico; come dal secondo, inteso in senso lato, deriviamo quel paesaggio artistico di valore storico ed archeologico che costituisce un vero patrimonio culturale per la nazione che lo possiede.

Entrambi questi aspetti non costituiscono che forme materializzate di persistenze dell’opera di modificazione svolta dall’uomo nel tempo le quali presentano carattere di particolare interesse estetico, artistico o storico. Tali persistenze, siano esse concretizzate in monumenti, edifici o complessi di edifici, o insediamenti di varia estensione, o siano intimamente penetrate nella struttura stessa del paesaggio, riplasmandone o valorizzandone le primitive caratteristiche ambientali, sono venute in contatto con la lunga inevitabile serie di susseguenti modificazioni derivate dall’insorgere di nuove condizioni di vita e quindi dal nascere di nuovi bisogni e vi si sono talvolta inserite automaticamente in modo più o meno omogeneo, talvolta vi son rimaste quasi atrofizzate nel tempo come trapianti estranei nel bel mezzo di tessuti vitali in continuo sviluppo, talvolta infine vi sono state deteriorate e minacciate di distruzione, quando non siano state parzialmente distrutte o siano per esserlo. È perciò che, come è stato giustamente detto, il problema della conservazione del paesaggio naturale e della difesa di quello archeologico è un problema dì riequilibramento, ad andamento dinamico come tutti quelli che si riferiscono ad un organismo in evoluzione e, come quelli, non schematizzabile in una metodologia unica. Come quelli, però, è da risolversi non localmente, bensì globalmente; nel nostro caso in sede di pianificazione territoriale, ed è da affiancarsi alle misure per la valorizzazione dell’attuale paesaggio urbano e la conservazione di quello rurale di cui non è che un parziale aspetto. È così dunque, ripetiamo, che il concetto di valorizzazione e conservazione del paesaggio viene a profilarsi come un processo unico, a cui corrisponderanno in sede di applicazione pratica le diverse misure adatte al caso, corrispondenti ai differenti aspetti del paesaggio, considerati nella loro concretezza attuale, o alle sue differenti fasi, considerate storicamente, nella loro temporalizzazione.

Non ci sembra fuori luogo ricordare che gli inglesi, che per primi, nell’immediato dopo guerra, si trovarono ad affrontare praticamente una situazione del tipo nella ricostruzione di alcune della loro città bombardate, veri gioielli architettonici di quel gotico inglese che è cosi caratteristico dei loro ambienti conclusi, e che, d’altra parte, non potevano prescindere dalle tendenze paesaggistiche, né dimenticare l’amore per il verde che li aveva fatti i pionieri delle città giardino, enunciarono, fin dall’inizio della loro delicata opera, la necessità di considerare accanto alla pianificazione territoriale (physical planning) che ci si presenta come quel complesso di modificazioni dell’ambiente umano eseguite su base geografica e volte a scopi economici e sociali (nell’ambito cioè della residenza, del lavoro, dello svago, dei trasporti e della vita comunitaria), un processo non meno importante del primo, il visual planning, la pianificazione volta a soddisfare altri bisogni, non meno fortemente sentiti dall’uomo moderno anche se di natura più prettamente spirituale, e cioè i bisogni estetici.

È stato detto che da una buona pianificazione, condotta secondo sani criteri, scaturirà automaticamente il paesaggio del futuro; che un’oculata sistemazione delle residenze, dei servizi, del verde e degli impianti industriali, sia in sede urbana che regionale, che una razionale coltivazione del terreno destinato all’agricoltura ed un’attenta valorizzazione delle zone e dei complessi turistici, non potranno non produrre un’armonica distribuzione e disposizione di tutti gli elementi, naturali ed artificiali, costituenti il paesaggio urbanistico, nella nuova scala a cui le mutate condizioni economiche e lo sviluppo dei nuovi rapporti sociali hanno dato origine.

Questo volontarismo pianificato, mirante all’inserzione dell’uomo moderno nella sua cornice naturale riplasmata secondo criteri attuali dovrebbe, forse con minore apparente spontaneità, certo con maggiore prontezza, trovare le forme per le sue funzioni, e rispecchiarsi nella concretezza delle realizzazioni, a somiglianza di processi consimili, che molto più rudimentali e meno organizzati ma ugualmente efficaci come tutto ciò che muove contemporaneamente dall’uomo-spirito e dall’uomo-materia, lasciarono la loro traccia indelebile negli aspetti del paesaggio sia urbano che rurale che caratterizzarono le età che ci hanno preceduto. Ma il nostro, ripetiamolo, non sarà che un apporto nel quadro generale, un episodio nel processo dinamico del totale sviluppo del paesaggio urbanistico. Perché esso risulti completamente equilibrato, perché, cioè, l’unità del tutto e la coesione fra le varie parti coesistano e si determinino scambievolmente (si ricordino la continuità e l’articolazione postulate dal Benevolo come requisiti per la sua validità) è necessario che si operi in esso l’inserzione omogenea di quei complessi o di quelle zone che, pur facendone parte materialmente, sono lembi conservati o recuperati di una forma di paesaggio d’altri tempi, e, come tale, rispecchiante idee, principi, attività economiche differenti dai nostri. Particolarmente, come si è potuto ancora una volta notare nel corso dei citati dibattiti preparatori, la nostra attenzione è attirata dal paesaggio storico-archeologico, estremamente pregevole e particolarmente deperibile, la cui conservazione costituisce nello stesso tempo il lato più spiritualmente attraente e più materialmente delicato del problema. Quanto la nostra sensibilità senta l’appagamento di un suo intimo bisogno in questa viva testimonianza che ci riattacca al passato è inutile ripeterlo, come è superfluo constatare ancora una volta con quale particolare intensità tale bisogno è attualmente sentito.

Sono ormai acquisiti i vari rimedi proposti dai più valorosi e sensibili studiosi del nostro problema, è noto il dibattito per il criterio di conservazione o di restauro, nonché l’affermata necessità del proporzionamento delle masse negli ambienti, l’opportunità di non superare, in caso di ricostruzione di antichi complessi o di vecchi nuclei urbani, la cubatura in senso quantitativo ed altimetrico degli edifici preesistenti. È nota la serie di misure da osservare in sede di pianificazione, di recente riassunte egregiamente dal Quaroni, l’importanza del piano aperto, la necessità di deviazione del traffico, a cui si rifanno quelle direttive di pianificazione precintuale (precinctual planning) di cui demmo cenno in alcuni nostri articoli fin dal 1948 ed a cui si sono ispirati i primi grandi piani urbanistici britannici di ricostruzione [1].

Pure, alla fine delle nostre considerazioni, non possiamo tacerne una che ci sembra realmente conclusiva e che, comunque si affronti il ragionamento, è sempre la stessa: data l’estrema mutevolezza ed inafferrabilità degli elementi, e prescindendo da quei pochi precetti generali che possono servire da guida in ogni caso, la soluzione del problema che ci siamo proposti nei riguardi del nostro paesaggio urbanistico inteso in senso integrale, e cioè di valorizzazione della sua espressione moderna e di conservazione e difesa di quella preesistente, deve scaturire principalmente dall’educazione e dalla chiaroveggenza dei pianificatori e dal loro tradizionale buon gusto e senso della misura.

Gli italiani, come il Faure dice per i francesi, anzi ancora più di loro, sono soprattutto architetti, sono artisti nell’anima. Ma dalle stesse esigenze della vita moderna sorge da ogni parte il monito, ormai imperioso, che l’ora è giunta che l’architettura reintegri l’urbanistica ed identifichi nella sua missione una missione sociale. E che il pianificatore tratti forma ed essenza con l’oculatezza necessaria ad equilibrare le due facce del suo processo modificatore della sede umana; che si adoperi affinché, da una parte, non vengano vandalicamente distrutte le irriproducibili, pregevoli opere d’arte che ci sono pervenute attraverso il tempo, ma che sappia, dall’altra, discernere ed evitare il pericolo di sterilizzare, per un malinteso concetto di conservazione, ampi tratti di utile territorio di estrema necessità all’esplicarsi della vita sociale; che non tenti di far rivivere, nelle sue opere di rimodellamento, schemi ormai superati, né, d’altra parte, con deprecabile foga di eccessivo modernismo rinnovatore, deturpi quegli ambienti che del passato serbino ancora integra la loro vitalità e compiono ancora la loro particolare funzione; che, nel conflitto tra conservazione e progresso, sappia contemperare gli elementi dell’antico e del nuovo in quella giusta proporzione per cui l’intero organismo pianificato non venga ad essere turbato nell’estrinsecazione delle sue funzioni vitali ed assuma un’impronta di bellezza che sia la risultante di tutta l’opera di appassionato rimodellamento che vi è stata prodigata nei secoli.

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[1] Uno dei primi esempi di applicazione dei principi di conservazione degli ambienti antichi e della loro integrazione nel paesaggio moderno si ha nella ricostruzione di Exeter eseguita da Thomas Sharp. Vogliamo ricordarne qui l’esposizione introduttiva. Dopo aver esaminato le varie soluzioni possibili ed avere scartato il restauro fedele e pedissequo degli ambienti monumentali non meno che la ricostruzione imitativa, l’urbanista inglese si pronuncia in favore del rinnovamento. “Un rinnovamento – egli dice – non distruttivo ma comprensivo, che si basi sull'osservanza della scala e dello schema e sulla creazione di forme intime anziché monumentali. Esso non richiede il sacrificio dei requisiti e delle esigenze moderne. Al contrario potrà soddisfare le moderne condizioni di vita ed incorporare i moderni ideali democratici. Anche oggi – egli aggiunge – l’intimità è una caratteristica desiderabile. E sebbene le esigenze dei trasporti, larghe strade ed ampi incroci, la distruggano, quando il traffico principale è canalizzato fuori delle mura della città, queste esigenze non cozzano con il mantenimento di tale caratteristica”.

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